25 ANNI DI PONTIFICATO

PRETI, LAICI E CONSACRATI

 

Giovanni Paolo II ha saputo ancorare la Chiesa nell’economia della salvezza, preconizzando un nuovo avvento in vista del nuovo millennio. Entro questo quadro egli ha collocato le varie vocazioni – sacerdoti, laici e consacrati – distinte, ma interdipendenti, tutte chiamate alla santità.

 

Al compiersi dei venticinque anni del pontificato di Giovanni Paolo II in molti hanno tentato di tracciarne un bilancio. Per quanto ci riguarda, abbiamo pensato di essere presenti a questo grande appuntamento scegliendo di mettere a fuoco tre importanti aspetti del suo pensiero a noi più vicini: quello sul sacerdozio ordinato, i laici e la vita consacrata. Ci siamo serviti per questo della conferenza che il cardinale di Parigi, Jean-Marie Lustiger, ha tenuto a Roma lo scorso 15 ottobre, con alcune abbreviazioni nella prima parte, lasciando invece intatto il resto del discorso.

 

Qual era lo stato d’animo di venticinque anni fa, quando Giovanni Paolo II pronunziò le sue prime parole in pubblico: «Non abbiate paura. Spalancate le porte a Cristo?».

Quasi tutte le chiese sotto il giogo comunista erano rinchiuse nella sofferenza e nel silenzio. Erano sospettate di essere in ritardo a causa del poco che di esse si sapeva, ed esse rimanevano isolate e sconosciute.

Le giovani chiese d’Asia emergevano proprio allora nel concerto del pensiero cattolico. Certi teologi occidentali si sforzavano di riconoscere in loro il luogo di una «inculturazione» che rimetteva in questione la natura stessa del sacerdozio nella sua universalità.

Su un altro fronte, l’Africa, ricca di esperienza e di fervore cristiano, era già scossa dai drammi umani che, un po’ dappertutto, ancor oggi la sottopongono a dure prove.

L’America Latina era, da parte sua, trattata male dalle diverse correnti della «teologia della liberazione», tentate di rifarsi al marxismo. Nell’America anglosassone, negli Stati Uniti e nel Canada, il cattolicesimo era in preda a una grande crisi in cui erano rimessi in questione il ruolo del prete, la vita religiosa e, per conseguenza, le vocazioni e il compito dei laici.

Infine i paesi di vecchia cristianità dell’Europa occidentale erano presi dalla medesima sindrome che aveva colpito l’America settentrionale. Ma il disagio era forse più grave che nel nuovo mondo, a causa degli sconvolgimenti sociali provocati dalla crescita economica ininterrotta a partire dalla fine della seconda guerra mondiale e da un’accelerata urbanizzazione.

Il nuovo papa conosceva bene queste situazioni. In effetti, sette anni prima, come arcivescovo di Cracovia aveva partecipato al secondo sinodo ordinario dei vescovi tenuto a Roma dal 30 settembre al 6 novembre 1971, sinodo che doveva trattare del ministero sacerdotale e della giustizia nel mondo. I giornali annunciavano che i vescovi avrebbero chiesto al papa di ordinare dei viri probati sposati. Molti suggerivano di mettere da parte il termine «sacerdozio» e di usare solo «ministero ordinato».

Si sa come è stato concluso questo sinodo. Paolo VI resistette coraggiosamente alle pressioni. Non fu forse la beatificazione di padre Massimiliano-Maria Kolbe come «prete cattolico» la sua risposta a questi interrogativi che oscuravano la figura del sacerdozio presbiterale? E tuttavia la crisi e i problemi, che ho appena evocato, si erano ormai istallati in modo durevole nell’occidente sviluppato.

Ma l’insegnamento del Vaticano II era stato allora veramente compreso?

L’obbedienza, la povertà, la castità e finalmente la natura stessa del sacerdozio e delle vocazioni, inclusa la vocazione battesimale dei laici, non potevano che essere contestate quando si ragionava secondo prospettive di funzionalità o di rapporti di forza o di condivisione del potere, di riconoscimento sociale sull’unica base del denaro ecc. La sociologia occupava in questo modo il proscenio e l’antropologia, nelle sue diverse articolazioni, sembrava sfidare l’insegnamento tradizionale in materia di sessualità, mentre la storia serviva a denunziare il celibato ecclesiastico come una regola del tutto relativa.

In breve, tre idee nascondevano le realtà spirituali e sacramentali del sacerdozio presbiterale e della vocazione tanto religiosa che battesimale.

Anzitutto, la realtà sacramentale del sacerdozio doveva scomparire davanti alla funzionalità dei compiti ministeriali, i quali sembrava potessero essere assolti anche senza l’ordinazione. Era quello che certi hanno chiamato una “desacerdotalizzazione”.

