IL PRIORE GENERALE ALLA FAMIGLIA CARMELITANA

DALLA CONTEMPLAZIONE ALL’AZIONE

 

Solo guardando il mondo con gli occhi di Dio è possibile percepire il “grido dei poveri”.

La “notte oscura”, per quanto lunga e dolorosa, si apre su una più profonda conoscenza di Dio. L’impegno per la giustizia e la pace non è un optional, ma una sfida urgente per tutta

la famiglia carmelitana.

 

«Il Cristo incontrato nella contemplazione è lo stesso che vive e soffre nei poveri». Con questo passo, tratto da Vita consecrata, il priore generale dei carmelitani, Joseph Chalmers, conclude la sua recente lettera alla famiglia carmelitana su Il Dio della nostra contemplazione. È una meditazione intensa, profonda, che partendo dalla dimensione contemplativa, propria del Carmelo, si apre alle tante esigenze di giustizia e di pace del mondo di oggi.

Tutti gli elementi fondamentali del carisma carmelitano si ritrovano nella regola di s. Alberto, patriarca di Gerusalemme, approvata da Innocenzo IV nel 1247. Il principio guida di questa regola, a cui, non avendo un fondatore nel senso stretto del termine, si sottopose liberamente il gruppo di eremiti che tra il 1206 e il 1214, decisero di vivere insieme sul monte Carmelo, è uno solo: la trasformazione in Cristo.

È interessante apprendere da questo documento come la regola assuma il ritmo della lectio divina come via per arrivare alla contemplazione. La lectio divina, infatti, «fu praticata per centinaia di anni prima di ogni tentativo di definizione». Le sue stesse quattro fasi (lettura, meditazione, preghiera e contemplazione), elaborate dal certosino Guigo verso il 1150 nel suo libro La scala dei monaci, non volevano essere altro che dei semplici “sussidi didattici” per i giovani che entravano a far parte di comunità religiose. I quattro stadi della lectio, così come è stata vissuta fin dalle origini dei carmelitani, erano puramente strumentali al perseguimento dell’obiettivo finale della loro preghiera: la trasformazione in Cristo.

 

IL GRIDO

DEI POVERI

 

Fin dalle origini l’ordine ha sempre visto la contemplazione come il cuore della propria vocazione. Proprio pensando alla “sapienza” di santa Teresa e di san Giovanni della croce, le attuali costituzioni dei carmelitani possono affermare che «la tradizione dell’ordine ha sempre interpretato la regola e il carisma fondante come espressione della dimensione contemplativa della vita e a questa vocazione contemplativa si rifanno sempre i grandi maestri spiri­tuali della famiglia carmelitana». La dimensione contemplativa, si ribadisce in un importante documento sulla formazione, «non è soltanto uno tra gli altri elementi del nostro carisma (preghiera, fraternità e servizio), ma è l’elemento dina­mico che li unifica tutti.

Nella preghiera ci apriamo all’azione di Dio che gradualmente ci tra­sforma attraverso tutti gli eventi grandi e piccoli della vita. Questo pro­cesso di trasformazione ci rende capaci di instaurare e mantenere rap­porti fraterni autentici, disponibili al servizio, alla compassione, alla solidarietà, capaci di presentare al Padre i desideri, le angosce, le spe­ranze e le grida degli uomini». La dimensione contemplativa non è una via privilegiata solo per cogliere la presenza di Dio nella propria vita, ma anche per «vedere il mondo con i suoi occhi… cercare il suo volto, riconoscerlo, amarlo e servirlo nei fratelli».

Da queste premesse nasce il concreto interesse dei carmelitani nei confronti della conservazione del creato, della giustizia e della pace nel mondo di oggi. «Non possiamo, scrive padre Chalmers, rimanere indifferenti di fronte al grido dei poveri». Ma non basta «fare qualcosa» per i poveri. Bisogna anche avere il coraggio di interrogarsi sul perché di questa situazione e sul che cosa sia possibile e doveroso fare al riguardo. Solo lasciandosi interpellare dai poveri e dagli oppressi, è possibile venire interiormente trasformati e incomin­ciare a vedere il mondo con gli occhi di Dio e ad amarlo con il suo cuore; solo così è possibile sentire il grido dei poveri e sforzarsi di condivider­e la sollecitudine, la preoccupazione e la compassione per gli ultimi.

