XLIII ASSEMBLEA CISM

PRESENZA DA RIDEFINIRE

 

I superiori maggiori hanno messo a tema il nodo del rapporto tra chiesa locale, territorio e vita consacrata. Emerge la necessità di rilanciare l’ecclesiologia di comunione in vista di una evangelizzazione carismatica.

 

«Se fosse necessario ricordarlo, noi propriamente non facciamo parte della chiesa istituzionale, strutturata nei vescovi, preti diocesani, parroci e parrocchie.

È vero che le esigenze della Chiesa in quasi tutto il mondo sono tali che noi (specialmente i frati sacerdoti) veniamo sempre di più cooptati per servire e collaborare in questi ambiti della Chiesa, la quale ci richiede di accettare parrocchie, di offrire il servizio come parroci e vicari e, in certi casi, sempre più numerosi, anche il ministero episcopale. Si tratta di un servizio e di una collaborazione doverosa da parte nostra. Allo stesso tempo, però, non possiamo accettare che si arrivi nell’ordine alla situazione per cui la gran parte (quasi la totalità in certe circoscrizioni) dell’apostolato si identifica con questo servizio e, peggio ancora, con una modalità di ministero che è più confacente alla chiesa istituzionale! Perché in fondo questo non è il nostro ruolo nella Chiesa, e sarebbe una grande perdita per la nostra vocazione, se non un tradimento, scambiare quasi totalmente la nostra identità per un servizio che dovrebbe essere provvisorio. Preghiamo che arrivi il giorno in cui la chiesa istituzionale avrà a sufficienza pastori diocesani e parrocchiali e non avrà bisogno della nostra collaborazione in questo campo. È successo nel passato, e succede ancora oggi in qualche diocesi, che i religiosi non sono accolti perché l’ordinario del luogo ha un numero adeguato di preti diocesani e concepisce la presenza dei religiosi solo in termini di servizio parrocchiale. In altre parti, dove l’ordinario è più aperto e illuminato, siamo invitati proprio per esercitarvi questo ruolo profetico. Che cosa comporta il nostro contributo profetico? Per me, vuol dire semplicemente saper leggere i segni dei nostri tempi alla luce del Vangelo e rispondere a essi “insieme”, in quanto fraternità, con la forza della nostra testimonianza e del nostro operare, con una libertà e una fantasia non sempre possibili alla chiesa istituzionale. Proprio qui sta la giustificazione di essere “istituti esenti”, persone itineranti, aperte e libere per rispondere alle molteplici chiamate di Gesù oggi».

Queste parole di fr. Joachim Giermek, ministro generale dei Frati minori conventuali, (cf. editoriale notiziario Fraternus nuntius, 3/2003), ci sembrano particolarmente adatte a introdurre la qualità e la tensione del dibattito sviluppatosi all’interno della XLIII assemblea generale della Conferenza italiana superiori maggiori (Valdragone-San Marino, 3-8 novembre 2003). Il tema prescelto – Chiesa locale, vita consacrata e territorio: un dialogo aperto –, a 25 anni dal documento Mutuae relationes (MR) e alla luce del programma scelto dalla CEI per il decennio 2001-2010, si inserisce nell’attuale dibattito circa la “conversione pastorale” della Chiesa e il ripensamento in ordine ai compiti dei vari carismi e ministeri sulle frontiere della nuova evangelizzazione. Le scelte della presidenza Cism si sono dimostrate efficaci nel mettere in moto i dinamismi di provocazione e discernimento: dai lavori di gruppo all’ascolto delle esperienze di un vescovo e di un religioso (mons. Italo Castellani, presidente Commissione mista vescovi-religiosi; p. Angelo Cupini clarettiano); dalle relazioni teologiche – la prima sul versante ecclesiologico (Giacomo Canobbio) e la seconda su quello pastorale (Gianni Ambrosio) – all’ampio dibattito in plenaria dei 150 partecipanti in rappresentanza di 125 istituti.

 

TESTIMONI

DI SANTITÀ COMUNIONALE

 

Già nella relazione del presidente della Cism, Mario Aldegani csj, si sono focalizzati i punti “caldi” riguardanti la rivisitazione del modello di chiesa, il salto di qualità nelle relazioni tra chiesa locale e religiosi, la nuova consapevolezza del territorio. È il mistero dell’incarnazione del Verbo di Dio a spingere la VC ad abitare il territorio secondo i vari carismi a servizio della chiesa locale e della sua missione verso tutti. Questa logica va coniugata con l’assunzione di un modello di Chiesa come comunione per la missione nella consapevolezza di una odierna maggiore complessità della “relazionalità ecclesiale”, con la VC stessa che sembra essere «in posizione quasi di subalternità rispetto ad altri soggetti ecclesiali emergenti» (leggasi movimenti e nuove comunità). Il principio ispirativo essenziale deve essere dunque il seguente: «come i vescovi hanno il compito di accogliere, stimare e valorizzare la vita consacrata nelle proprie diocesi e non solo utilizzarla come mano d’opera a basso costo, così i consacrati devono accogliere come interne alla propria esperienza carismatica le indicazioni dei propri vescovi e la vita delle diocesi».