In secondo luogo, la dialettica del potere conduceva ad auspicare di affidarlo all’assemblea democratica dei fedeli. Era ciò che allora si chiamava la “declericalizzazione”.

Infine, la soppressione del celibato, considerata come il completamento della “secolarizzazione” di una cristianità giudicata troppo strettamente legata a una cultura obsoleta.

Il futuro Giovanni Paolo II aveva trovato quella libertà di pensiero e gli strumenti concettuali che essa richiedeva, non solo nella tradizione della Chiesa (dalla Bibbia a san Giovanni della Croce passando per san Tommaso d’Aquino), ma anche nel dialogo con gli intellettuali dissidenti (artisti, filosofi e uomini di scienza, non tutti credenti) e nel contatto con la corrente mitteleuropea del personalismo, sulle orme della fenomenologia di Husserl, e specialmente, di Max Scheler. Erano, quelle, delle scuole che l’occidente aveva purtroppo perduto di vista da qualche decennio e che, in seguito, hanno mostrato la loro fecondità.

 

LA CHIESA NELL’ECONOMIA

DELLA SALVEZZA

 

Come avrebbe risposto il futuro papa, a sua volta, alle questioni poste a Paolo VI nel 1971? Su quali strade avrebbe condotto la chiesa di Cristo che sarebbe stata ormai affidata alla sua vigilanza?

Giovanni Paolo II ha ancorato la Chiesa all’economia della salvezza mettendola paradossalmente in un avvento. Già nella sua prima enciclica Redemptor hominis del 1979 parla della Chiesa del nuovo avvento, del nuovo avvento dell’umanità.

«Siamo anche noi, in certo modo, nel tempo di un nuovo avvento, ch’è tempo di attesa. “Dio, che aveva già parlato nei tempi antichi molte volte e in diversi modi ai padri per mezzo dei profeti, ultimamente, in questi giorni, ha parlato a noi per mezzo del Figlio...”, per mezzo del Figlio-Verbo, che si è fatto uomo ed è nato dalla Vergine Maria. In questo atto redentivo la storia dell’uomo ha raggiunto nel disegno d’amore di Dio il suo vertice. Dio è entrato nella storia dell’umanità e, come uomo, è divenuto suo “soggetto”, uno dei miliardi e, in pari tempo, unico! Attraverso l’incarnazione Dio ha dato alla vita umana quella dimensione che intendeva dare all’uomo sin dal suo primo inizio, e l’ha data in maniera definitiva – nel modo peculiare a lui solo, secondo il suo eterno amore e la sua misericordia, con tutta la divina libertà – e insieme con quella munificenza che, di fronte al peccato originale e a tutta la storia dei peccati dell’umanità, di fronte agli errori dell’intelletto, della volontà e del cuore umano, ci permette di ripetere con stupore le parole della sacra liturgia: “O felice colpa, che meritò di avere un tanto nobile e grande Redentore!”» (RH 1).

Poi, nel 1980, venne la Dives in misericordia. L’attentato del 1981, poi l’anno santo della redenzione del 1983-84 e, nel 1985, l’importante sinodo straordinario che celebrava il 25° della chiusura del Vaticano II, fecero slittare fino al 1986 la pubblicazione della Dominum et vivificantem che doveva chiudere questa prima parte.

A dieci anni dall’inizio del suo pontificato, cominciarono ad apparire le tre esortazioni apostoliche post-sinodali consacrate alle vocazioni che costituiscono il tema di cui stiamo parlando: quella sui laici (Christifideles laici) nel 1988, quella sui preti (Pastores dabo vobis) nel 1992, e quella sui religiosi e le religiose (Vita consecrata) nel 1996.

L’insieme di queste tre encicliche seguite dalle tre esortazioni apostoliche presentano una pedagogia spirituale che colpisce per la sua coerenza anche se – stando a ciò che ci dicono i biografi del papa – tutte queste tappe non erano state rigorosamente programmate. E questa forza della visione è ancora più impressionante, se si tiene conto delle circostanze e degli avvenimenti che sono venuti a turbarne lo sviluppo. In un certo modo, il papa fonda gli impegni di chi nel nostro tempo si mette alla sequela di Cristo, siano preti, consacrati o laici, collocandoli nell’economia della salvezza: al termine di questo avvento, l’uomo si scopre in quella sua inalienabile dignità che consiste nella partecipazione al sacerdozio di Cristo. Quest’uomo salvato può celebrare il suo Redentore e entrare nella sua opera di salvezza. Annunciando l’apertura del grande giubileo dell’anno 2000, Giovanni Paolo II scriveva: «Già nella mia prima enciclica Redemptor hominis, ho tenuto in vista questa scadenza con la sola intenzione di preparare gli spiriti di tutti a rendersi docili all’azione dello Spirito».

