UN NECESSARIO APPROFONDIMENTO
OBBEDIRE DA CRISTIANI
L’obbedienza è
possibile nella misura in cui le persone coinvolte sono animate da un profondo
senso religioso e si collocano in una prospettiva di fede.
Ma quali condizioni
favoriscono nei consacrati la libertà dei figli di Dio?
Con il voto di obbedienza la persona consacrata offre a Dio ciò che
possiede di più profondo e di più umano, cioè la sua volontà libera; a
proposito di tale voto, il decreto del Vaticano II Perfectae caritatis afferma
che esso «lungi dal diminuire la dignità della persona umana, la fa pervenire
al suo pieno sviluppo, avendo accresciuto la libertà dei figli di Dio» (n. 14).
L’affermazione conciliare è chiara e sicura; nello stesso tempo è
ragionevole pensare che ciò che viene affermato può non apparire subito del
tutto evidente e soprattutto si deve ammettere che il cammino indicato può
essere percorso solo a certe condizioni, pena il rischio di compromettere,
anche seriamente, lo sviluppo equilibrato della persona consacrata.
Nelle riflessioni che seguono vorrei richiamare alcune di queste
condizioni.
CONDIZIONI
IMPORTANTI
Una prima verità da richiamare subito è che soltanto a Dio va l’omaggio e
il dono della propria volontà: solo a Dio si deve realmente obbedire. Facendo
questa affermazione si sgombra immediatamente il campo da possibili
fraintendimenti per cui, ad esempio, l’obbedienza è vista soprattutto come un
problema di confronto, più o meno ‘strategico’, tra un religioso e il suo
superiore, ognuno dei quali ha istanze e interessi legittimi da difendere e
coltivare.
Questo richiamo fondamentale permette già di sottolineare alcune condizioni
importanti per l’esercizio di un’obbedienza autentica.
L’obbedienza è possibile nella misura in cui le persone coinvolte sono
animate da un profondo senso religioso e si collocano quindi in una prospettiva
di fede. Illuminante è al riguardo una riflessione di Newman: «Qual è il segno
della mancanza del senso religioso? È questo: il rifiuto di cambiare, di
accettare che Dio voglia cambiarci... È l’attaccamento al proprio io, è
l’influenza del nostro io su di noi ciò che costituisce la nostra rovina...
L’essenza della vera conversione è la resa di se stesso... Questa è la vera
voce di una resa: “Signore, cosa vuoi che io faccia” (At 22,10)».
Dato che la ricerca della volontà di Dio avviene all’interno di un contesto
preciso rappresentato dal carisma dell’istituto, allora una condizione
importante per l’esercizio dell’obbedienza è una sempre più adeguata conoscenza
e assimilazione della teologia della vita religiosa in genere e del carisma del
proprio istituto in particolare.
In terzo luogo, essendo l’esercizio dell’obbedienza un atto di
corresponsabilità condivisa da persone con ruoli diversi per ricercare la
volontà di Dio, allora si deve ammettere che la responsabilità della decisione
che alla fine si prende deve essere sentita realmente condivisa da ambedue le
parti, evitando di cercare alibi o giustificazioni varie per le conseguenze che
ne derivano. Nello stesso tempo si deve ricordare che al superiore rimane il
dovere di essere il primo obbediente della comunità. Nel documento La vita
fraterna in comunità si afferma che prima di tutto il superiore deve essere
«una persona spirituale» e «l’autorità ha il compito primario di costruire
assieme ai fratelli e sorelle delle comunità fraterne nelle quali si cerchi Dio
e lo si ami sopra ogni cosa» (n. 50).
DIALOGO
TRA PERSONE
Di norma l’obbedienza si realizza attraverso un dialogo e un confronto tra
il religioso e il suo superiore. Persone adulte, con ruoli e responsabilità
diverse, si confrontano tra di loro per ricercare insieme, come abbiamo appena
richiamato, la volontà di Dio. Con questa espressione si vuol dire che insieme
ci si chiede qual è il modo più idoneo e adeguato di rispondere, da una parte,
ai bisogni fondamentali della persona consacrata e, dall’altra, alle esigenze
della missione (esigenze riguardanti la vita comunitaria e l’apostolato).