La persuasione fondamentale emersa dai lavori è che la connessione tra VC e chiesa locale è data dalla testimonianza di santità e dalla promozione di una autentica spiritualità: Aldegani ha infatti sottolineato, nella relazione finale, che l’invito del papa rivolto a tutti i battezzati per vivere una misura alta della vita cristiana «ci chiede, proprio come superiori maggiori, di vigilare e promuovere innanzitutto la qualità di vita spirituale, per essere nella chiesa locale e nel territorio scuole autentiche di spiritualità e testimoni di santità». In questo rientra la preoccupazione per una ecclesiologia di comunione: «Comunione è sempre communio sanctorum, partecipazione alle cose sante, che insieme celebriamo e nuova qualità tra le persone. Sappiamo bene che la comunione è communio ierarchica, e dunque c’è un ministero di comunione che è proprio del ministero ordinato… a noi spetta di vivere il carisma della comunione, come continuo fermento nella chiesa locale e nel territorio…Il nostro contributo essenziale è di essere promotori di relazioni comunionali nella Chiesa e tra la gente del nostro territorio, consapevoli, come ha affermato Mutuae relationes che “nessun membro del popolo di Dio, qualunque sia il suo ministero a cui dedica al sua opera, riassume personalmente in sé, nella sua totalità, doni, uffici e compiti, ma deve entrare in comunione con gli altri”.

All’interno di questo compito di promotori della comunione si colloca anche la questione relativa i nostri rapporti con l’episcopato… i temi del confronto sono spesso delicati… È opportuno attivare un dialogo sia attraverso gli strumenti ufficiali (commissioni miste, conferenze episcopali regionali, consigli presbiterali diocesani) sia nel dialogo personale con i vescovi soprattutto a riguardo delle nuove presenze sul territorio e delle situazioni in cui, nel rispetto e in conseguenza delle decisioni degli istituti, si chiudono le opere, si sopprimono le comunità, si abbandonano, si riconvertono o si alienano le strutture. Proprio in queste situazioni ci è richiesta la pazienza e la tenacia del dialogo e dell’impegno a motivare le nostre scelte con ragioni sempre evangeliche e carismatiche e con il riferimento all’indole sovradiocesana dell’istituto».

 

LE NUOVE FRONTIERE

SUL TERRITORIO

 

Il confronto avrebbe rischiato di rimanere imbrigliato in un ambito intraecclesiale agitato dalle tensioni tra identità in transizione (rifondazione della VC) ed esigenze di nuove relazioni in rete (conversione pastorale della e nella chiesa locale), se non si fosse fatto il salto auspicato da mons. Castellani: collaborare organicamente per varcare, ognuno col suo documento di identità e pagando il pedaggio col proprio servizio all’evangelo, nuove frontiere dell’evangelizzazione.

Qui si inserisce il nuovo confronto della VC con il territorio. Il territorio non solo e non più prevalentemente come ambiente geografico ma soprattutto come rete di relazioni sociali. Infatti, mobilità elevata, aggregazioni elettive e di interessi impediscono una comprensione semplicemente spaziale del territorio. La struttura di rete dell’odierno concetto di territorio spinge a privilegiare il registro della relazione. «Di conseguenza, ha affermato p. Aldegani, il senso e la qualità della nostra presenza non corrisponde solo a una determinata quantità di opere sul territorio. Le opere di tanti istituti religiosi sono nate per rispondere a esigenze sociali specifiche. Oggi queste esigenze sono evase per lo più dallo stato.

Ciò che va più rafforzata, da parte nostra, è l’attenzione ai bisogni spirituali e l’impegno a offrire risposte alla ricerca di senso... In tal modo, la nostra è una presenza profetica sul territorio, e non corre il rischio di perdere, in relazione ai vorticosi, mutamenti in atto, la sua legittimazione ecclesiale e sociale. Pertanto, al rischio di essere uniformi in tutto alle istituzioni vigenti, finendo di essere anche noi semplicemente “istituzione”, si può ovviare con l’impegno di rappresentare coraggiosamente la dimensione carismatica della Chiesa, preoccupati innanzitutto di diffondere una pastorale della spiritualità dentro la trama dei rapporti e delle relazioni tra le persone. La nostra presenza non è da rinchiudersi solo nelle attività pastorali istituzionalizzate ma è impegno a una relazione quotidiana con l’uomo…Dentro questo quadro di riferimento, la presenza di una comunità religiosa sul territorio si arricchisce di nuove accezioni: non l’identificazione con un servizio, non l’identificazione con un’istituzione, ma la messa in evidenza della storia delle persone che con le loro specificità attivano una rete di relazioni, raccontando possibili modelli di vita, percorsi da religiosi e laici, dove possa circolare, riconosciuta e valorizzata, la diversità; una rete che permetta l’emergere e il crescere della profondità dello Spirito; un incontro di sguardi e di vite che, riconoscendosi in valori fondamentali di cittadinanza, di spiritualità, di metodo e prassi non violenta realizzano sul territorio una parabola di vita possibile e alternativa».

