Come vivere il tempo di Avvento
2016/11, p. 19
Come riscoprire il kairós nello scorrere del chronos?
Come affrontare il quotidiano e far sì che il giorno dopo
giorno, spesso faticoso e banale, diventi un tempo
favorevole e straordinario? Il tempo di Avvento e le
letture bibliche ci offrono delle piste di riflessione.
Letture dell’Avvento e la «modernità liquida»
COME VIVERE
IL TEMPO DI AVVENTO
Come riscoprire il kairós nello scorrere del chronos? Come affrontare il quotidiano e far sì che il giorno dopo giorno, spesso faticoso e banale, diventi un tempo favorevole e straordinario? Il tempo di Avvento e le letture bibliche ci offrono delle piste di riflessione.
Un filo rosso attraversa le letture delle domeniche di Avvento nell’anno liturgico che inizia: un motivo che potrebbe essere reso con la pregnante espressione paolina, tratta dalla seconda lettura della prima domenica: siamo in un tempo cruciale. Nella Bibbia abbiamo due vocaboli che indicano il tempo: chronos e kairós. Con il primo s’intende il tempo dell’uomo e della sua storia, il tempo quotidiano, il giorno fugace, mentre con il secondo – che Paolo utilizza appunto in Rm 13,11 – si fa riferimento a un tempo speciale, pregnante e propizio, l’istante opportuno. Ecco, allora, la domanda a cui siamo chiamati a rispondere in questo tempo di Avvento: come vivere il tempo dell’uomo alla luce del kairós, il tempo di Dio? Come affrontare il quotidiano e far sì che il giorno dopo giorno, spesso faticoso e banale, diventi un tempo favorevole e straordinario?
La modernità
liquida
Nella nostra modernità “liquida”, come la definisce Zygmunt Bauman, non è difficile constatare la profonda crisi che avvolge la civiltà occidentale, anche sotto la dimensione “temporale”. Si ha l’impressione che l’Occidente, con la sua cultura e la sua fede, sia arrivato al capolinea e che sia giunta l’ora di sistemi e valori provenienti da altri spazi e tempi: dall’Islam alla mistica indiana… L’Occidente sembra vivere in un sistema parassitario, paralizzato in una crisi diventata endemica, che mette a rischio la stessa sopravvivenza. Più volte e da più parti è stato evocato il confronto con l’impero romano al tramonto: con la smorfia della decadenza in ogni angolo, insieme all’immoralità, alla corruzione e al cinismo. La paura di mettere al mondo nuove vite, è un indizio serio della mancanza di futuro, anche se i motivi, sociali e psicologici, sembrano del tutto ragionevoli… Si diffonde un’inquietudine profonda, una stanchezza mortale: viene meno l’attesa – l’avvento – in tutte le sue forme. Il sistema sociale, nei suoi complessi meccanismi, si allontana sempre più dalle aspettative autentiche e, in questo sistema, l’uomo, con le sue relazioni e i suoi valori, ha sempre meno peso. Più o meno consapevolmente, siamo travagliati dall’angoscia della sopravvivenza.
La metafora della liquidità, coniata da Bauman, è sintomatica. L’abbandonarsi quotidiano al fruibile e all’immediato, al tutto e subito, alla consumazione pronta, senza attesa, manifesta la nostra povertà. La decadenza tende a portare l’uomo e la donna a non misurarsi più con la fatica e la passione del costruire. “Non ho tempo” è un leit-motiv del nostro quotidiano discorrere ed è l’indizio di un malessere profondo: quello di un uomo segnato dall’accelerazione e dalla frammentazione. Viviamo in un perpetuo e trafelato presente, senza più memoria e senza più passione di costruire una storia futura. L’uomo di oggi somiglia all’uomo proskairos / di un momento, incapace di durata, di perseveranza… Gli stessi giudizi sugli eventi e sui fratelli sono spesso segnati dalla fretta e dalla foga.