Le sue tre esortazioni apostoliche hanno potuto preparare gli spiriti dei laici, dei preti e dei religiosi e religiose, in una parola di tutti, perché ciascuno di loro è stato posto di nuovo davanti alla rivelazione del Padre e dello Spirito realizzata dall’unico Redentore di tutti. Dichiarando quest’ultimo quarto di secolo un avvento, il papa ha preparato tutti e ciascuno a mettersi davanti al mistero della redenzione. Questa è stata l’economia nella quale ci ha fatti entrare Giovanni Paolo II situando ciascuna di queste vocazioni in questo avvento, il tempo in cui l’avvento del Regno si fa prossimo, il tempo della venuta di Cristo. L’avvento è anzi, come sottolinea il papa, il tempo dell’”incessante oggi” di Dio (Redemptoris Mater, 52).

 

NEL MISTERO

DI CRISTO

 

Le confidenze fatte in Dono e Mistero ci aiuteranno a scorgere e a seguire il filo conduttore. Esse sono state pubblicate al termine di questo ciclo (cioè nel 1996 qualche mese dopo Vita consecrata), e ne illuminano la genesi, ma anche la portata, la cui attualità resta viva e sempre da scoprire.

Giovanni Paolo II, con il suo insegnamento, si è portato prioritariamente su ciò che è all’origine dei diversi stati di vita e delle missioni nella loro diversità in seno alla Chiesa, cioè il mistero di Cristo.

Si è trattato, certo, di un cambiamento di prospettiva abbastanza radicale: per il papa si trattava di mostrare le sfide dei tempi nuovi, di valutarne i bisogni reali e di dare delle risposte non prendendo più come criterio la politica, la sociologia e l’antropologia, ma rivolgendosi all’uomo ferito e riscattato come lo mostra e lo fa amare la fede. Questo realismo della fede libera dalla prigione delle ideologie.

In Dono e Mistero, (scritto nel 50° del suo sacerdozio) leggiamo a proposito: «Dopo la mia elezione a papa la mia prima intuizione (…) è stata di volgermi al Cristo Redentore. L’enciclica Redemptor hominis è nata da questo movimento (…). C’è una connessione stretta tra il messaggio di questa enciclica e tutto quello che si iscrive nell’animo umano grazie alla sua partecipazione al sacerdozio di Cristo».

In altre parole, la redenzione non è solo ciò che rende l’uomo intelligibile a se stesso, malgrado le sue contraddizioni e le sue tentazioni nichiliste o suicide. Permettendogli di capire quanto è amato da Dio, gli fa misurare la sua infinità dignità che richiede una unione immediata e concreta con il sacrificio di Cristo. Ogni vocazione cristiana trova là il suo significato e il suo contenuto che sono propriamente sacerdotali.

 

Tutto questo sarà opportunamente spiegato e sviluppato più avanti, come si potrà vedere. Ma prima, Giovanni Paolo II avrà prolungato la Redemptor hominis con due altre encicliche fondamentali, dando così al suo magistero e alla sua azione un radicamento trinitario, che entra, cioè, nel mistero più intimo di Dio stesso.

Già l’anno seguente Dives in misericordia ha esplorato il mistero della paternità di Dio, sottolineandone la gratuità dell’amore, dalla creazione fino al progetto di salvare l’uomo dal peccato e dalla morte che ne è la conseguenza. Evidentemente, la figura del Padre è sempre difficile da descrivere. Noi lo conosciamo attraverso suo Figlio e grazie al loro Spirito. Quello che non si può mai cogliere nella fonte ultima di ogni vita suggerisce di solito – e in modo del tutto legittimo – un allontanamento che sembra, a sua volta, connotare la maestà di Dio. L’enciclica del 1980 completa questa visione con un’indispensabile simmetria (corrispondenza) che richiama con forza la verità che è anzitutto il Padre che si avvicina all’uomo e che la sua misericordia supera abbondantemente le norme proporzionali della stretta giustizia.

Abbiamo qui un orientamento essenziale per questa partecipazione alla vita divina che è la risposta a ogni vocazione. Dives in misericordia ci ricorda il senso profondo di ogni paternità, all’interno della Chiesa e del mondo, ma anche in seno alla santa Trinità. La distanza non è abolita, costituisce invece lo spazio nel quale può svilupparsi il dono di sé stessi iscrivendosi nella dinamica dell’amore creatore e redentore la cui misericordia è inesauribile.