Affinché questo dialogo raggiunga i suoi obiettivi si richiedono alcune
condizioni da parte di entrambi gli interlocutori.
Anzitutto una funzionalità psichica passabile, la quale in senso negativo
significa la relativa assenza di seri meccanismi inconsci che possano
condizionare il proprio agire e, in senso positivo, significa il possesso di
alcune caratteristiche e atteggiamenti decisivi per la salute psichica (ad
esempio: un’adeguata conoscenza di sé, la relativa predominanza di motivazioni
consce nei nostri comportamenti più abituali, immagine positiva di sé,
sicurezza, accettazione e fiducia nei confronti delle persone, autenticità...).
Modalità comunicative che, anziché essere di tipo difensivo, facilitano la
comprensione e lo scambio sincero. Ad esempio: capacità di descrivere i fatti e
la realtà in genere in modo obiettivo, evitando interpretazioni, valutazioni,
etichette (comunicazione descrittiva); capacità di assumersi la responsabilità
dei propri sentimenti senza proiettarli all’esterno di sé, parlare a nome
proprio e non ricorrere al ‘noi’ o all’impersonale (comunicazione autentica);
capacità di ascoltare con attenzione, cercando di comprendere il punto di vista
dell’altro (ascolto empatico); capacità di comunicare con chiarezza e
concretezza; capacità di distinguere le intenzioni dai comportamenti, i
comportamenti dalle persone; capacità di rispondere con rispetto, cordialità,
franchezza.
Atteggiamenti sani ed equilibrati nei confronti dell’autorità. A questo
riguardo può essere utile riflettere e prendere coscienza delle esperienze
avute in passato, soprattutto nel corso della propria infanzia, nei confronti
delle figure in autorità, come pure del tipo di coscienza (il super-io
freudiano) che si è andato formando nel corso dei primi anni (norme morali
introiettate, grado di severità della coscienza, modo di intendere l’obbedienza,
qualità dei sensi di colpa legati al comportamento trasgressivo...).
PRENDERE
DECISIONI
Parlare di obbedienza significa che il superiore a un certo punto prende
delle decisioni e chiede al singolo, o alla comunità, che tali decisioni siano
rispettate. Naturalmente queste possono riguardare aspetti piuttosto marginali
della vita delle persone, ma possono anche riferirsi ad aspetti che toccano
profondamente le loro condizioni di vita e quindi esigere un duro sacrificio
per essere accettate.
Se si vuole che le decisioni prese dal superiore siano sagge – ciò equivale
a dire che sono atti ispirati alla virtù cardinale della prudenza (virtù di cui
sembra si parli poco quando si riflette sul tema dell’obbedienza) – e siano
veramente accolte dalle persone interessate, allora è opportuno che anche in
questo caso si tengano presenti alcune condizioni.
È importante che vi sia chiarezza nella definizione dell’ambito delle
competenze decisionali del superiore. Nel documento La vita fraterna in
comunità si legge: «È necessario che il diritto proprio sia il più possibile
esatto nello stabilire le rispettive competenze della comunità, dei diversi
consigli, dei responsabili settoriali e del superiore. La poca chiarezza in
questo settore è fonte di confusione e di conflittualità» (n. 51). Deve essere
quindi il più possibile chiaro per tutti ciò che il superiore può o deve
esigere sotto forma di obbedienza dalle persone che dipendono da lui.
