C’È L’ALDILÀ?
Salvezza e dannazione sono sempre stati temi appassionanti.
Dopo secoli di “pessimismo” teologico (i dannati sono più dei salvati), molti
si sono dichiarati a favore dell’ipotesi che tutti gli esseri umani possono
ottenere la salvezza, e che probabilmente tutti la otterranno effettivamente.
Non si nega l’esistenza dell’inferno, si spera però che sarà vuoto.
K. Rahner tiene ferme le due estremità della catena: da un
lato dobbiamo ritenere la possibilità reale di una dannazione eterna,
dall’altra dobbiamo dire che c’è una disparità tra il “sì” e il “no”. Il no
della creatura non possiede già lo stesso diritto e lo stesso valore del sì
detto a Dio, perché ogni no prende sempre a prestito dal sì la vita che
possiede, perché il no risulta comprensibile solo e sempre partendo dal sì e
non viceversa. In altre parole il discorso del paradiso e quello dell’inferno
non stanno sullo stesso piano, perciò una salvezza universale è possibile.
H. Urs von Balthasar rifiuta l’idea secondo cui l’inferno
sarà vuoto alla fine dei tempi, ma evita anche l’affermazione che ognuno verrà
effettivamente salvato. Abbiamo il diritto e il dovere di sperare che tutti
saranno salvati. Von Balthasar chiama, a sostegno della propria posizione, il
pensiero di Teresa “la piccola”: poiché l’amore misericordioso di Dio scende su
ogni uomo, dice la compatrona delle missioni, è probabile che tale amore abbia
un effetto trasformatore sulla vita di ognuno. Nella misura in cui si aprono a
questo amore infinito, le persone entrano nell’ambito della redenzione. Perciò
è possibile sperare che l’amore onnipotente di Dio trovi strade per stravolgere
la resistenza dell’uomo, offrendosi a Dio non come una vittima (sacrificale)
della giustizia, bensì come una vittima della misericordia.
La convinzione dei teologi meno recenti sul piccolo numero
dei salvati è riconducibile al presupposto che le condizioni indispensabili per
la salvezza siano la fede in Gesù Cristo, il battesimo e l’appartenenza alla
Chiesa. Negli ultimi secoli è diventato comune parlare però di una fede
implicita, di un battesimo in voto (di desiderio) e di un’appartenenza
interiore alla Chiesa. Il Vaticano II ha dichiarato che tutti gli uomini,
persino «quelli che senza colpa ignorano il vangelo di Cristo e la sua Chiesa,
e tuttavia cercano sinceramente Dio, e sotto l’influsso della grazia si
sforzano di compiere con le opere la volontà di Dio, conosciuta attraverso il
dettame della coscienza, possono conseguire la salvezza eterna» (LG 16).
Papa Giovanni Paolo II, durante un’udienza generale nel
1999, ha affermato: «La dannazione rimane una reale possibilità, ma non ci è
dato di conoscere, senza speciale rivelazione divina, se e quali esseri umani
vi siano effettivamente coinvolti. Il pensiero dell’inferno — tanto meno
l’utilizzazione impropria delle immagini bibliche — non deve creare psicosi o
angoscia, ma rappresenta un necessario e salutare monito alla libertà,
all’interno dell’annuncio che Gesù Risorto ha vinto satana, donandoci lo
Spirito di Dio, che ci fa invocare “Abbà, Padre”». Su questa linea il
Catechismo della Chiesa Cattolica: «La Chiesa prega perché nessuno si perda»
(1058); «Nella speranza la Chiesa prega che “tutti gli uomini siano salvati” (1
Tm 2,4)» (1821): qui si percepisce subito il legame necessario tra la lex orandi
e la lex credendi.
SPERANZA
DI VITA MIGLIORE
In realtà la odierna riflessione sui novissimi (morte,
giudizio, inferno, paradiso) sta riqualificandosi anche perché si muove nella
direzione di conferire un senso migliore alla vita, per non perderne il senso e
per non precipitare nella disperazione.i Avanza infatti una cultura di morte
(rimossa, desiderata e spettacolarizzata), che tende a giustificare aborto,
suicidio, eutanasia, droga ecc. In fondo, come diceva Metastasio, oggi si pensa
sempre più spesso che non è vero che sia la morte il peggior di tutti i mali; è
un sollievo de’ mortali che son stanchi di soffrir.
C’è bisogno allora di un annuncio di vita, come sapeva farlo
Gesù. Egli, di fronte alla morte dell’amico Lazzaro, fa togliere la ruota di pietra
che sigilla il sepolcro: toglie la separazione tra al di là e al di qua.
Prendendo “carne” accoglie il dolore, la malattia e la morte facendoli
diventare rivelazione d’amore. Nella tragica esperienza della croce, Gesù
infatti rivela che vivere è amare e amare è donarsi. «Nel nascere si diede come
amico, nel convito come cibo, nel morire si dà in riscatto, nel vivere si dà in
premio» (san Tommaso, inno festa Corpus Domini). Gesù muore nella logica con
cui è vissuto e il credente muore “in” lui. La morte diventa il compimento di
un evento da vivere in e con il Cristo pasquale, non un segmento temporale da
attraversare. E dunque «a giudicarci non sarà un estraneo, bensì colui che già
conosciamo tramite la fede. Il giudice non ci verrà incontro come il totalmente
Altro, bensì come uno di noi, che conosce l’essere umano dal di dentro e ha
sofferto» (J. Ratzinger, Introduzione al cristianesimo, Queriniana, p. 317).
Dare un senso alla morte significa viverla insomma come un
parto e insieme come una “livella” di tutte le differenze antropologiche e
sociali. Significa anche preparala nella fede (si apre la porta della relazione
con la felicità eterna), nella speranza (ci si distacca dalla realtà creata,
facendo spazio alla pace) e nella carità (Dio amore si fa presente anche
attraverso coloro che assistono il morente). Tutt’altra prospettiva rispetto a
quella espressa nella famosa sequenza medievale del Dies irae, che capovolge la
gioiosa speranza d’attesa delle comunità cristiane delle origini per generare
un clima di paura e di angoscia. Da quel momento domina il tema del giudizio,
con quel penoso accertamento del bene o del male compiuti al posto della serena
assimilazione della parola di Dio.
Perciò va ribadito che «in un mondo dominato da un alto
tasso di disagio, non spetta alla fede contribuire ad aumentare l’angoscia; è
invece suo compito accrescere la speranza e ampliare i confini senza
diminuirne, per questo, l’importanza della responsabilità» (G. Colzani).
Ricordiamo sempre il filosofo e matematico francese Blaise Pascal che, con
cuore appassionato, ci offre una saggia indicazione su dove tendere per la
conquista del paradiso: né solo dentro né solo fuori di noi stessi, la felicità
«è in Dio, ossia è fuori e dentro di noi» (Pensieri 445). Ma ricordiamo anche
la serena ironia di Georges Bernanos, che chiede come epigrafe per la sua
tomba: «Si prega l’Angelo trombettiere di suonare forte; il defunto è duro
d’orecchi».
M. C.
1 Vedi l’agile volumetto del docente cappuccino Ubaldo
Terrinoni, C’è l’aldilà. Indagine biblica sulle ultime realtà dell’uomo, EDB, Bologna
2006, pp. 199, € 16,00.