La Conferenza italiana dei superiori maggiori ha tenuto quest’anno la sua 51° Assemblea generale a Firenze dal 7 all’11 novembre sul tema “Confronto e aspettative sul futuro della Chiesa in Italia”. Dei lavori di questa riunione ha presentato un’ampia sintesi il presidente don Alberto Lorenzelli, sdb che qui pubblichiamo quasi integralmente per la sua completezza. Anche i nostri lettori possono così formarsi un’idea precisa dei contenuti di questa assemblea e degli interventi dei vari oratori su un tema che ci interpella tutti da vicino.

Il nostro obiettivo era di aprire un confronto. Si può senz’altro asserire che è stato raggiunto. Ma è l’animus ciò che conta in queste occasioni: non ci sentiamo affatto estranei alla vita della nostra Chiesa in Italia, sentiamo nostre le problematiche che attraversano una stagione complessa e spigolosa, come pure non possiamo sottrarci alle nostre responsabilità quando la controtestimonianza proviene dai nostri ambienti. E non ci preoccupa quale “figura” possiamo fare, quanto invece cosa ci rimette la Chiesa di fronte ad eventi incresciosi e allarmanti. Aprire un confronto è uno stile di comunicazione che dovrebbe sottrarre la CISM a una autoreferenzialità che la penalizzerebbe sul piano ecclesiale. Forse una formula anche per il nostro immediato futuro che consiste nell’intercettare le domande delle nostre chiese in Italia, prima di porre in prima linea solo i nostri interrogativi che talvolta hanno non sempre efficaci.

L’“attenzione antropologica” dei “cinque ambiti” di Verona


La pubblicazione degli Orientamenti della Conferenza episcopale italiana dal titolo Educare alla vita buona del Vangelo, ha introdotto in modo autorevole il tema dell’educazione come filo rosso dell’agire pastorale delle chiese in Italia per il prossimo decennio. In particolare, nel n. 54 del capitolo V, dedicato alle “Indicazioni per la progettazione pastorale”, ha declinato i percorsi di vita buona mediante i “cinque ambiti” di Verona. Da più parti emerge la domanda sulla funzione dei cinque ambiti, insistentemente richiamata e praticata durante questi anni in diverse occasioni dalle singole Chiese e dagli interventi di molti vescovi. In questa prospettiva, la vivace e coinvolgente relazione di mons. Franco Giulio Brambilla – non priva di spunti simpaticamente ironici – entrava nel merito degli ambiti antropologici nei quali era stata articolata la riflessione sulla speranza cristiana: «Ciò rappresenta effettivamente una sfida nuova. Occorrerà immaginare che cosa significhi questo per lo stile pastorale dei ministri del vangelo e prima ancora per la testimonianza del credente. Costoro devono saper dire e comunicare, attraverso ogni loro gesto, quella sapienza evangelica che è creatrice di umanità nuova, di speranza viva, di crescita della persona. Bisognerà ridare scioltezza a quei settori della vita pastorale e alla loro organizzazione pratica (dai livelli più alti degli uffici centrali alle singole comunità, passando per le diocesi e le strutture intermedie), rimescolando i compartimenti in cui si sono sovente cristallizzati. Occorrerà ripensare i gesti pastorali che spesso non intercettano quelli degli altri settori, rivedere i programmi che hanno un forte carattere autoreferenziale. Soprattutto bisogna mostrare in modo chiaro che si tratta di pensare e vivere una pastorale per l’uomo e con l’uomo, perché egli sappia di nuovo accedere alla speranza della vita risorta. La pastorale della chiesa – soprattutto quella che vuole ripensarsi in prospettiva missionaria e sta qui la “conversione” di cui tanto si parla – è tutta protesa a dar forma cristiana alla vita quotidiana».
Risuona per noi come un autentico appello l’invito di mons. Brambilla: ripensare le nostre presenze – anche in parrocchia – in “prospettiva missionaria”. Una tale prospettiva “propone chiaramente – continua l’ausiliare di Milano – il ripensamento delle azioni, dei progetti, delle iniziative e dei soggetti pastorali della Chiesa in modo integrato e corale non solo tra di loro, ma anche con le forze educative presenti sul territorio. Pastorale “integrata” e/o pastorale “d’insieme” indicano l’urgenza del momento, non tanto perché insieme è bello, ma perché l’azione comune e convergente consente di costruire cammini identitari forti e aperti. Per questa fondamentale “motivazione antropologica” occorre la convergenza sugli elementi essenziali dell’agire pastorale. Bisogna che tutti gli interessati siano capaci di ascoltare, immaginare, pensare e agire ascoltando ciò che manca al loro cammino: la Parola deve aprirsi al sacramento, la liturgia deve alimentarsi all’evangelizzazione, annuncio e celebrazione devono edificare la comunione e la carità, la vita cristiana non può non aprirsi al mondo”.
 