Per arrivare, però, a vedere la realtà con gli occhi di Dio, è necessario un lungo e doloroso processo di trasformazione personale e comunitario. I carmelitani, da sempre, sono aiutati e guidati in questo cammino sia dal profeta Elia che da Maria. Soprattutto negli ultimi anni i carmelitani hanno scoperto l’importanza del profeta Elia «come figura ispiratrice di giustizia e di pace», per «aver denunciato senza paura le azioni dei potenti del suo tempo, portando la luce della parola di Dio all’interno di situazioni di peccato». La storia della vigna di Nabot e il modo inaspettato con cui Elia ha incontrato Dio sul monte Oreb, lo stanno a dimostrare.

L’amore del tutto particolare a Maria, poi, può essere sintetizzato nel detto di Tito Brandsma: «La vocazione del carmelitano è essere un’altra Maria». Per quanto importante possa essere, non basta però fermarsi a imitare le sue virtù. Sul suo esempio, i carmelitani devono permettere a Cristo di crescere dentro di loro al punto da essere trasformati in Lui. «Lei è la donna di fede, la discepola perfetta di Gesù Cristo. Imitando la sua fede noi riusciamo a vedere oltre ciò che ci circonda». Se Maria era una “contemplativa”, questo però non significa che stesse tutto il gior­no “in ginocchio”. È contemplativo, infatti, colui che «guarda la realtà con gli occhi di Dio e ama ciò che vede con il cuore di Dio». La preghiera è sicuramente fondamentale, ma la sua autenticazione sta tutta nel vivere concreto quotidiano, senza fuggire dalla realtà, il luogo per eccellenza dove poter incontrare il Dio vivente.

 

CHE COSA

POSSIAMO FARE?

 

Proprio perché il Signore non è sordo al grido del povero, neanche i religiosi lo possono essere. Infatti «essere operatori di pace è un dovere per il cristiano. Non è un optional». Ma cosa significa concretamente essere operatori di pace? Per prima cosa è importante avere una piena consapevolezza delle “cause profonde” dei conflitti in atto nel mondo di oggi. Rileggendo la storia ci si accorge facilmente di quante volte il nome di Dio sia stato usato «per molte azioni demo­niache. È l’accuratissima maschera di satana e noi dobbiamo con­tinuamente strappare questa maschera se vogliamo essere opera­tori di pace». Sono stati e sono ancora troppi gli «atti crudeli e disumani che si commettono nel nome del Dio che si serve». Se è molto facile condannare gli altri, è invece «più difficile vedere e accettare la verità su di noi: siamo parte di quel peccato contro cui protestiamo». Non è infatti possibile contribuire alla pace nel mondo «finché non troviamo pace nel nostro cuore, finché non siamo capaci di vivere in pace con le persone attorno a noi. La mancanza di pace nella nostra vita contribuisce alla mancanza di pace nel nostro mondo».

Ma in concreto, che «cosa possiamo fare?». Anche se privi di qualsiasi potere politico, «come possiamo cambiare il mondo?». Una prima risposta operativa la famiglia carmelitana l’ha data recentemente con la creazione di una Ong (organizzazione non governativa) associata all’Onu per una più ampia condivisione del proprio carisma. Ai tanti carmelitani già coinvolti, con apposite commissioni nazionali e internazionali, nel promuovere la giustizia e la pace, il priore generale raccomanda soprattutto la preghiera. Però, in un mondo come il nostro, minacciato dall’annichilimento, «la preghiera non dirà molto se per noi è il tentativo di influenzare Dio o un rifugio spirituale o fonte di consolazione nei momenti di maggiore stress. La preghiera vera è un atto radicale che ci chiede di mettere in discussione il nostro modo di essere nel mondo, di deporre il nostro vecchio io e di accettare il nuovo io che è Cristo».

Non ci può essere preghiera senza silenzio interiore. C’è ancora «tanto rumore in noi». Solo nel silenzio interiore, un qualcosa di molto diverso da una semplice “pratica ascetica”, è possibile discernere la presenza di Dio anche nelle situazioni più critiche. Solo nel silenzio è possibile prendere atto dei tanti pregiudizi, delle tante paure irrazionali, delle tante presunzioni che paralizzano spesso il cammino nella vita consacrata. «Se non facciamo silenzio dentro, la vita ci scivola sopra e noi non afferriamo mai il vero significato di cosa ci accade». Dio si serve di ogni evento della vita, bello o brutto che sia, come “strumento di purificazione” per diventare ciò per cui si è stati creati.