Dono e mistero ci fa capire almeno indirettamente questo punto, quando il papa ricorda il ruolo che hanno avuto nella sua vocazione sacerdotale, da una parte, suo padre e, dall’altra, il futuro cardinale Sapieha. L’uno e l’altro restano per lui dei personaggi relativamente distanti, ma di una «influenza determinante». Ricorda che «gli capitava di svegliarsi di notte e trovare suo padre inginocchiato». E aggiunge: «Tra noi non parlavamo di vocazione (…), ma il suo esempio fu per me, in un certo modo, il primo seminario, una specie di seminario domestico». Ridice anche la sua emozione nell’incontrare quasi ogni giorno l’amato «principe arcivescovo di Cracovia» che, verso la fine dell’occupazione nazista, alloggiava nella sua residenza i candidati al sacerdozio.

 

Nel 1986 Dominum et vivificantem è venuta a completare il fondamento trinitario dell’insegnamento di Giovanni Paolo II. Il titolo è, come sempre, molto significativo: lo Spirito è Dio e Signore, ed è lui che fa condividere la vita del Padre e del Figlio.

I doni dello Spirito Santo erano stati una delle «riscoperte» del periodo conciliare. Il papa ha ricordato che la potenza dello Spirito non si manifesta solo nei «carismi» particolari, ma anima la chiesa intera, nella sua vita interiore e sacramentale come per la sua missione esteriore. È lui, lo Spirito, colui che “convince il mondo”, come riferisce il vangelo di Giovanni (16, 8). È lui ancora che, come mostra in proposito Dono e mistero «opera ogni consacrazione», sia che si tratti della «transustanziazione del pane e del vino nel corpo e sangue di Cristo» nella messa o di un’ordinazione sacerdotale o episcopale, oppure ancora, possiamo aggiungere, dei voti religiosi o degli impegni assunti dai laici.

 

PRETI, LAICI

E VITA CONSACRATA

 

Oggi noi possiamo cogliere con chiarezza come il papa ha voluto che sia ripreso in modo nuovo il sinodo dei vescovi del 1971. Ed è al lavoro dei tre nuovi sinodi – anzitutto sulla vocazione dei laici, poi sulla formazione dei preti e sulla vita consacrata – che il papa chiederà di formulare le risposte che si attendevano dal quel sinodo.

Il metodo di ogni sinodo è, in questo caso, tanto importante quanto le conclusioni, dato che, ogni volta, i vescovi delegati erano portatori della riflessione dei vescovi e dei fedeli previamente interpellati. Le esortazioni apostoliche esprimono, attraverso l’autorità di Pietro, il sentimento collegiale dei vescovi.

Ma c’è di più. Anche l’ordine dei tre sinodi è significativo: a cominciare dai laici, mette in luce l’universale vocazione alla santità del popolo sacerdotale. Con i laici il sinodo ha rivisitato sia la Gaudium et spes che la Lumen gentium e ha espresso la visione della missione della Chiesa contemporanea.

Nello stesso tempo, il sacerdozio ministeriale, tema del sinodo seguente, appare chiaramente come il mezzo voluto da Cristo per far vivere il popolo santo; la chiamata radicale alla santità rivolta ai preti illumina profeticamente la “grande convenienza” del celibato sacerdotale. Questo deve essere considerato insieme con la vita consacrata la quale indica in modo profetico il destino degli uomini di cui essa è, qui e ora, l’anticipazione escatologica.

La logica delle tre esortazioni alla luce delle tre grandi encicliche dell’inizio del pontificato si dispiega a partire dall’idea del sacerdozio, essa stessa inerente alla Redenzione: «Il Cristo è prete perché è il redentore del mondo», possiamo leggere in Dono e mistero. Le intuizioni e i ricordi affidati a questo testo potranno di nuovo servirci di guida o di contrappunto per chiarire o condensare uno o l’altro degli aspetti delle vocazioni attraverso la loro diversità e la loro unità teologica e mistica.

Il mistero del Redentore permette all’uomo di comprendere la sua propria condizione: il Cristo rivela all’umanità che essa è ferita ed è amata. L’offerta essenzialmente sacerdotale che il Cristo fa di se stesso la libera dal male dandole il perdono dei suoi peccati. Sacerdotale, essa ha necessariamente una dimensione di sacrificio in cui Gesù, come ripete Giovanni Paolo II, a ogni occasione, citando il capitolo 7 della lettera agli Ebrei, non si contenta di intercedere. Infatti, «sommo sacerdote perfetto», si offre come «vittima pura». La sua risurrezione non significa solo che il suo sacrificio è stato gradito. In un certo senso, il Figlio, solidarizzando fino alla fine con l’umanità sfigurata dal peccato, dà compimento, nella sua obbedienza, a quell’amore che dall’eternità l’unisce a suo Padre. Il mattino di Pasqua manifesta che questo amore, che è la loro stessa vita, è vincitore della morte.