La decisione del superiore è buona e saggia nella misura in cui essa nasce
dalla conoscenza oggettiva della realtà - cioè la realtà delle persone a cui si
chiede l’obbedienza, la realtà dell’istituto nei suoi vari aspetti e ambiti, la
realtà dell’ambiente in cui si svolge l’apostolato. In nessun modo un superiore
può pensare che sia sufficiente la buona intenzione («voglio prendere questa
decisione per il tuo bene»), perché è necessario che il suo agire sia conforme
alla situazione reale, cioè alle realtà concrete riguardanti persone e
situazioni, che devono essere prese in seria considerazione con lucida
obiettività. Questo è possibile anche nella misura in cui il superiore sa
ascoltare la realtà, si lascia “istruire” e dire con libertà da chi gli sta
attorno ciò che essi realmente pensano.
La conoscenza obiettiva della realtà deve trasformarsi poi in una decisione
concreta. San Tommaso afferma che nel riflettere si può esitare, ma l’azione
meditata deve essere rapida. Se il filtro della decisione è necessario, lo è
altrettanto l’audace coraggio per la definitività della decisione. Certe
richieste di obbedienza restano senza esito a volte perché non c’è il coraggio,
da parte del superiore, nel prendere una decisione chiara e definitiva circa la
richiesta che intende fare a una determinata persona, facendo chiaramente
intendere che il tempo di ulteriori confronti e possibili mediazioni è
terminato e ponendo scadenze temporali precise.
L’obbedienza matura e responsabile è facilitata anche se c’è dirittura e
franchezza, da parte del superiore, nel comunicare le motivazioni delle
decisioni che intende prendere, evitando ogni forma di insincerità, reticenza,
astuzia. Un religioso è facilitato nell’assumere un atteggiamento responsabile
di fronte all’obbedienza che gli viene chiesta se avverte che il superiore in
ogni cosa ama la chiarezza e rifugge dall’agire strategico e manipolativo.
Il documento La vita fraterna in comunità richiama un’altra condizione là
dove afferma che «una volta presa una decisione, secondo le modalità fissate
dal diritto proprio, si richiede costanza e fortezza da parte del superiore,
perché quanto deciso non resti solo sulla carta» (n. 50). Ciò esclude
atteggiamenti di negligenza, trascuratezza, inconcludenza, irresolutezza. Da
questo punto di vista è bene che il superiore presti attenzione anche ai propri
sentimenti mentre chiede a qualcuno l’obbedienza, specialmente se questa è
impegnativa e difficile. Egli potrebbe sperimentare, infatti, senso di
insicurezza e paura (ad esempio di possibili reazioni da parte dell’altro,
perché magari ha un carattere molto difficile o è legato da una vita a un
determinato luogo o incarico), di fastidio e impazienza (perché i suoi piani
vengono stravolti), di aggressività e rabbia (contro qualcuno in particolare o
a motivo di un certo andazzo di vita dell’istituto), di ansia per la propria
immagine e il prestigio personale (si può temere di apparire deboli e quindi si
sente il bisogno di offrire un’immagine di forza e risolutezza: il distacco
personale è uno dei requisiti, citati in La vita fraterna in comunità,
necessari al superiore che deve prendere delle decisioni), di sfida o rivalsa
nei confronti di qualcuno. In certi casi anche la grande difficoltà o
l’incapacità di tollerare la sofferenza di colui che deve fare l’obbedienza può
far recedere un superiore dalle decisioni prese.
Può capitare anche che un superiore non voglia, per motivi diversi,
arrivare a prendere una decisione definitiva chiedendo un esplicito atto di
obbedienza, ma cerchi piuttosto attraverso il dialogo e il confronto con un
religioso di sollecitare da lui una disponibilità, manifestargli un invito,
convincerlo per un certo servizio. In ogni caso, comunque, è necessaria la
massima chiarezza: il superiore deve cioè aver chiaro dentro di sé – e dirlo
esplicitamente – se vuole avere un confronto con lui per arrivare alla fine a
proporgli un’esplicita richiesta di obbedienza, o se invece vuole limitarsi a
sollecitarlo per una qualche disponibilità. Nel primo caso infatti il religioso
deve, alla fine, dire sì o no alla richiesta del superiore, nel secondo caso
invece è libero di scegliere e non viene meno all’obbedienza.
