Al centro di questo vangelo - e della festa liturgica di Cristo re - sta
l'icona del Pantocrator, seduto in atteggiamento glorioso, alla maniera dei
sovrani.
Meglio Lui dei potenti del mondo, dal momento che ai discepoli disse un giorno:
"Io sto in mezzo a voi come colui serve" (Lc 22,27). A condurre avanti la storia
non sono le scelte dei grandi, ma il disegno di salvezza e di amore che ci ha
mostrato Gesù e per il quale ha dato la sua vita.
Tutti i padreterni, che pensano di fare il buono e il cattivo tempo nelle
vicende dei popoli e dei singoli, sono sconfessati dall'unica signoria del
Cristo.
Annunciando la fine - ma è il fine, la meta cui tendere - la parola di Dio
afferma perentoria: "Poi sarà la fine, quando il Cristo consegnerà il regno a
Dio Padre, dopo aver ridotto al nulla ogni principato e ogni potestà e potenza"
(1Cor 15,24).
Il regno viene per la forza dello Spirito, ma siamo anche invitati a chiedere
che Dio stesso ne affretti l'avvento: Venga il tuo regno!
La preghiera si fa quasi naturalmente forza di impegno storico e chi prega si
sporca le mani, affinché giustizia e pace divengano scelte concrete; ridurre al
nulla i poteri che schiacciano è compito del popolo delle beatitudini, non
pretesto menzognero di chi decide le guerre preventive.
"L'ultimo nemico a essere annientato sarà la morte" (1Cor 15,26).
Non basta, tuttavia, che sia vinto il potere di chi opprime e sfrutta, se la
parola ultima è della morte, del buio, dell'abisso.
Contemplare l'icona del Pantocrator è fonte di speranza e annuncio di
liberazione, risposta alla domanda radicale e offerta di un vangelo — buona
notizia — detto su ogni realtà negativa, dentro e fuori di noi.
Rimane peraltro il pericolo, o la tentazione, di applicare alla gloria del
Cristo che regna la nostra logica.
Il suo ritorno glorioso sembra, infatti, a noi una sorta di risarcimento dovuto
alla sua prima venuta, iniziata nel segno della povertà e del nascondimento e
finita nello scandalo paradossale del rifiuto e della croce. Come dire: quando
tornerà farà vedere chi è, riceverà finalmente gli onori che si merita, sarà
riconosciuto nella sua potenza. Nell'attesa della sua venuta sembriamo dire, con
certe nostre consuetudini di chiesa, che è meglio farci risarcire prima,
anticipando un po' della gloria finale.
Se così fosse, povero vangelo!
Il suo ritorno avverrà nella medesima logica della venuta nella carne,
incontreremo lo stesso Gesù che non ha considerato un tesoro geloso la sua
uguaglianza con Dio, ma ha svuotato se stesso facendosi servo. "In verità vi
dico: tutto quello che avete fatto a uno solo di questi miei fratelli più
piccoli, l'avete fatto a me" (Mt 25,40).
Non si tratta semplicemente di fare qualche buona azione, così il Signore ci
premia; è in questione la possibilità di riconoscerlo, quando ci verrà incontro
nel momento definitivo. "Signore, quando mai ti abbiamo veduto...?" (Mt
25,37.44).
La sollecitudine verso il povero — come il segno del pane spezzato, cioè della
sua vita data per amore — apre i nostri occhi similmente ai due di Emmaus: lo
riconobbero.
Allora sì che ci verrà incontro, come pastore buono. "Ecco, io stesso cercherò
le mie pecore e le passerò in rassegna... Io stesso condurrò le mie pecore al
pascolo e le farò riposare" (Ez 34,11.15).
Dario Vivian
da E fu dolce come miele
ISG Edizioni-LDC, Vicenza - Torino 2007