Per l’uomo, unito a Cristo, la salvezza consiste nell’offrirsi al Padre, nella potenza dello Spirito, al fine di contribuire per sua parte a diffondere e a condividere la misericordia. Il cristiano è, in un certo senso, incorporato al Cristo per essere associato alla sua azione sacerdotale e redentrice. È in questa misura che si deve già parlare, sulla scorta del Vaticano II, del sacerdozio comune di tutti i battezzati.

 

SACERDOZIO COMUNE

E ORDINATO

 

Christifideles laici ha ripreso questo tema con lucidità e precisione nel 1988, ricordando a tutti i battezzati le due dimensioni della loro vocazione: chiamati pienamente alla santità, parteciperanno in pieno alla missione della chiesa. È’ proprio lì, si può dire, che è venuto alla luce, almeno implicitamente, il concetto di «nuova evangelizzazione» che ha avuto un posto importante nel secondo decennio del pontificato.

Questo tema è stato a volte mal interpretato. Non si tratta, come hanno voluto sciattamente comprendere certi osservatori occidentali che guardavano dal di fuori, di una mobilitazione della «base» per rilanciare il proselitismo al fine di cercare di invertire il movimento socio-culturale della secolarizzazione.

Infatti la novità risiedeva non solo nell’inedito contesto, per altro già identificato dal Vaticano II soprattutto nella Lumen gentium, ma ancora più nell’invito pressante rivolto ai laici di prendere attivamente parte, come loro conviene, nella missione evangelizzatrice, perché questa incombe a ogni membro del Corpo di Cristo e non solo a un clero più o meno specializzato.

Un tale impegno si fonda sul mistero pasquale e sulla dimensione sacerdotale della vita cristiana nel cuore della creazione tutta intera e nel corso della storia. Dono e mistero lo esprime chiaramente: «La redenzione, prezzo che doveva essere pagato per il peccato, comporta anche una riscoperta, una specie di “nuova creazione”, di tutto ciò che è stato creato: la riscoperta dell’uomo come persona, dell’uomo creato da Dio uomo e donna, la riscoperta, nella loro verità profonda, di tutte le opere dell’uomo, della sua cultura e della sua civilizzazione, di tutte le sue conquiste e di tutta la sua creatività».

Se i laici sono così chiamati a “riscoprire” la verità del mondo, a darvi testimonianza e ad agire in esso, non è evidentemente in forza di un qualunque disegno politico. È in virtù della loro partecipazione al sacrificio di Cristo, attualizzato in ogni messa. Nel bilancio che egli traccia dei suoi cinquant’anni di vita sacerdotale, il papa scrive che è «la celebrazione dei sacramenti, e specialmente dell’Eucaristia, (che) rende tutto il popolo di Dio sempre più cosciente della sua partecipazione al sacerdozio di Cristo e, nello stesso tempo, l’incita a realizzarla pienamente ».

Il papa precisa che «in quanto «intendente dei misteri di Dio», il prete è al servizio del sacerdozio comune dei fedeli».

Si vede qui che Giovanni Paolo II ha fortemente rinnovato il modo di trattare i ruoli, ben distinti e insieme interdipendenti, dei preti e dei laici. Come ha insistito sul fatto che la missione ecclesiale dei fedeli laici ha la sua sorgente nella loro dignità sacerdotale e si prolunga nei compiti secolari, ha mostrato che i ministeri ordinati hanno, come fine immediato, di permettere di realizzare questa vocazione di ogni battezzato.

Ogni parola ha qui la sua importanza. Il sacerdozio comune non è la sorgente del sacerdozio presbiterale. Il secondo è al servizio del primo, ma non deriva da esso. La ragione è, come lo fa vedere Dono e mistero che «il sacerdozio, alla sua stessa radice, è il sacerdozio di Cristo» e di nessun altro.

Ci resta da legittimare la distinzione e la complementarietà dei due aspetti o livelli dell’unico sacerdozio. È questo ciò di cui si sono occupati il sinodo del 1990 e l’esortazione apostolica Pastores dabo vobis pubblicata sedici mesi dopo, nel 1992. Non si dimentichi che questo sinodo aveva come tema la formazione dei preti. Ciononostante il testo finale firmato dal papa è uno dei documenti pontifici più lunghi che siano mai stati pubblicati (226 pagine nell’edizione originaria) e i problemi vi sono trattati a fondo, risalendo ai principi più alti e più decisivi.