Cambio di modelli culturali

Se una vita cristiana non può non aprirsi al mondo e di questo ne siamo convinti, non di meno ci sentiamo “addosso” come Religiosi, un disagio perché questa apertura accoglie la sfida di un cambio di paradigma epocale. In questa linea l’intervento del dr. Gianfranco Brunelli, nella sua pacata e lucida analisi del percorso ecclesiale in Italia dal pontificato di Paolo VI ad oggi, sottolinea a ragione che il “cambio di mentalità” prende non solo i “valori non negoziabili”, ma l'intero habitus mentale della post-modernità. Con una citazione significativa del card. Carlo Maria Martini (2008) si sintetizzano efficacemente i contenuti dell’habitus mentale del nostro tempo: «Il pensare postmoderno è lontano dal precedente modo cristiano platonico in cui erano dati per scontati la supremazia della verità e dei valori sui sentimenti, dell'intelligenza sulla volontà, dello spirito sulla carne, dell'unità sul pluralismo, dell'ascetismo sulla vitalità, dell'eternità sulla temporalità (…). Questo è un mondo nel quale prevale la sensibilità, l’emozione, l'attimo. L'esistenza umana diventa un luogo e uno spazio nel quale tutto il possibile è immediatamente tutto reale. E tutto legittimo. (…) è una reazione – dice Martini – contro una mentalità eccessivamente razionale. La letteratura, la musica, e le nuove scienze umane rivelano come molte persone non credono più di vivere in un mondo guidato da leggi razionali, dove la civiltà occidentale è un modello da imitare». Il nuovo paradigma può essere così sintetizzato, afferma il direttore del “Regno”: «io, qui, ora. L'estetico prevale sull'etico».
 

Bisogno di maestri che siano testimoni

Per questo – ha richiamato con enfasi e convinzione mons. Brambilla – dobbiamo «per un tempo ampio focalizzarci sulla questione educativa: ci farà prendere coscienza che noi trasmettiamo sempre vangelo (e valori) dentro forme pratiche di vita, ma consegnando questi dovremo continuamente non annunciare noi stessi o i nostri modi di vivere, ma il vangelo di Gesù. Esso non s’incontra allo stato puro, ma dentro un volto e una storia, a condizione che questi volti e queste storie di vita dicano Lui e non essi stessi. La sfida educativa ha bisogno di maestri che siano testimoni! La Chiesa deve custodire il cammino di una buona educazione, come momento necessario dell’evangelizzazione, deve sapere che senza questa l’evangelizzazione resta consegnata all’illusione delle grandi parole e all’insignificanza per l’esistenza pratica».
Severa l’affermazione del vescovo ausiliare di Milano, cioè una evangelizzazione «consegnata all’illusione delle grandi parole e all’insignificanza per l’esistenza pratica». In questa prospettiva risultano non meno preoccupanti i dati forniti dal dr. Brunelli, risultato di indagini promosse dal periodico da lui diretto. Secondo diversi studiosi, in Italia a differenza degli altri paesi si sarebbe arrestato o addirittura invertito il processo di secolarizzazione. I dati di ricerche comparate e di quella promossa dal “Regno” nel 2010, mostrano uno scenario diverso. Più problematico. Soprattutto se si guarda la generazione dei figli attuali, quelli nati nel 1989. Vi è qui una ripresa del processo di secolarizzazione. «Cosa accadrà – si chiede il dr. Brunelli – quando la generazione dei figli sarà la generazione dei padri e delle madri? Se è vero che si mantiene un riferimento al religioso, esso risulta più vago, indeterminato. Il suo permanere non coincide con una ripresa dell'elemento ecclesiale. I cattolici cessano di essere una maggioranza e il loro cattolicesimo si fa più evanescente. Siamo di fronte a uno scenario meno connotato dal cattolicesimo e più genericamente cristiano”.
Se il linguaggio della testimonianza rivolta alle nuove generazioni, non torna ad essere quello della vita quotidiana – come afferma la nota pastorale della CEI dopo Verona – non potremo certo attivare una «una pastorale più vicina alla vita delle persone, meno affannata e complessa, meno dispersiva e più incisivamente unitaria» . Come ha richiamato più volte fr. Enzo Biemmi – si tratta di dislocarci dal luogo dove siamo nei luoghi dove vive la gente . È necessario chiederci se le nostre comunità (religiose, parrocchiali, movimentiste…) siano disposte, prima ancora che preparate, ad aderire e a fare proprie, con creatività e capacità di adattamento, le scelte maturate in questi anni e ri-proposte dai vescovi italiani negli orientamenti pastorali. Tema e problema ripreso anche da p. Volpi nella sua relazione.
 