Come “uomini di risurrezione” i carmelitani devono saper dire “no” alla morte in tutte le sue forme, non solo alla violenza fisica, ma anche alla violenza del cuore e della mente. Anche un semplice giudizio formulato nei confronti dell’altro, può diventare un “omicidio morale”.

«Quando giudico altri esseri umani, io li etichetto, li metto in categorie fisse e li colloco a una distanza di sicurezza da me così da non entrare in relazione con­creta e umana con loro». Dividere il mondo in buoni e cattivi significa «prendersi gioco di Dio per agire come il diavolo». Se si vuol essere fedeli all’insegnamento del Vangelo, anche il nemico “merita” l’amore, non la rabbia, il rifiuto, il risentimento. «Solo un cuore che ama può dire “no” alla morte».

Purtroppo le tante guerre ancora in atto «ci offrono ragioni per essere spaventati, se non disperati. Quando infatti sentiamo voci di morte attorno a noi e cogliamo i molti segni della superiorità del potere della morte, diventa difficile credere che la vita sia più forte della morte». Ma proprio per questo non ci si deve mai dimenticare che «il nostro è il Dio delle sorprese».

 

UN PROCESSO LUNGO

DOLOROSO E DIFFICILE

 

Fa seriamente riflettere l’insistenza di padre Chalmers nel dire che la soluzione dei gravi problemi esterni va ricercata prima di tutto proprio all’interno di noi stessi. È un’assunzione di responsabilità a cui non ci si deve mai sottrarre. «C’è un intero esercito di persone, insignificanti agli occhi del mondo, che prega e lavora per la pace. Quante persone permettono a Dio di cambiare la loro vita dal di dentro, di togliere da loro il cuore di pietra e rimettere un cuore di carne, capace di amare. Quante persone lasciano morire il falso io, basato su crite­ri esteriori tipo il successo, la salute, il potere, la buona opinione da parte degli altri..., e scoprono il vero io che si fonda su Dio». Anche se non sappiamo quando si compirà la beatitudine dei miti che erediteranno la terra, comunque «è certo che si compirà».

Il processo della propria trasformazione interiore, ribadisce il priore generale, è un “processo doloroso”, reso spesso difficile non solo da situazioni esterne, ma più ancora dall’atteggiamento dei propri fratelli. Infatti quanti si adoperano nell’ambito della giustizia e della pace «spesso si scon­trano con l’incomprensione o persino con l’antagonismo da parte dei loro fratelli e sorelle. Il perché questo avvenga non è semplice spiegarlo, ma questo fatto ha oscurato un elemento assai importante della nostra attività come religiosi». Quante conseguenti e inevitabili situazioni di deserto lungo il cammino della vita consacrata! Nessuno come i carmelitani sa che «il deserto è arido e può essere un luogo spaventoso». Di fronte all’alternativa di abbandonare tutto o di continuare il cammino “nella notte”, proprio loro sanno bene che la “notte oscura” «non è mai intesa come cupa e impossibile, ma come un invito ad abbandonare i nostri umani e limitati modi di pensare, di amore e di agire così da poter pensare, amare e agire secondo i modi di Dio».

San Giovanni della croce è lì a ricordare che la “notte oscura”, che può riguardare i singoli come i gruppi o intere società, «non è una punizione per il peccato o per l’infedeltà, ma un segno della vicinanza di Dio, opera sua, e porta alla completa liberazione della persona umana». Sono queste le ragioni per le quali «bisogna accoglierla nonostante la sofferenza e la con­fusione che comporta». Questo processo di trasformazione interiore, che solitamente dura molto a lungo, non va confuso con un semplice cambiamento di alcune idee o di opinioni personali; è invece «una completa trasformazione di come ci rapportiamo con il mondo attorno a noi, con gli altri e con Dio… una purificazione profonda e il liberarsi da tutti gli attaccamenti per poter essere pieni di Dio».

Solo arrivati a questo stadio di purificazione interiore sarà possibile percepire “il grido dei poveri”. L’impegno per la giustizia, la pace e la salvaguardia della crea­to, ribadisce ancora padre Chalmers concludendo la sua lettera, non è una semplice “opzione”. Si tratta invece di «una sfida urgente, a cui le comunità contemplative e profetiche, seguendo l’esempio di Elia e di Maria, devono rispondere, facendo sentire la loro voce in difesa esplicita della verità e del progetto divino sull’umanità e sulla creazione come un tutt’uno».

 

Angelo Arrighini