 

CRISTO

HA BISOGNO DI SANTI

 

Non si può pensare di recensire qui tutte le risorse che sono offerte da Pastores dabo vobis. Tuttavia, per quello che ci interessa qui, noi potremo, una volta di più, trovarne un’eco significativa in Dono e mistero, «Se il concilio, scrive Giovanni Paolo II, (…) parla di vocazione «universale» alla santità, nel caso del prete bisogna parlare di una vocazione «speciale» alla santità. Cristo ha bisogno di preti santi! Solo un prete santo può diventare un testimone trasparente di Cristo e del suo Vangelo in un mondo sempre più secolarizzato. Solo così il prete può diventare una guida per gli uomini e un maestro di santità. Gli uomini, soprattutto i giovani, attendono tali guide».

Di questa “speciale” santità, il prete non ne fa solo la scelta, per quanto impegni la sua libertà: ad essa è chiamato, ordinato e consacrato, al fine di parlare e agire in persona Christi. Questa chiamata e questa missione non possono essergli date da nessun altro che da Gesù stesso, e richiedono un dono specifico dello Spirito Santo. Nella sua autobiografia spirituale in occasione del suo giubileo sacerdotale, il papa ricorda dunque che il prete «riceve da Cristo i beni della salvezza per distribuirli, in modo conveniente, alle persone cui è inviato».

Giovanni Paolo II insiste su due situazioni in cui il prete «dà à Cristo la sua umanità per permettergli di servirsene come strumento della salvezza, facendo in qualche modo di quest’uomo un altro lui stesso».

La prima di queste situazioni è la celebrazione della messa. «Esiste al mondo, si chiede il papa, una realizzazione più alta della nostra umanità che quella di poter riprodurre ogni giorno in persona Christi il sacrificio redentore, quello che Gesù ha consumato offerto sulla croce? In questo sacrificio, da una parte è presente nel modo più profondo il mistero trinitario, dall’altra parte è, per così dire, ricapitolato tutto l’universo creato».

In secondo luogo, c’è quello che il papa chiama «il ministero della misericordia». Dato che, come dice il papa, «il prete è testimone e strumento della misericordia divina, (…) il servizio del confessionale è importante nella sua vita. È proprio nel confessionale che si realizza la sua paternità spirituale».

Qui si può vedere messa in opera la relazione che abbiamo colto poco fa, quando abbiamo ricordato l’enciclica sul Padre celeste, tra la paternità e la misericordia. Nella sua dimensione paterna il sacerdozio suppone come una «distanza» o, se si vuole, una distinzione, una differenziazione, una «riserva per»… In questa prospettiva, tra l’altro, si può comprendere il carattere speciale della santità alla quale è chiamato espressamente il prete.

Questa vocazione prende la forma precisa che Giovanni Paolo II, in Dono e Mistero, descrive spiegando che il prete è condotto a «fare una scelta di vita ispirata dal radicalismo evangelico. (Egli deve) vivere in modo specifico i consigli evangelici di castità, povertà e obbedienza».

Una tale esigenza si giustifica per il legame indissolubile tra sacerdozio e sacrificio. Ricordandosi della sua ordinazione, il papa fa emergere il significato profondo di uno dei riti del sacramento: il futuro prete, scrive, «si prostra in tutta la sua lunghezza e mette la sua fronte sul pavimento del presbiterio, manifestando in quel modo la sua intera disponibilità a intraprendere il ministero che gli è affidato». E commenta: «Restare disteso per terra, il corpo a forma di croce, prima dell’ordinazione, accettare, come Pietro, la croce di Cristo nella sua vita e fare con l’apostolo da pavimento sotto i passi dei suoi fratelli, fa apparire il senso più profondo di tutta la spiritualità sacerdotale».

Il papa precisa bene che non ne segue alcuna mutilazione della persona. Al contrario, «il giovane [che], ascoltando la parola «seguimi», (…) si decide a rinunciare a tutto per il Cristo [può avere] la certezza che, su questa strada, la sua personalità umana si realizzerà in pienezza».

 

CONSIGLI

EVANGELICI

 

Ma i consigli evangelici ci conducono, in modo del tutto naturale, al terzo sinodo episcopale che nel 1994 ha trattato delle vocazioni preoccupandosi della vita religiosa e all’esortazione apostolica Vita consecrata, pubblicata, ancora una volta, sedici mesi più tardi, nel 1996.

Nelle sue conclusioni, Giovanni Paolo II ha sottolineato, tra l’altro, una difficoltà incontrata alla fine del XX secolo, non solo in seno a molti ordini religiosi, ma anche in tutta la chiesa: la tentazione di tutto valutare in funzione dei criteri utilitaristici della società. La vita consacrata, rispondeva il papa, obbedisce ad altre leggi, e in particolare a quella del dono, inerente alla condizione umana, ma confermata anche dall’Incarnazione e dalla croce. Delle esistenze totalmente consacrate a Dio e senza alcuna prospettiva di «ratificazione» qui in terra, aiutano la cultura contemporanea a rimettersi in questione. Esse costituiscono anche in questo mondo una testimonianza della venuta, già realizzatasi, del regno di Dio.