Chiesa che fare?

Chiesa che fare? L’interrogativo sollevato dal teologo Severino Dianich, è una domanda che non possiamo non fare nostra, anzi ci provoca in prima persona e come Istituti di vita consacrata. «Questa è la domanda su cui lavorare, illuminati dalla fede e riscaldati dalla speranza, la quale non è altro che l’altra faccia della fede stessa. Chi crede nel Vangelo di Gesù Cristo, cioè nella “buona notizia” che egli ha portato agli uomini , non può non rinchiudersi in una visione cupa di futuro, ma deve scrutare i segni dei tempi e illuminare il futuro con la parola del Signore . (…) Certamente la nostra Chiesa è destinata nel prossimo futuro a ulteriori spogliazioni. Cadranno molte cose, perderanno smalto o forse spariranno molte istituzioni, saremo considerati dal gran mondo ancor meno di quanto lo siamo oggi, ma sono convinto che allora, nella semplicità e nella povertà, si ritroverà più fresco lo slancio del Vangelo. Già ne stiamo scorgendo i segni, per esempio, nell’invenzione di nuovo forme per l’evangelizzazione adatte alla nostra gente, nell’incipiente cura dei catecumeni nelle chiese locali, nella crescita di adulti che chiedono il battesimo. La spogliazione a cui la Chiesa in futuro sarà esposta, per il calo numerico dei fedeli, la perdita dell’influenza sulla società, la riduzione delle sue proprietà e dei suoi mezzi d’azione, dovrebbe portare con sé un solo rammarico, quello di uomini che perdono la fede, perché li amiamo e, se non godono della bellezza della fede, ce ne dispiace moltissimo . Per il resto può essere visto come un’azione provvidenziale del Signore che vuole la sua Chiesa umile e povera, come lo fu lui nella sua vita in mezzo agli uomini» .

Religiosi e chiesa locale

Condividiamo la premessa formulata da.mons. Mariano Crociata, segretario generale della C.E.I., che in merito alla relazione religiosi – Chiesa locale «è importante prendere coscienza ed esplicitare le premesse, che a loro volta rimandano a visioni teologiche ed ecclesiologiche. Bisogna chiedersi, infatti, con quale teologia della Chiesa locale e della vita consacrata operiamo. E ce lo chiediamo avvertendo già una sorta di contaminazione originaria tra i due termini. Nel suo momento sorgivo, la vita consacrata come si pensa e si colloca nella Chiesa? E – inversamente – la Chiesa locale come percepisce e vive la presenza, radicata nel suo seno, della vita consacrata? Così domandando, non passeremo sotto silenzio che “vita consacrata” è, in un certo senso, un concetto quasi analogico, poiché si applica a monaci, religiosi e consacrati secolari, per stare alle distinzioni principali in materia».

Per una cultura del dialogo

Rimangono, tuttavia aperti non pochi problemi nell’interazione ecclesiale, emersi anche nei dibattiti di questi giorni. Forse sottovalutiamo il fattore e l’evidenza che le cosiddette “culture intraecclesiali” – parlo concretamente delle Mutuae relationes – ricevono nei pubblici dibattiti, ampie disamine, reciproci verbali riconoscimenti, attestati del “grande cammino fatto”, e così via… Mi chiedo quali ricadute sulla mentalità e prassi ecclesiale di clero, laici, movimenti. Indubbio che si tratti di cammini di lungo percorso. «Non c'è dubbio – ha affermato l’arcivescovo-segretario mons. J. W. Tobin – che in molte chiese particolari, le strategie che propone l’Istruzione Mutuae Relationes a favore del dialogo tra le diverse vocazioni o sono state abbandonate o non sono mai state provate. Tuttavia, poiché la dottrina dell’Istruzione sulla comunione rimane un elemento fondamentale del magistero della vita consacrata, dobbiamo chiederci perché questa particolare applicazione non sempre trova un'eco nella pratica delle chiese locali. A mio modesto parere, uno dei motivi di questa discrepanza è un insufficiente apprezzamento del valore del dialogo nella Chiesa”.
La posizione del segretario generale della C.E.I non si discosta dal “parere” di Mons. J. Tobin: «Non si è del tutto dissolto il retaggio di un certo passato, in cui la vita consacrata quasi “galleggiava” sulla Chiesa locale mentre le diocesi o ignoravano la vita consacrata (soprattutto quelle con un clero numeroso), oppure guardavano (quelle con scarsità di clero) alle comunità religiose come serbatoio di presbiteri da investire nell’attività pastorale. Vi è da riprendere un cammino fatto di conoscenza, confronto, collaborazione, sinergie. Tra consacrati, vescovi e preti diocesani, permane, innanzitutto, un problema di conoscenza, senza la quale non possono esservi stima e riconoscimento non soltanto formali. Giovanni Paolo II, alla vigilia del Sinodo del 1994, poteva affermare che “la vita consacrata costituisce un capitolo fondamentale dell’ecclesiologia” , e perciò invitava “alla miglior conoscenza reciproca” . In questo senso una conoscenza adeguata può contribuire efficacemente a una prassi di comunione teologicamente fondata».