RISPOSTA LIBERA
E RESPONSABILE
Abbiamo visto che di norma è auspicabile che il superiore avvii un dialogo
con le persone cui vuole chiedere l’obbedienza, però ciò non significa affatto
che debba trattarsi di una sorta di contrattazione, che potrebbe diventare
anche estenuante a volte, attraverso la quale arrivare alla fine a qualche
forma di compromesso. Il servizio svolto dal superiore comporta invece che egli
arrivi a prendere le decisioni che ritiene necessarie per il bene del singolo e
della comunità, sempre tenendo presenti le esigenze apostoliche. Il card.
Martini richiama tre norme come utili indicazioni per coloro ai quali è chiesto
il servizio dell’autorità: «Rispetto della persona e della sua intelligenza;
attenzione alla singolarità della persona, da amare e capire prima di
indirizzare con comandi e precetti; attenzione alla diversità delle
situazioni».
Di fronte al superiore che chiede obbedienza è necessario che la persona
consacrata scelga liberamente e responsabilmente se vuole dire sì, accogliendo
con autentica adesione interiore la richiesta che le viene fatta (e ciò può
comportare a volte anche fatica e grande sofferenza interiore), oppure se per
qualche motivo vuole rifiutarsi di obbedire, assumendosi naturalmente la
responsabilità della sua disobbedienza.
Se è vero che l’obbedienza deve favorire lo sviluppo della persona
accrescendo in lei la libertà dei figli di Dio, allora è utile anche qui
richiamare alcune condizioni che facilitano la crescita di questa libertà.
Anzitutto è importante che la persona consacrata abbia convinzioni chiare e
valide circa il significato del suo atto di obbedienza: ciò significa che deve
essere chiaro per lei che, come afferma il testo conciliare, obbedendo viene
accresciuta la sua libertà di figlio di Dio, cioè si cresce nella libertà di
cuore. Cosa significa? Come avviene ciò? Obbedire costituisce una scuola di
giudizio e di determinazioni prudenziali: io arrivo anche a rinunciare al mio
giudizio, obbedendo, ma in questo modo ho grandi possibilità di apprendere e
giudicare correttamente, almeno nei casi in cui il superiore non ha commesso un
errore di giudizio. Obbedendo, apprendo a liberarmi dalle passioni e dai
difetti che possono sviare il mio giudizio, apprendo a liberarmi dal mio
giudizio. L’obbediente compie in tal modo un eminente atto di prudenza (Plé).
Vista così, l’obbedienza non è un atto passivo né tanto meno una rinuncia alla
propria volontà: è una scelta libera e responsabile.
È importante prestare attenzione ai veri motivi che stanno alla base
dell’atto di obbedienza. Questi, in definitiva, non possono che essere motivi
legati alla fede, la quale ci fa comprendere ad esempio che l’autorealizzazione
personale in senso umano non è lo scopo ultimo della vita del cristiano, perché
Dio può chiedere anche scelte che umanamente sanno di morte, di insignificanza,
di inutilità (è la logica del chicco di grano, che se non cade in terra e non
muore non può portare frutto). Si può inoltre accettare di obbedire per
motivazioni le quali, anche se inconsce, rendono meno autentica l’obbedienza. È
possibile infatti obbedire per timore di perdere di fronte agli altri
un’immagine positiva di sé, per motivi di comodo, perché attanagliati da un
forte senso di colpa che prende ogni volta che si vorrebbe disubbidire
all’autorità, per calcolo e ricerca di secondi fini.
Il sì che si dice al superiore che chiede l’obbedienza deve essere convinto
e sicuro, anche se ciò può accompagnarsi a una grande sofferenza. La persona matura
non addosserà mai ad altri la responsabilità dei suoi sentimenti e delle sue
scelte. Espressioni come: «sono stato costretto ad accettare», «il superiore mi
fa sentire in colpa se non accolgo la sua richiesta», «con quel superiore non è
possibile dire quello che si pensa», «non sono capace di dire no», «non
sopporto di vedere il mio superiore deluso o in difficoltà a causa del mio
rifiuto»... e altre simili non hanno di norma una giustificazione valida.