Ma il «radicalismo evangelico» gioca anche un ruolo di «motore» nella Chiesa. Non solamente per i molteplici servizi che i religiosi e le religiose offrono, ma soprattutto grazie agli esempi e modelli di santità offerti da preti e da laici battezzati che hanno fatto i voti. Il popolo di Dio se ne trova tutto dinamizzato, tanto il clero che i fedeli.

Dono e mistero, che ci serve da guida, non comporta delle riflessioni strutturate sulla vita consacrata. Ma essa è ugualmente ben presente attraverso un’impressionante serie di figure che appartengono ai grandi ordini o che ne hanno creati di nuovi e che hanno orientato e stimolato il giovane Karol Wojtyla nel cammino della sua vocazione. Ricorderò, anche se in modo un po’ disordinato, il fratel Alberto, la beata suor Faustina Kowalska, i salesiani e i carmelitani di Cracovia, i gesuiti di Roma, il santo francescano Massimiliano-Maria Kolbe…

Il ricordo di questi incontri e le esperienze che essi hanno permesso, suggeriscono mirabilmente che per Giovanni Paolo II, la vita consacrata riflette in un certo modo, cioè integra e poi ridiffonde, la libertà e la sovrabbondanza dei doni di Dio, senza rinnegare nessuno di quelli che sono stati già dispensati in modo irreversibile, anzi stimolandone l’assimilazione attraverso la varietà e la ricchezza, incessantemente rinnovata, delle vocazioni e degli impegni.

Questa prospettiva permette di superare largamente le polemiche che sono sorte dopo la pubblicazione di Vita consecrata, circa la traduzione del termine latino præcellens. Era giusto comprendere che lo stato di vita dei religiosi e delle religiose è «oggettivamente superiore» agli altri?

Il problema si pone, in realtà, in modo altrettanto forte anche tra clero e fedeli. Che la santità alla quale è chiamato il prete abbia qualcosa di speciale nulla toglie all’autentica perfezione alla quale sono ugualmente chiamati i laici.

L’esistenza stessa della vita consacrata illustra la stessa logica di gratuità e di coerenza organica e spirituale che articola già la complementarietà tra il «sacerdozio comune» e il sacerdozio presbiterale, senza che sia permesso di parlare di preponderanza dell’uno o dell’altro. Il «radicalismo evangelico» finisce per operare, in una interdipendenza dello stesso genere, con una necessità dello stesso ordine mistico, a beneficio di tutto il popolo di Dio e del mondo di cui Cristo è il Salvatore.

 

QUALI LEZIONI

RICAVARE?

 

Parecchie sono le lezioni che si possono trarre dal quadro appena abbozzato, necessariamente a grandi tratti e probabilmente non senza omissioni, dell’insegnamento considerevole e dell’azione del papa in questi venticinque anni nel campo delle vocazioni.

In primo luogo, Giovanni Paolo II ha affrontato direttamente e con forza le difficoltà che incontrava la Chiesa a questo livello nell’ultimo trentennio del XX secolo. Non ha ignorato nessuna delle nostre prove e delle nostre tentazioni. Ma l’ha fatto spostando con decisione la problematica.

Ci ha invitati a sostituire una riflessione fatta in termini di potere sulle istituzioni con una percezione rinnovata del dramma della condizione umana, letta alla luce del mistero che si trova al cuore della fede cristiana: quello della Redenzione.

In altre parole, il papa ha saputo ricentrare tutto sul Cristo, senza paura di non essere “del suo tempo”. Dono e mistero, una volta ancora, ce lo fa comprendere. Si parla di preti, ma l’osservazione vale per tutti i fedeli, a causa della solidarietà degli stati di vita nella Chiesa e dell’unicità di tutte le vocazioni in Cristo.

Giovanni Paolo II scrive dunque: «Al di là del necessario rinnovamento pastorale, sono convinto che il prete non deve aver paura di essere «fuori del tempo», perché l’ «oggi» umano di ogni prete si iscrive nell’ «oggi» di Cristo Redentore. Il dovere più alto di ogni prete è di ritrovare, giorno dopo giorno, il suo «oggi» sacerdotale nell’«oggi» di Cristo, in quell’«oggi» di cui parla la Lettera agli Ebrei (13, 8): (…) Gesù Cristo è lo stesso, ieri, oggi e sempre!».

