CHIESA D’ALGERIA
O DELLA DEBOLEZZA
Estremamente debole è la chiesa d’Algeria: lo
dicono i numeri e lo dicono i dati sociologici relativi alla sua configurazione
attuale. Così l’arcivescovo di Algeri mons. Henri Teissier la racconta in ogni
suo intervento pubblico inteso a dare ragione di una sopravvivenza della Chiesa
affidata unicamente alla fedeltà “dei pochi” che credono alla “missione nella
debolezza”.
Già durante l’anno 2000, in una conferenza tenuta a
Sacrofano l’arcivescovo descrisse così ai seminaristi italiani la Chiesa che
vive nella città algerina di Mascara (leggiamo le sue parole nel suo più
recente libro1): «In questa località vivono due preti: un domenicano che si
occupa di una biblioteca per gli studenti specializzata in agronomia, e uno
spiritano che anima un centro di formazione femminile e diverse iniziative di
sviluppo. Vi sono anche due religiose impegnate nel centro femminile
frequentato da cinquecento donne, per la maggior parte adulte e madri di
famiglia. Non ci sono altri cristiani in città al di fuori di due donne europee
sposate con algerini. Eppure i due preti e le due suore sono conosciuti e
stimati dalla maggior parte degli abitanti, tutti musulmani. Sono “la Chiesa”,
in questa città». Una città che bene simboleggia la situazione dell’intera
chiesa d’Algeria nel quadro storico che l’ha determinata e condizionata.
UNA CHIESA
MORTA TRE VOLTE
Allorché, nel 1962, l’Algeria divenne indipendente
dalla Francia, un milione di europei quasi tutti cristiani la lasciarono. E con
loro partirono «alcune migliaia di cristiani di origine algerina e musulmana
diventati cristiani durante il periodo coloniale, soprattutto in Cabilia e nel
Sahara. È stata la prima morte della nostra chiesa, ormai privata dei suoi
fedeli e ben presto delle sue strutture»: così ancora mons. Teissier nella
conferenza a Sacrofano, che seguiamo nel suo racconto delle prime tre e delle
tante altre morti della chiesa d’Algeria.
Durante i primi trent’anni di indipendenza un nuovo
corpo ecclesiale poté darsi, nel Paese, con la presenza di alcune migliaia di
cooperanti, tecnici e insegnanti: furono questi a portare assieme ai rimasti
«la responsabilità della testimonianza cristiana della nuova chiesa nella
società algerina musulmana».
Tre decenni, di questa “nuova” chiesa, e i segni
della seconda morte si fanno presto realtà: nel 1993, lo stato di emergenza del
paese, già decretato dall’Alto Comitato di Stato per un anno, venne prolungato
a tempo indeterminato e a quel punto si trattò di partenza degli stranieri in
quanto cristiani, contro i quali dal 1º dicembre di quell’anno cominciarono gli
attentati: «Il 14 del mese di dicembre 1993, dodici tecnici croati di un
cantiere vicino al monastero di Tibhirine venivano assassinati perché
cristiani. Tre di loro sfuggirono alla morte facendosi passare per musulmani,
uno di essi conosceva la Fathia (il Padre nostro dell’Islam)».
E venne presto la volta dei religiosi e delle
religiose: «L’8 maggio 1994 ebbe luogo il primo attentato contro i religiosi,
un padre marista e una suora dell’Assunzione. Furono assassinati nella
biblioteca per liceali (musulmani e musulmane) che animavano nel quartiere
popolare della Casbah di Algeri. Dopo questo nuovo assassinio, il Gruppo
islamico armato (GIA) diffuse un volantino nel quale dichiarava: “Nel quadro
della politica di eliminazione degli ebrei, dei cristiani e dei miscredenti
dalla terra musulmana d’Algeria, una brigata del GIA ha teso un’imboscata nella
quale ha ucciso due crociati che avevano trascorso molti anni a diffondere il
male in Algeria”».