Il dialogo produce conoscenza, la conoscenza reciproca apre cammini di solidarietà e di futuro per le nostre Chiese e per la stessa vita religiosa. Questo deve stare a cuore a tutti, al di là di organismi e strutture che possono essere occasioni di dialogo e anche di reciproco confronto. Non ci sentiamo essenziali, né avanziamo rivendicazioni in questa direzione, anzi siamo ben consapevoli – in questa fase cruciale della vita ecclesiale e sociale della nostra nazione – che noi, per primi, come religiosi abbiamo veramente bisogno di un “supplemento d’umiltà”: primo, per non rendere vano il Vangelo di Cristo; secondo, per saper investire in credibilità e affidabilità presso tutte le componenti ecclesiali; terzo, ma non ultimo, perché sentiamo veramente nostre le attese, le speranze, le sofferenze della gente del nostro tempo. Nella parte che a noi spetta nel servizio ecclesiale, non ci sottraiamo a quella che può definirsi una seria “emergenza ecclesiale”, come ha ben colto il dr. Brunelli, anche noi «non possiamo accettare un cattolicesimo senza cristianesimo, un puro dato socio-culturale, magari da usare strumentalmente da una cultura laica che vuole proteggere se stessa. Solo l'escatologia cristiana è in grado di affermare che solo Dio è Dio; solo l'escatologia cristiana è in grado di riconoscere e denunciare gli idoli vecchi e nuovi; solo l'escatologia cristiana fonda una corretta visione laica che consente di disubbidire ad ogni religione politica, sia essa fondamentalista o secolarizzatrice». La “visione escatologica” appartiene all’identità cristiana e consacrata. Anche qui si tratta per noi religiosi di dare concretezza e trasparenza a questa visione perché in fondo l’interrogativo su Dio può avere anche le nostre risposte e sarebbe un dialogo carente – a livello ecclesiale – voler eludere questa nostra responsabilità!
La responsabilità della vita fraterna in comunità

Nel contesto delle nostre responsabilità, non va sottaciuta la forte sottolineatura da parte del segretario della C.E.I. che va recuperata la credibilità della vita fraterna in comunità, in particolare nella pastorale parrocchiale «dove il suo esserci in forma comunitaria permette di diversificare le attività e attenzioni pastorali – per puntare a quella “conversione pastorale” che richiede una “pastorale di missione permanente” , lanciandosi sulle strade dell’evangelizzazione e della nuova evangelizzazione . Quest’ultima si può specificare come annuncio, fatto prevalentemente nel contesto dei paesi di antica cristianità, a chi ha voltato le spalle a un cristianesimo giudicato poco interessante e inutile fardello per vivere nei pluralistici e complessi contesti contemporanei. L’esclusione di Dio e l’indifferenza religiosa sono sfide che devono mobilitare le energie migliori, attraverso una pastorale estroversa che si apre a largo raggio per incontrare i lontani e offrire loro un’immagine di Chiesa ospitale e fraterna, al di là dei luoghi comuni e di gretti stereotipi»”.