Un altro aspetto contrassegna il nostro tempo: la sete di potere. Il cammino dell’uomo appare sempre più contrassegnato dal motto che, già nel 1917, Oswald Spengler descriveva come «Macht, Macht und immer wieder Macht / Potere, Potere e sempre di nuovo Potere». Oggi, come ieri, l’uomo è malato di onnipotenza. In questo senso, il racconto della torre di Babele, contenuto in Gn 11, è di estrema attualità, perché presenta la presunzione umana, che vuole costruire la città con il compasso del successo e della sfida all’Assoluto. Si tratta dell’arroganza che adora le sue costruzioni, dimenticando Dio e l’uomo. La comprensione che l’uomo ha oggi di sé è spesso legata alla prestazione e alla riuscita. L’uomo contemporaneo deve ormai continuamente giustificarsi, non più davanti al tribunale di Dio, come al tempo di Paolo, ma davanti al tribunale della società, del posto di lavoro, dell’ambiente circostante. E ci si può giustificare solo mediante il rendimento. Questa è oggi la vera maledizione della legge: si è qualcuno solo in virtù delle proprie prestazioni personali, ci si può affermare solo documentando la propria efficienza. Ovviamente, non si tratta qui di polemizzare indistintamente con le opere umane, l’avanzamento professionale, ecc. Il messaggio ebraico-cristiano non offre giustificazioni all’inoperosità e, del resto, la civiltà occidentale lo dimostra in maniera abbastanza evidente. E tuttavia, c’è un tarlo in tutto questo: l’obbligo – conscio o inconscio – che ha l’uomo moderno di dovere, sempre e comunque, esibire i propri titoli di merito (le opere di cui fa menzione Paolo) offre l’illusione di un’autonomia totale, sciolta da ogni rapporto di dipendenza, con una vita tesa solo al «potere» sorretto, ovviamente, da sempre nuove prestazioni.
La Chiesa non è immune da questo pericolo. In una lezione sull’ecclesiologia del Vaticano II, tenuta nel 2001 nella diocesi di Aversa, l’allora prefetto della Congregazione per la dottrina della fede, il card. J. Ratzinger, affermava: «… la prima parola della Chiesa è Cristo e non se stessa; essa è sana nella misura in cui tutta la sua attenzione è rivolta a Lui… […] Infatti una Chiesa, che esiste solo per se stessa, sarebbe superflua…La crisi della Chiesa, come essa si rispecchia nel concetto di popolo di Dio, è “crisi di Dio”; essa risulta dall’abbandono dell’essenziale. Ciò che resta, è ormai solo una lotta per il potere. Di questa ve ne è abbastanza altrove nel mondo, per questa non c’è bisogno della Chiesa».
Le dinamiche distruttive e il secolarismo albergano nel seno delle comunità religiose. La ricerca dell’“intimo” degenera spesso in un’assolutizzazione dell’elemento emotivo, che non rende responsabili. Si costruisce la speranza sulla sicurezza personale o di gruppo, come se la cosa più importante fosse la propria sopravvivenza e la sopravvivenza delle nostre opere. Manca la profondità, si gioca in superficie: cardinali contro papa, prete contro vescovo, vescovo contro prete… mentre i problemi sono ben più radicali. Troppo spesso, visibilità e facciata nascondono il vuoto. C’è tanto vuoto, e trionfa l’ipocrisia.
Cosa fare?
Come coniugare, in questa situazione, l’attesa di un avvento con il crepuscolo di civiltà? Come ritrovare i semi di una fiducia che renda possibili nuovi sentieri di giustizia e il recupero della dignità? Come rinvenire il senso della relazione autentica, dello stare insieme, che non sia pura emozione, ma “responsabilità” attiva e passione cocente per l’altro, chiunque egli sia?
Insomma, come riscoprire il kairós nello scorrere del chronos? Il tempo di Avvento e le letture bibliche che ci sono proposte nelle quattro domeniche ci offrono delle piste di riflessione, che provo a evidenziare.