Da erogatori di servizi a produttori di relazioni, offrendo la propria presenza come spazio di comunicazione e umanizzazione: così si può accompagnare il ridimensionamento numerico, interpretandolo come spinta a puntare sull’essenziale più che a ripiegare in se stessi. La lettura statistica offerta da fr, Giovanni Dal Piaz osbcam ha confermato questa prospettiva. Dalle 3.666 comunità religiose del 1981 si è passati alle 3.257 nel 2001, con una media di 6/7 religiosi per comunità. Aver governato il calo ha permesso alle comunità di diminuire ma tenendosi più in forza: siamo nelle fase della riorganizzazione territoriale delle 215 province, con una tendenza alla semplificazione con il passaggio alla dimensione interregionale. Circa il 50% delle province non ha più di 10 comunità; 8 province su 10 non superano le 20 comunità. Va registrata anche una non equa distribuzione della VC sul territorio nazionale: guardando al rapporto clero religioso e popolazione residente, il sud appare sguarnito di presenze. Ma va pur sempre detto che la struttura ecclesiale è più robusta di quanto sospettiamo se leggiamo i dati in prospettiva europea: il 30% delle comunità religiose europee si trova in Italia (1.880 sono in Spagna, 1.000 in Francia e 800 in Polonia)! Poiché si era raggiunto un livello molto alto, è naturale constatare i segni di cedimento soprattutto per l’insufficiente ricambio generazionale (il 56% dei religiosi ha 60 anni, il 40% è sotto i 40 anni; un religioso su tre è ultrasettantenne).

 

UNA PRESENZA

“LAICAMENTE” SCOMODA

 

Quasi 1.900 le parrocchie affidate ai religiosi: è evidente che su questo punto di intersezione ci si sia interrogati chiedendosi se emerga/debba emergere una peculiare fisionomia di parrocchia tra quelle tenute dai religiosi. I religiosi hanno ribadito che la parrocchia è luogo privilegiato, ma non esclusivo, del loro rapporto con la chiesa locale sul territorio.

«I mutamenti in atto – ha detto p. Aldegani su questo punto – a livello socio-culturale evidentemente impediscono la semplice e pedissequa riproposizione del modello di parrocchia finora adottato. È inevitabile constatare come la realtà della parrocchia fatichi a passare da centro che offre servizi a centro propositivo di evangelizzazione e di proposta forte di spiritualità. In questo senso il carisma dei nostri istituti dovrebbe qualificare la nostra presenza spirituale e pastorale sul territorio. Su questo è necessario individuare indicazioni strategiche di governo da parte dei superiori maggiori… In una parrocchia affidata a religiosi è decisivo che emerga il carattere comunitario della presenza. In caso contrario, se ci si concepisce solo come ausiliari di un clero diocesano mancante, a perderci oltre che essere la nostra vita religiosa è anche la stessa chiesa locale… È nostro imprescindibile contributo aiutare a vivere la parrocchia missionariamente e non come realtà centripeta, rendendola laboratorio di pastorale rinnovata… In tal senso il nostro impegno dovrebbe tener conto di due coordinate fondamentali: la territorialità, che dice dimora e stanzialità, e la mobilità che dice missione. La necessità di una pastorale integrata richiede che tutti i soggetti coinvolti sul territorio coordino le energie a servizio della missione, così che le diverse competenze e le ricchezze carismatiche si riconoscano e agiscano dentro l’obiettivo comune di tutta la Chiesa impegnata nella nuova evangelizzazione».

Insomma, la Chiesa e in essa i consacrati non sono stati voluti dal Signore per rimanere chiusi nelle sacrestie e nei conventi ma per essere capaci di incontro reale con ogni uomo per portare la novità di Cristo. Per di più, la VC ha nella sua struttura una originaria laicità e libertà per potersi accostare all’uomo d’oggi: «non dobbiamo aver paura di essere laici nel nostro linguaggio, ossia essere capaci di annunciare la verità di sempre con il linguaggio proprio di chi si trova nelle condizioni comuni del vivere». Come accennato nello Strumento di lavoro, la presenza della VC nel territorio deve riuscire ad attuare un’attenzione formativa (perché cresca una spiritualità laicale impegnata a contribuire alla crescita del regno di Dio soprattutto “fuori di chiesa”) e una promozione del volontariato (come pratica possibile per molti in termini di prossimità concreta, come forza di cambiamento e cittadinanza attiva).

 

Pur riconoscendo le proprie fragilità (vedi tra tutte quella indicata dal segretario generale p. Fidenzio Volpi: la scarsa capacità di collaborazione tra istituti e la ancora acerba pista di collaborazione con i laici) e avendo ascoltato rilievi che l’hanno messa in discussione, la VC assume su di sé la responsabilità di farsi capire e accettare con più pienezza all’interno della chiesa locale. Non si tratta di garantirsi un posto al sole nella Chiesa, ma di inserire nella strategia di governo lo stimolo al confronto sull’identità teologica ed ecclesiale della vita consacrata. Né privilegi, né superiorità, né lezioni agli altri ma fedeltà a se stessa, dono fra gli altri doni.

 

Mario Chiaro