Capita a volte di sentire una persona, che ha accettato di obbedire, esprimersi
con continui lamenti, recriminazioni, accuse. Si deve sapere anzitutto che
simili atteggiamenti rendono più difficile l’obbedienza perché smorzano lo
slancio, inducono sentimenti di impotenza e non permettono alla persona di fare
appello a tutte le sue risorse per accettare una situazione che le costa
particolarmente. In secondo luogo, verrebbe da chiedere a questa persona
perché, alla fine, non ha detto semplicemente no al superiore che le chiedeva
l’obbedienza. Se questa persona è onesta con se stessa, dovrà ammettere alla
fine che ha detto sì perché ... le ha fatto comodo (ad esempio: le ha fatto
comodo non affrontare apertamente tutti i possibili risvolti che il suo rifiuto
avrebbe avuto, le ha fatto comodo non affrontare apertamente e tenere poi sotto
ragionevole controllo quel senso di colpa che l’assale ogniqualvolta vorrebbe
dare maggiore ascolto ai suoi pensieri e bisogni profondi rifiutandosi di
conseguenza di accogliere le richieste dell’altro, le ha fatto comodo non
rischiare e non sentirsi completamente responsabile di se stessa). Se si vuole
essere realisti, si deve dire che sono ben pochi i religiosi che sono in un
posto senza averlo in qualche modo accettato. Ben pochi hanno potuto andare
dove volevano, ma ben pochi stanno in un posto senza, almeno un po’, averlo
voluto. Non è corretto lamentarci quasi fossimo delle pedine mosse
semplicemente dalla volontà altrui: ogni religioso deve cercare di fare quello
che ritiene più idoneo per sé e più utile per gli altri, disposto a rispondere
di quello che fa o accetta, come di quello che rifiuta. Se accetta, è inutile
che poi se ne lamenti, e, se non gli va, è meglio che rifiuti e accetti tutte
le conseguenze possibili del suo rifiuto: se non fa così, vuol dire che non gli
conviene.
A volte la resistenza a obbedire e l’insoddisfazione nei confronti dei
superiori si manifesta nelle cosiddette mormorazioni, o critiche, che non di
rado formano il tema preferito delle conversazioni di preti, frati e suore. Può
essere utile interrogarsi e chiedersi da dove nasce quel sottile piacere che
porta ad abbandonarsi a questo tipo di conversazioni. Non sarà difficile
scorgervi di norma atteggiamenti di tipo infantile quali una (sottile) forma di
aggressività mascherata, l’impulso a proiettare su altri la causa del proprio
malessere interiore, la tendenza a evitare responsabilità e coinvolgimento in
prima persona, il bisogno di abbassare l’altro per salvaguardare l’immagine e
la stima di sé, l’incapacità di affrontare la fatica e la responsabilità di
affrontare personalmente (come peraltro insegna il Vangelo) il superiore di cui
si critica il comportamento. Cade a proposito, a questo punto, un pensiero del
saggio papa Giovanni, che in una lettera al nipote Battista scriveva: «Eh! se
sulla terra non c’è per i sacerdoti un poco di paradiso terrestre, ciò in gran
parte dipende dal tempo perduto in vaniloqui divenuti abitudine delle
conversazioni ecclesiastiche. Almeno ai miei tempi per i seminaristi sarebbe
sembrato sacrilegio dir meno bene di alcuno dei nostri superiori. Poi il
contatto con altri ecclesiastici diventa tentazione di venir meno a questa
legge. Tu fatti un proposito di restare a essa fedele, di interpretare tutto
con ottimismo e indulgenza, e godrai di grandi grazie e di grandi benedizioni
nella vita».
SE LA PERSONA
SI RIFIUTA DI OBBEDIRE
Può capitare che nella comunità un superiore si trovi di fronte a un
religioso che non è disposto a obbedire.