Una vera “politica” decretava dunque la scomparsa
della Chiesa, e fu la seconda morte di quella d’Algeria: partì la quasi
totalità delle famiglie cristiane formatesi in quei trent’anni, comprese quelle
che appartenevano al piccolo gruppo di cattolici algerini; partirono la metà
delle comunità religiose femminili, le 28 monache Clarisse e la comunità delle
Piccole Sorelle dei Poveri, così che delle 222 religiose presenti nel 1993
nella diocesi di Algeri non ne restarono che 70. Ancora troppe per il GIA.
OLTRE
LA TERZA MORTE
C’era nell’aria, infatti, il senso della morte
fisica e questa doveva colpire, tra il 1994 con l’assassinio di quattro Padri
Bianchi e il 1996 con quello dei sette monaci di Tibhirine e del vescovo di
Orano Pierre Claverie, una chiesa già oltremodo stremata di forze alla quale
vennero a mancare venti tra i suoi membri permanenti, cattolici determinati a
restare non per cieca ostinazione ma per «essere la Chiesa di Cristo per una
società musulmana».
Era la terza morte, alla quale – aggiunge
l’arcivescovo Teissier – altre morti erano state inflitte alla comunità
d’Algeria in seguito alla partenza dei fedeli dopo l’indipendenza: circa 700
chiese o cappelle trasformate in moschee, in centri culturali e altro; la
nazionalizzazione di tutte le strutture di servizio, per cui la diocesi ha
dovuto lasciare un centinaio di scuole o centri di formazione professionale,
decine di asili, ospedali, dispensari, centri per ragazze, laboratori di
cucito: rimanendo così senza alcuna delle strutture con cui le comunità
avrebbero potuto sostenere la propria testimonianza cristiana.
E tuttavia questo “piccolo gregge” non si è chiuso
in se stesso. Dice l’arcivescovo di Algeri, nella sua lucida visione della
realtà e della missione ecclesiale: «Ho ricordato le prove che hanno colpito la
nostra Chiesa. Ma non l’ho fatto per invitare a piangere con noi sulle
sofferenze della nostra comunità. Ci siamo consolati della perdita dei nostri
edifici, delle nostre chiese e delle nostre istituzioni. Certo non potremo mai
dimenticare i fratelli e le sorelle che ci sono stati portati via dalla
violenza e soffriamo per aver visto patire il nostro popolo cristiano. Ma
all’interno di queste sofferenze abbiamo approfondito la nostra missione e i
rapporti con i nostri partner musulmani... C’è sempre un popolo in Algeria. È
un popolo musulmano, ma è il popolo che Dio ci ha dato da incontrare, da
servire, da amare e col quale dobbiamo operare per la salvezza. Abbiamo perso,
tappa dopo tappa, la nostra consistenza numerica. Ma Dio non ci ha richiamato
dalla nostra missione. Al contrario, questa è diventata più evidente che mai».
Le vicende attraversate e la riflessione sui modi
della presenza di Dio in esse hanno portato la piccola chiesa d’Algeria ad
ampliare – dice mons. Teissier in altra parte del libro – il suo concetto di
testimonianza. «Nella vita del cristiano c’è un dono di Dio per il musulmano.
Ma nella vita del musulmano o di ciascun uomo di buona volontà c’è anche un
dono di Dio per il cristiano. La missione è sempre, qui come altrove,
testimonianza resa a Cristo e alla sua azione nel mondo. Il cristiano è per il
non cristiano il sacramento dell’incontro con Gesù, col Vangelo e con la
Chiesa. Ma il non cristiano è anche per il cristiano il servitore di un
incontro con il dono che Dio gli ha fatto nella sua storia personale e in
quella della sua comunità spirituale».
Missione nella debolezza, missione nella pazienza.
Con problemi interni alla comunità ecclesiale d’Algeria, per quanto ridotta
numericamente, e problemi che coinvolgono l’ambiente culturale esterno come per
esempio quello dei matrimoni tra cristiane e musulmani e viceversa o quelli
riguardanti la ricerca del dialogo e delle possibili strade verso la pace. Di
tutti questi argomenti le pagine del libro traboccano, libere e rispettose,
istruttive e forti di una testimonianza che affascina per la dignitosa serenità
che la riveste.
Z.P.
1 TEISSIER H., Cristiani in Algeria. La chiesa
della debolezza, EMI, Bologna 2004, pp.192, ¤ 10,00.