Sono state fatte e presentate – e si continua a farlo – svariate letture del documento della CEI: Educare alla vita buona del Vangelo, Orientamenti pastorali dell’episcopato italiano per il decennio 2010-2020. Da uomo-prete di strada ne ho fatto una lettura ristretta e focalizzata e mi sono soffermato su uno dei problemi che angustiano e preoccupano non poco e non da poco, (a parte qualche isola felice!) la vita della Chiesa in generale, di quasi tutte le diocesi e della stragrande maggioranza di istituti religiosi maschili e femminili di vita consacrata.
Le parole di Gesù, come si leggono in Luca 12, 54-57 e riportate nel documento (cf n.7), mi fanno pensare a una possibile, per non dire doverosa, necessaria e urgente provocazione a una lettura sapienziale ad alto livello sulla situazione vocazionale quasi generale nel mondo e nel nostro tempo per un “servizio al bene della società”, “in piena docilità allo Spirito”; che si riassume e consiste, – quale vocazione naturale, missionaria e specifica della Chiesa mediante operai appropriati –, nel mettere “a disposizione di tutti la buona notizia dell’amore paterno di Dio per ogni uomo” (n.4).
I vescovi italiani sono consapevoli di dover sostenere un compito arduo ma anche entusiasmante: quello di riconoscere, nei segni dei tempi, le tracce dell’azione dello Spirito in quanto, per la relativa e conseguente azione pastorale, lo stesso Spirito offre due aiuti importanti e determinanti: apre orizzonti impensati e suggerisce e mette a disposizione strumenti nuovi (n.5) per il servizio della Chiesa.
Tutto ciò non può non influire e non determinare una svolta nella pastorale e formazione dei nuovi chiamati: educarli a una Chiesa solo di parrocchie singole o invece integrate, comunicanti, condividenti e collaborative tra di loro? a un presbiterio comunionale fatto di piccole comunità/fraternità presbiterali? a una vera sinodalità tra preti e laici in chiave di unità e di concreta ministerialità laicale?

Alcuni interrogativi aperti

Quali sono o sarebbero concretamente gli orizzonti impensati aperti dallo Spirito? Quali gli strumenti nuovi suggeriti e addirittura messi a disposizione dallo stesso Spirito?
Ritengo che non basti e non ci si debba fermare alla constatazione preoccupata, preoccupante e lamentosa che mancano i preti, i frati, le suore e non si possano assicurare tante e tutte quelle presenze evangeliche significative e preziosissime, tante e tutte opere di bene che se mancassero, segnerebbero un vero disastro sociale e tanti servizi importanti e indispensabili che, venendo meno, determinerebbero un discapito di migliaia e migliaia di persone incapaci e impossibilitate di provvedere a se stesse.
Ritengo che fare il solito processo all’altrui secolarizzazione, all’altrui materialismo e all’altrui edonismo dilagante e crescente della società sia un discorso che, colpendo tutti, non raggiunge nessuna persona e nessun obiettivo concreto e operativo.
Penso che il richiamo necessario e giusto alla testimonianza dei consacrati, delle comunità e dei singoli fedeli cristiani, come fattore efficace di messaggio e pastorale vocazionale ma in chiave solo generale e generica, lasci facilmente il tempo che trova.
Quanto ci si interroga se il secolarismo, il materialismo, l’edonismo materiale e spirituale, la mondanità (l’ambizione, il carrierismo, il senso e la tentazione del dominare l’altro (n.28) per motivo e spirito (?) di servizio, il farsi servire da “signori” con il pretesto del riconoscimento, dell’onore e del rispetto del ruolo che diventa dominio comodo, e compiacente affermazione di sé), è solo nel mondo o anche nella Chiesa e quali ne sono i segni rivelativi e sospetti?
Ritengo che, accanto al primario e insostituibile servizio-impegno vocazionale del pregare il Signore della messe, perché mandi operai nella sua messe (Mt 9,38), e al farsi carico della responsabilità vocazionale delle famiglie, delle comunità cristiane e di ogni singolo fedele, ci debba essere (con un sinodo?) un fermarsi e chiedersi che cosa ci dice il fenomeno del calo e della scarsità vocazionale (segno dei tempi?) dal punto di vista sapienziale e cosa vuole e si aspetta il Signore perché la sua Chiesa sia un grembo fecondo di vocazioni, una fucina di nuovi e numerosi consacrati, una palestra veramente pedagogica per addestrare i chiamati alla testimonianza della vita buona del Vangelo e alla missione della nuova evangelizzazione.
I vescovi dicono che, di fronte a un mondo che cambia e al Signore che domanda di valutare il tempo (cf 7), occorre interpretare, ossia fare discernimento circa le domande e i desideri dell’uomo; e richiamano la consegna chiara e imperativa del Vaticano II: «È dovere permanente della Chiesa di scrutare i segni dei tempi e di interpretarli alla luce del Vangelo».

Perché non pensare a un sinodo?