La disobbedienza può essere aperta ed espressamente dichiarata, oppure può
manifestarsi in forme indirette e implicite: ci si limita a un adempimento
puramente formale di ciò che viene richiesto, si oppone una specie di
resistenza passiva, si ricorre a interpretazioni molto elastiche e accomodanti
della richiesta fatta dal superiore ecc. Nel primo caso la persona ha il
coraggio di compiere un gesto che la pone in contrasto con il suo superiore, il
quale dovrà poi chiedersi che cosa può e vuole fare di fronte al suo rifiuto;
nel secondo caso, per motivi che possono essere assai diversi (paura, calcolo,
abitudine, considerazioni di opportunità, mancanza di alternative realistiche),
la persona non assume una posizione aperta ed esplicita nei confronti del
superiore, con la possibilità di dar luogo a incomprensioni, fraintendimenti,
tensioni, mancanza di fiducia.
Come valutare la disobbedienza da parte di una persona consacrata? Per
quanto riguarda la seconda situazione, è difficile di norma valutare
positivamente questo comportamento, tranne nel caso che un soggetto abbia la
certezza morale che non esista altra possibilità migliore di agire. Per quanto
riguarda, invece, il comportamento di disobbedienza espressamente dichiarata,
sono diversi gli aspetti da prendere in considerazione e ai quali riserviamo un
breve cenno.
In senso assoluto, non si può affermare che chi deliberatamente
disobbedisce compia sempre e necessariamente un atto moralmente cattivo. Può
trattarsi di una forma di ribellione vera e propria, ma può essere anche un
gesto che manda un messaggio importante che serve al superiore e alla comunità
(all’istituto) in vista di un miglioramento di una data situazione (un gesto
profetico, come si usa dire oggi). In ultima istanza, questo atto può essere
valutato buono o cattivo in riferimento alle motivazioni che, in coscienza, la
persona che lo compie adduce per giustificarlo: motivazioni di cui lei soltanto
deve rispondere davanti a Dio.
Detto questo, si possono fare alcune osservazioni. In primo luogo, più è
rilevante la materia (il contenuto) di questo atto, più devono essere attentamente
ponderate le motivazioni che stanno alla base del rifiuto di obbedire. La
disobbedienza, infatti, può riguardare l’adempimento di un’incombenza di
importanza molto relativa, il rispetto di determinate norme di vita
comunitaria, un trasferimento, un particolare tipo di ministero (apostolato) da
svolgere o da lasciare, l’assunzione di un ruolo di responsabilità ecc..
In secondo luogo, è lecito supporre che il superiore sia, di norma, in
condizioni migliori, rispetto al singolo soggetto di una comunità, per prendere
decisioni che siano ispirate alla virtù cardinale della prudenza. E questo per
più di un motivo: ha di norma una visione più ampia dei vari aspetti della
realtà che devono essere tenuti in considerazione; può avere una maggiore
esperienza e conoscenza dei problemi della vita religiosa; può essere aiutato
da una particolare grazia del Signore legata al compito che gli è stato
affidato (la cosiddetta “grazia di stato”). Si può parlare quindi di una
presunzione di competenza a favore del superiore che chiede l’obbedienza. La
disobbedienza è un comportamento che obiettivamente pone un religioso in
contrasto con il superiore, verso il quale si è impegnato solennemente ad avere
un comportamento di riverenza e – appunto – di obbedienza. Tenendo conto di
tutto ciò, dunque, è necessario che soprattutto in situazioni di particolare
rilevanza per quanto riguarda la sua appartenenza all’istituto la persona che
si rifiuta di obbedire faccia tutto ciò che le è moralmente possibile per
arrivare a una certezza di coscienza che sia la più sicura e alta possibile.