Amare
“questo” mondo
L’Avvento è l’attesa di un amore incarnato nel presente! Questo significa – lo dico con Bonhoeffer – che Dio ama l’uomo, Dio ama il mondo: «…non un uomo ideale, ma l’uomo così com’è; non un mondo ideale, ma il mondo reale. L’uomo e il mondo nella loro realtà, che a noi paiono abominevoli per la loro empietà e da cui ci ritraiamo con dolore e ostilità, sono invece per Dio l’oggetto di un amore infinito che l’unisce a loro nel modo più intimo… Noi facciamo distinzioni fra pii ed empi, tra buoni e cattivi, tra nobili e comuni; Dio ama l’uomo vero senza distinzioni. Egli non sopporta che noi dividiamo il mondo e gli uomini secondo i nostri criteri per erigerci a giudici su di loro. Egli ci conduce ad absurdum diventando egli stesso… compagno dei peccatori, e obbligandoci così a diventare i giudici di Dio. Dio si pone a fianco dell’uomo vero e del mondo reale contro tutti i loro accusatori… Dinanzi a qualche minaccia o a qualche occasione inaspettata, la grandissima maggioranza degli uomini mostra come la paura, la cupidigia, la debolezza di carattere o la brutalità siano la molla delle loro azioni… Ma l’uomo onesto che vede e penetra tutto ciò, che si allontana disgustato dagli uomini lasciandoli a loro stessi, che preferisce coltivare il suo orticello anziché avvilirsi partecipando alla vita pubblica, soccombe al pari del malvagio alla tentazione di disprezzare gli uomini… Dio ha assunto corporalmente l’umanità. Egli colloca il suo amore per gli uomini al di sopra di qualsiasi sospetto di inautenticità, di dubbio, di incertezza… Gesù Cristo non è un’umanità eccelsa trasfigurata, ma è il «sì» di Dio all’uomo reale… Esiste anche un amore per l’umanità, onestamente inteso, che equivale al disprezzo; esso ha per fondamento una valutazione dell’uomo basata sui valori latenti in lui, nel suo carattere sano, la sua ragionevolezza, la sua bontà profonda… Allora accade che, con un’indulgenza forzata, si interpreta il male come fosse bene, si chiudono gli occhi sulle viltà, si scusa ciò che è reprensibile. Per una serie di motivi si teme di dire un «no» perentorio e si finisce per approvare tutto. Si ama un’immagine dell’uomo che ci si è costruita e che non somiglia più all’uomo vero: in tal modo, anche in questo caso, si disprezza l’uomo reale, quello che Dio ha amato”.
Riconoscere
i germogli
Nella seconda domenica di avvento ci viene offerta dal profeta Isaia una bella metafora: il germoglio su un tronco secco. Non è facile risalire agli eventi storici che sono all’origine del testo. La metafora del tronco secco è, comunque, un giudizio severo, perché evoca il fallimento e la sterilità di Israele, un tempo oggetto di benedizione divina, ma che ora non ha più futuro. In effetti, che cosa ci si poteva aspettare da una dinastia regnante che, chiamata a operare giustizia e pace, lungo i secoli si era mostrata sempre più incapace di essere fedele al mandato ricevuto? Che cosa si poteva sperare da uomini e istituzioni che hanno fallito nel loro compito e appaiono, a tutti gli effetti, senza più linfa vitale? Israele si trovava in una situazione di morte, che non consisteva tanto nel non avere più nulla, ma nel non aspettarsi più nulla.