La propria differenza amante
Si apre qui positivamente l'occasione non solo per Chiesa, ma anche per la vita religiosa di affermare e sperimentare, quella che il dr. Brunelli ha chiamato «la propria differenza amante rispetto alla città democratica»: quell'alterità che esige una rinnovata capacità di intervento educativo sul piano della edificazione della coscienza del singolo; una rinnovata capacità di riflessione teologica e di cura della fede; una permanente contemplazione della carità. In questo senso gli Orientamenti della CEI per questo decennio offrono spunti interessanti. Mons. F.G. Brambilla in questa direzione ha fatto egregiamente la sua parte nella convinzione che è in atto non “un cambiamento congiunturale in superficie, ma di un mutamento strutturale in profondità. Bisogna incrociare coraggiosamente le tre dimensioni pastorali dell’educare: costruire l’identità della persona, generare alle forme della vita buona, testimoniare nella sinfonia di relazioni integrate. Forse da qui ne verrà anche un’agenda pastorale persuasiva per i prossimi anni, che tenga conto delle età della vita per la sfida dell’identità, della passione educativa per motivare autentici educatori, delle relazioni in gioco per ridisegnare il volto delle famiglie, delle comunità e degli altri soggetti educativi implicati. Fino ad approdare alla riforma delle forme istituite (primo annuncio, iniziazione, catechesi, percorsi formativi adulti, scuola). Cambiare è rischioso, ma necessario. Le forme istituite sono il modo con cui la nostra libertà di capire, amare e sperare può intuire strade nuove e trovare pensieri che ci consentano di dare “forma cristiana” alla vita e alla storia nostra e di molti fratelli. Perché l’attenzione antropologica non altro può significare: che il Signore a ogni generazione chiama sempre da capo l’uomo e la donna, dentro la vita comune, per fargli risuonare l’appello: “Vieni e seguimi!”.

L’alleanza educativa


Mons. Mariano Crociata, richiamando lo spirito degli Orientamenti dell’episcopato italiano per il decennio, Educare alla vita buona del Vangelo, ritiene che la valenza educativa riguardi tutte le opere dei consacrati: «Il loro fare – afferma il segretario della C.E.I. – è anche sempre in qualche modo “educativo”, e lo è in senso evangelico quanto più lascia trasparire l’agire stesso di Dio, educatore del suo popolo. In quell’”alleanza educativa” sollecitata al n. 35 del documento non possono mancare i consacrati, poiché, come ha detto nella nostra ultima assemblea, nel novembre 2010, il cardinal Bagnasco: «L’alleanza educativa tra la Chiesa e le più diverse agenzie sociali non è pensabile senza aver prima assicurato una più stretta sinergia all’interno stesso del mondo cattolico tra i religiosi e le chiese locali» . Nel suo insieme e per più motivi la vita consacrata «rappresenta una risorsa educativa… e costituisce una testimonianza per tutte le altre forme di vita cristiana» , e questo fatto non potrà che favorire il suo inserimento nei progetti e nei cammini della Chiesa italiana nel corso del decennio, con attenzione particolare all’ambito educativo scolastico . Se la carenza di vocazioni rende difficilmente sostenibile la gestione di opere e spinge alcuni istituti a ripensare le proprie presenze e a ridurre attività e servizi, questo dev’essere fatto attraverso «un dialogo previo e una valutazione comune con la Chiesa locale interessata» , in particolare per le scuole. Infatti «il servizio della scuola cattolica è oggi richiesto ancor di più da una società frantumata che cerca un ambiente educativo affidabile, confermando l’intuizione storica dei grandi fondatori di Ordini religiosi sulla necessità di avere concreti spazi in cui avviare l’integrazione tra fede e vita, per fare del Vangelo il decisivo punto di riferimento della crescita della persona e della sua formazione culturale» .

Analogo orientamento e cordiale invito è venuto da mons. Giuseppe Betori, arcivescovo di Firenze, nell’omelia offerta durante la celebrazione eucaristica in S. Croce: «alla vita consacrata è chiesto un saldo radicamento ecclesiale, una costruttiva relazione con le strutture ecclesiali diocesane. Da questa duplice attenzione potrà scaturire un valido contributo dei religiosi alla vita della Chiesa in Italia, come vi siete ripromessi mettendolo a tema della vostra Assemblea. Sarà infatti difficile – rileva Betori – per le nostre chiese diocesane condurre avanti una progettualità pastorale orientata dai bisogni educativi della nostra società. È un cammino su cui gli istituti religiosi hanno accumulato una secolare esperienza, un cammino che va aggiornato ai tempi, un cammino da affiancare e integrare nella realtà delle Chiese locali”.
Mi sento in cordiale sintonia – e sono certo d’interpretare tutti voi- con quanto asserito da mons. J. W. Tobin, a conclusione del suo apprezzato intervento: «La forza della Chiesa è nella comunione e solo sotto questo punto di vista possono nascere le relazioni reciproche dei discepoli di Gesù Cristo. Le disposizioni canoniche e il contenuto del Magistero possono favorire un clima di collaborazione armoniosa e feconda tra i membri del presbiterio, sia religiosi che diocesani. Ma non tutti i problemi che ci presenta la vita attuale possono essere risolti con l’applicazione delle norme. La ricerca del bene comune della Chiesa, l'amore e un sincero desiderio di servire, uno spirito vivace di amicizia e un dialogo creativo saranno sempre il migliore aiuto”.