Gli stessi vescovi giungono poi arditamente, con un “dunque” consequenziale, a vedere coinvolti tutti i fedeli nel compito discrezionale dei segni dei tempi: «Tutto il popolo di Dio, dunque, con l’aiuto dello Spirito, ha il compito di esaminare ogni cosa e di tenere ciò che è buono”, riconoscendo i segni e i tempi dell’azione creatrice dello Spirito» (n.7).
Da queste parole indicative e decise, verrebbe spontaneo pensare che i vescovi italiani pensino a un momento assembleare o sinodale della Chiesa tutta non solo ristretta ai soli pastori ma estesa ai fedeli cristiani, pur nelle modalità operative pertinenti.
I convegni ecclesiali ogni 5 anni hanno e danno (come?) il senso che è “tutto” il Popolo di Dio che non solo constata una realtà di fatto, ma tenta di farne, prima di ogni altra cosa, una lettura sapienziale e poi passare a elaborare delle risposte non tanto per i “bisogni” e le attività pastorali, ma date allo Spirito in base agli orizzonti impensati che ha aperto e agli strumenti nuovi che non solo ha suggerito ma anche messo a disposizione (n.5)?
Perché non pensare ad un Sinodo per discernere e definire se la crisi di vocazione è o non è un segno dei tempi con tutti gli annessi e connessi? Chi ce lo può dire e ce lo dice ufficialmente?
Il calo e la mancanza di vocazioni nella maggior parte delle chiese particolari e delle famiglie religiose, anche se nella media mondiale se ne registra qualche segno positivo come pure il sorgere di nuove forme di vita consacrata, si dice che sia un “segno dei tempi” e quindi, in certo qual senso, facente parte della continuità della divina rivelazione contenuta nella tradizione ecclesiale.
Mi viene da domandarmi: se ci sono poche vocazioni a fronte di tanto pregare che si fa nella Chiesa e dalle comunità e dai singoli fedeli, non sarà forse che bastano i chiamati che ci sono e c’è bisogno invece di cambiare qualcosa all’interno del corpo ecclesiale?
Dire che occorre essere più santi, più evangelici, più fedeli alla propria vocazione, è dire il tutto e il meglio, ma è come sparare a zero se le cose che si dicono non si vedono in segno concreti e sperimentabili.
È mai stato riconosciuto e dichiarato da chi ha la competenza e l’autorità di farlo ufficialmente che la crisi vocazionale non solo un dato di fatto ma un “segno dei tempi” con tutte le conseguenze che ne derivano ? Se “sì’, quando e dove è documentato non solo tra le righe ma espressamente?

Cosa sta dicendo lo Spirito alla Chiesa?

Allora, se fosse e se è un vero e autentico teologico segno dei tempi come ne parla il Vaticano II, che cosa lo Spirito sta dicendo alla/e alle Chiese di oggi, come, due mila anni fa, aveva detto alle sette Chiese dell’Asia Minore? (cf Ap 1,11) Quali ricadute, conversioni, cambiamenti, svolte, ecc… nella vita, nello stile e nell’azione pastorale della Chiesa e del suo personale? Quali proiezioni vengono fatte per preparare il futuro delle Chiese e determinare le scelte del presente in vista e in funzione del domani in base alle indicazioni del discernimento dell’eventuale segno dei tempi della situazione vocazionale della vita religiosa di speciale consacrazione?
Il vivere e l’agire della Chiesa nei suoi membri può seguire il criterio del “si è sempre fatto così”, “è da anni e secoli che si fa così” con il rischio che le “tradizioni” si cristallizzino e assumono la fisionomia e il valore di “tradizione”, oppure, aprendosi agli orizzonti impensati dello Spirito, ipotizzare nuovi modi di essere e di fare Chiesa non soltanto dei preti ma pure dei “poveri e degli ultimi, dei laici e delle donne (senza, per questo, pensare al sacerdozio femminile); indicare e far intravvedere quali sviluppi ha il discorso circa la ministerialità e la corresponsabilità laicale inerente ai sacramenti che hanno ”in corpo”, e non solo per delega e benevola concessione e quali applicazioni ne vengono fatte?; ricercare nuovi linguaggi non autoreferenziali (n.41) e delineare dei progettuali itinerari formativi, più adatti al tempo presente e più significativi per la vita delle persone (n.3); circa la ministerialità ci si può e deve fermare solo ai consigli pastorali e alla mera collaborazione con i pastori oppure pensare agli “strumenti nuovi” suggeriti dallo Spirito (cf n.5) oppure si può e si deve parlare anche di coeducazione ecclesiale (come e quando?) tra i vari membri e le specifiche componenti del Popolo di Dio? I Vescovi Italiani, già nel 1969, nel documento pastorale. Matrimonio e Famiglia in Italia, avevano arditamente parlato di coeducazione tra genitori e figli: «Nella famiglia l’educazione avviene anche da parte dei figli verso i genitori. Crescendo insieme, nel dialogo con i figli, i genitori sono stimolati a ripensare gli orientamenti di fondo della vita, a valutare gli ideali di cui i giovani si fanno portatori, a rinnovare la coerenza della propria esistenza» (n.13). Sarebbe ereticale e disdicevole provare a sostituire, nel testo precedente, “famiglia” con “Chiesa”, “genitori” con “pastori” e “figli” con “fedeli laici”? Cosa ne risulterebbe?
Non so se sia possibile e utile osare qualche risposta e iniziativa operativa.