In secondo luogo, si può notare che il papa ha attinto alla ricchezza delle sue esperienze personali che sono quelle della chiesa-martire per raccogliere la ricchezza della Tradizione e in questo modo assumere le sfide del terzo millennio. Dono e Mistero ci parla dell’influenza del padre e del cardinale Sapieha, come pure dei religiosi e delle religiose che l’avevano illuminato sul cammino della sua vocazione.

Lo stesso testo ci dà almeno due altre testimonianze del modo con cui Giovanni Paolo II aveva già vissuto quello che ci insegna.

Egli ha preso molto presto coscienza della importanza capitale della missione dei laici. Ci confida: «A Roma (cioè alla fine dei suoi studi, dopo l’ordinazione) ebbi la possibilità di comprendere più profondamente quanto il sacerdozio è legato alla pastorale e all’apostolato dei laici (certamente vuol dire: l’apostolato compiuto dai laici). Tra il ministero sacerdotale e l’apostolato dei laici, c’è un rapporto stretto e anche una reale complementarietà. Riflettendo a questi problemi pastorali, scoprivo sempre più chiaramente il significato e il valore dello stesso sacerdozio ministeriale».

Questa precoce intuizione si è rinforzata agli inizi del suo ministero come giovane vicario, professore e cappellano, ed è stata confermata dal Vaticano II. «Quando il concilio, riconosce il papa, ha parlato della vocazione e della missione dei laici nella chiesa e nel mondo, non ho potuto che provarne una grande gioia, [infatti questo] rispondeva alle convinzioni che avevano ispirato la mia attività ancora dai primi anni del mio ministero».

L’esperienza dell’occupazione nazista e poi della dittatura comunista in Polonia gli ha dato, d’altra parte, l’occasione di provare direttamente ciò che significa umanamente il sacrificio e quale significato, quale fecondità possono ricevere anche gli avvenimenti più tragici alla luce della redenzione. Lo scrive in Dono e mistero: «Il mio sacerdozio, fin dalla sua origine, s’è situato in rapporto al grande sacrificio di numerosi uomini e donne della mia generazione. La Provvidenza mi ha risparmiato le esperienze più dure. Questo mi rende tanto più cosciente del debito che ho contratto con le persone conosciute da me e anche con quelle, più numerose, che non conoscevo, senza nessuna differenza di nazione e di lingua, le quale con il loro sacrificio sull’altare della storia, hanno contribuito alla realizzazione della mia vocazione sacerdotale. Esse mi hanno, in un certo senso, introdotto su questa strada, facendomi vedere che la dimensione sacrificale è la verità la più profonda e la più essenziale del sacerdozio di Cristo».

 

Fra i ricordi che egli tira fuori in occasione del suo giubileo sacerdotale, Giovanni Paolo II evoca, in modo commovente, quello di uno dei suoi compagni di seminario, clandestino, che una mattina non riapparve per servire, con lui, la messa del «principe-arcivescovo». Quel giovane, Jerzy Zachuta, era stato arrestato nella notte per essere subito fucilato. Il papa si domanda ancora, cinquant’anni dopo: «Perché non è toccato a me?». E risponde: «So oggi che questo non era dovuto al caso. Nel quadro del gran male della guerra, tutto nella mia vita personale andava nel verso di quel bene che è la vocazione». Già Isaia, nel secondo canto del Servo, ci dava la chiave di lettura di ogni vocazione: «Mi ha nascosto all’ombra della sua mano, mi ha reso freccia appuntita, mi ha riposto nella sua faretra» (49, 2).

Oggi possiamo dire che Karol Wojtyla è stato portato dalla sua vocazione molto più lontano di quello che poteva immaginare e che la Provvidenza, salvandolo una sessantina di anni fa, lo riservava, in qualche modo, allo scopo di guidare la Chiesa intera e farle passare il traguardo pericoloso del terzo millennio dell’era cristiana. Non possiamo che rendere grazie con un’emozione nella quale lo stupore davanti ai doni e al mistero di Dio si disputa il posto con la riconoscenza filiale.

Infatti Giovanni Paolo II ci guida con fedeltà al seguito di Cristo-Sacerdote che compie la redenzione del mondo facendo nascere un popolo santo. L’appello universale alla santità illumina la natura del combattimento spirituale in questo nuovo millennio della storia della salvezza.

Nello stesso tempo illumina la grazia che Dio fa alla sua chiesa di riconoscere la grande convenienza dei consigli evangelici radicalmente seguiti dai preti; e anche la grazia di ricevere il carisma della vita consacrata, affinché la Chiesa intera risponda generosamente alla missione che Cristo le confida fino alla «sua venuta nella gloria ».