Naturalmente, quanto appena detto presuppone che si rispettino quelle
condizioni di esercizio dell’obbedienza alle quali si è precedentemente
accennato. Inoltre, le considerazioni che stiamo facendo chiamano in causa la
necessità di affidare responsabilità di guida a persone che abbiano, in maniera
almeno sufficiente, quei requisiti umani e spirituali necessari per l’esercizio
dell’autorità e siano abitualmente capaci di ispirare il loro agire a criteri
di prudenza (l’attuale calo numerico dei religiosi potrebbe in qualche caso
porre qualche problema al riguardo).
In terzo luogo, motivi di carità esigono che colui che ritiene di non dover
ubbidire al superiore valuti attentamente anche i riflessi che il suo
comportamento ha sulla comunità. Essi potrebbero essere tali per cui passano in
secondo piano altre considerazioni o motivazioni addotte dal soggetto (ad
esempio un grave scandalo o disorientamento dei confratelli).
In sintesi, dunque, il giudizio ultimo di moralità circa un comportamento
di aperta disobbedienza spetta al soggetto che disobbedisce, il quale, oltre a
considerare scrupolosamente le proprie motivazioni, dovrà tener conto anche di
altri elementi, quali la materia dell’atto, le sue conseguenze in rapporto alla
comunità (il proprio istituto, la comunità cristiana in cui è inserito), la
verifica del proprio stato psicologico (forti sentimenti negativi, come
aggressività o ansia, potrebbero condizionare un giudizio sereno di moralità);
inoltre, tale valutazione personale chiede, nei casi più gravi, un confronto
previo e aperto con autorità morali riconosciute.
A questo punto si potrebbe accennare anche alle modalità che un superiore
può adottare di fronte al religioso che si rifiuta di obbedire. Queste possono
essere le più varie: analizzare attentamente il proprio comportamento,
interrogarsi sui motivi che hanno portato la persona a disubbidire, riprendere
un confronto più sistematico e approfondito con lei, agire di conseguenza e
prendere i provvedimenti del caso ecc.. Sarebbe in ogni modo diseducativo agire
d’impulso per salvare il ruolo dell’autorità o rassegnarsi semplicemente di
fronte al dato di fatto senza cercare alcun chiarimento, così da far pensare
che in quella comunità (o istituto) “comanda chi può e obbedisce chi vuole”.
Al termine delle riflessioni fin qui proposte forse a qualcuno viene da
chiedersi se è realisticamente possibile avere sempre presente tutte queste
condizioni – e altre ancora – nel momento in cui si tratta di chiedere o di
fare l’obbedienza. La risposta è: no. Si tratta semplicemente di offrire un
possibile quadro di riferimento per coloro che vogliono riflettere sulla
possibilità di vivere l’obbedienza nello spirito indicato dal decreto
conciliare Perfectae caritatis.
Nello stesso tempo però ritengo che sia senz’altro opportuno, o necessario,
avere più chiaramente davanti questi punti di riferimento in certi casi. Ad
esempio: quando si ha a che fare con soggetti per i quali è particolarmente
difficile vivere il voto di obbedienza; quando un superiore deve prendere una
decisione grave e importante sulla quale appunto chiede l’obbedienza; quando un
superiore sente particolari difficoltà nell’esercizio del suo ruolo, in
particolare nel momento in cui deve prendere delle decisioni (forme accentuate
di ansia, impazienza e fastidio ricorrenti, paura del conflitto...); quando si
verificano frequenti e seri conflitti tra un superiore e la comunità; quando un
superiore deve confrontarsi con una persona per la quale l’obbedienza è di
norma fonte di difficoltà e tensioni anche forti). In casi simili, un
supplemento di esercizio della virtù della prudenza non guasta.
«L’uomo può volgersi al bene soltanto nella libertà, quella libertà cui i
nostri contemporanei tanto tengono... La dignità dell’uomo richiede che egli
agisca secondo scelte consapevoli e libere» (Gaudium et spes, n. 17). Le
comunità religiose sono chiamate a misurarsi sulla loro capacità di far
crescere al loro interno personalità libere e forti, non a diventare rifugio
per i deboli.
Aldo Basso