Ma ecco il prodigio: sul tronco secco della casa di Davide (Iesse è il padre di Davide), il profeta vede spuntare “un germoglio”, un discendente davidico, su cui si concentreranno nuovamente le speranze di Israele. Dio crea una nuova attesa e tutto inizia ancora, perché le speranze umane possono venir meno, ma la promessa divina no. Artefice di questa nuova creazione sarà lo Spirito del Signore, che il profeta vede posarsi sul novello re. I sei attributi che avrà in dote (diventeranno sette nella Bibbia greca, nella Volgata e nella tradizione della Chiesa) lo renderanno capace di un discernimento e di un giudizio che vanno ben oltre le sembianze umane, perché gli uomini giudicano secondo le apparenze, ma Dio guarda il cuore. Egli sarà – secondo il piano divino – difensore dei poveri e artefice di pace, rivestito di giustizia e fedeltà. La terra vedrà ancora fiorire la pace, che marcherà non solo la convivenza umana, ma anche la natura e gli animali. Animali tradizionalmente nemici – come il lupo e l’agnello, la pantera e il capretto – passeggeranno assieme, e persino l’inimicizia tra l’uomo e il serpente (cf. creazione) vedrà la sua fine. La violenza e l’empietà scompariranno dal paese e la terra tornerà ad essere rispondente (oppure fedele) al progetto paradisiaco cui era destinata, al volere del creatore.
Il lettore contemporaneo percepisce qui, ancora una volta, un ideale avveniristico, difficile da tradurre in realtà. Eppure, questa Parola profetica, costantemente e violentemente smentita dai fatti, costituisce ancora oggi una sfida. Perché la speranza è più forte dei fatti, e il credente è chiamato a dirlo, quotidianamente. In un momento cruciale della storia personale e della storia del mondo, ciascuno è chiamato a trapassare la superficie, per recuperare l’invisibile e l’impossibile. Perché, oltre a ciò che comunemente si percepisce, al di là del buio e della coltre di diffidenza e di odio che ci avvolge come individui, famiglie e popoli, c’è l’agire di Dio.
Occorre, sempre di nuovo, che il credente sappia contestare l’evidenza, sappia guardare oltre gli eventi. L’uomo che crede sa cogliere, nei crepacci della propria vita personale, della storia dei popoli e dell’universo, la speranza sepolta sotto le macerie; sa leggere gli eventi in trasparenza, alla luce di un futuro che è sempre possibile, perché è il futuro creato da Dio. Questa non è poesia, e nemmeno mero ottimismo, ma speranza: l’ottimismo è fondato su educazione e natura, la speranza cristiana, invece, è fondata sulla promessa divina.
Ritornare
al deserto
Una bella pagina di Giacomo, offerta nella terza domenica di Avvento, parla della pazienza del contadino: Ecco che l’agricoltore aspetta il frutto prezioso della terra, attendendo con pazienza che essa riceva le prime e le ultime piogge (Gc 5,7-8). L’attesa non è passiva, come potrebbe apparire a prima vista. L’agricoltura, infatti, soprattutto in Israele, dove il nemico è il deserto che avanza e carpisce la speranza, è una lotta quotidiana. Il contadino lotta con il deserto, giorno dopo giorno, anche quando l’attesa è segnata dalla sfiducia e dall’impotenza, perché solo così la vita resiste. Il contadino aspetta e rispetta i tempi della terra: le stagioni della semina, dei frutti e della raccolta… nella consapevolezza che la vita germoglia nel mistero, là dove affondano le radici e dove occhio umano non può penetrare.
Nella nudità del deserto l’uomo ritrova le sue origini, imparando ciò che veramente conta e fa vivere. Riscopre che solo Dio è Dio, solo Dio rimane, mentre noi ce ne andiamo. Nel deserto l’uomo impara a conoscere la sua nuda condizione di uomo, perché lì non semina e non raccoglie, non coltiva e non accumula tesori. In questa condizione di essenzialità estrema, l’uomo impara a misurare le speranze non sul compasso della sazietà, ma su quello dei bisogni fondamentali, che si chiamano pane da mangiare, acqua da bere… In fondo è proprio qui che riscopriamo le nostre radici, perché l’Emmanuele, Dio-con-noi, mostra la misura del compimento, sulla via dell’oblazione.
Massimo Grilli