Negli istituti religiosi l’impegno sociale a fronte delle nuove povertà, è
ri-nato negli anni ’70-‘80 in forme rispondenti alle sfide di quel tempo in cui
erano assenti le politiche sociali dello Stato. L’assistenza diventava
accoglienza, vale a dire scelta della relazione interpersonale valorialmente e
affettivamente significativa, dettata dal desiderio di superare i termini
tradizionali di “carità” e “servizio”, in favore della condivisione, intesa come
partecipazione alla vicenda dell’altro per assumerne condizioni e problemi.
Nati dal “fare famiglia” …
Prima di allora il termine condivisione non era corrente parlando di servizi
alla persona. L’azione educativa e sociale dei Fondatori, quella che intendeva
congiungere professione con vocazione solidaristica si chiamava “lavorare per
amore”: questa era la “mistica” della loro azione educativa e sociale che
intravvedeva, nel modello di tipo familiare, il modo di "guarire", di far
crescere equilibrato, sereno le persone. Tutto ciò è possibile attraverso figure
precise di riferimento in un contesto vero, reale, stabile che scelgano di farlo
per “scelta” e non solo per “lavoro”: era il pensare di vari santi Fondatori
sociali di fine ottocento.
Uno di questi, san Leonardo Murialdo, esprimeva ciò con il dire: «Non è
sufficiente fare delle cose per i ragazzi, ma è necessario fare famiglia con
loro». Con queste espressioni si intendeva l'educare la persona nella sua
globalità, affetti, intelletto, apprendimento, in un contesto di quotidianità,
con una interazione che non prediligesse le barriere del rapporto di ruolo. Ora
sono le scienze sociali a dirlo: «quando nell’allestire un servizio si incontra
un disagio profondo (non la crisi momentanea ma la sofferenza impastata con le
radici stesse della persona, con la sua storia in quanto persona), allora le
professionalità specifiche servono, sì, ma passano in secondo piano. Quel tipo
di disagio è superabile solo sulla base di un profondo coinvolgimento
esistenziale, di una qualche forma di condivisione della vita» . È capace di
fare questo chi sceglie di amare. Don Benzi era solito dire: «Il bambino,
l’adolescente, avverte se si sta con lui perché lo si è scelto, e lo si è scelto
perché amato, o se pur facendo tante cose per lui è stato scelto per necessità
di lavoro o altro». E ciò è vero non solo in riferimento ai giovani. Il noto
escursionista Ambrogio Fogar, diventato paraplegico in seguito a un incidente e
scomparso nel 2005, diceva: «Non impegnarti in questo settore per senso del
dovere, ma solo per amore. Tu che hai capito quanto bisogno c’è del tuo aiuto
non deludermi».
Per i religiosi/e la scelta della condivisione trovava e trova alimento nella
fede, capace di arricchire la risposta ad alcuni grandi perché, che la cultura
della condivisione prima o poi si deve porre: perché ogni uomo, anche l'ultimo,
ha uguale dignità? Perché siamo responsabili gli uni degli altri? Perché la
storia è regolata dalla legge dell'amore? Padre Balducci, non certo sospettabile
di integrismo, ha scritto: «Solo se metteremo Dio al primo posto, capiremo bene
che cosa significhi aiutare i poveri, affaticarsi per loro. Quelli che li
aiutano senza Dio nel cuore, senza la contemplazione, a volte alimentano solo
speranze terrene e quindi mentre aiutano distruggono; distruggono la speranza
che non si riposa nelle cose terrene ma va oltre: ecco perché crescendo il
benessere dei poveri non è detto che cresca il senso spirituale della vita: anzi
molte volte diminuisce».
Quel periodo di rinascita (’70-’80) è stato un momento di grande, positiva
enfasi dell'ideale solidaristico fatto proprio da quei giovani, allora numerosi,
per i quali il lavoro sociale era una scelta di vita orientata al saper mettere
in gioco il proprio benessere per riprodurre continuamente l'idea di "dono". Il
crescere di queste «nuove vocazioni» laicali coincideva con lo scemare di quelle
di speciale consacrazione, per cui i laici divennero preziosi compagni di strada
nel gestire servizi. Era il modo d’essere e di fare in cui l’identità
carismatica dei religiosi/e si riconosceva.
… per diventare “venditori di servizi”.
Da allora sono passate due generazioni. L’impegno nato da quel clima culturale
propenso a mettere insieme realtà e idealità ha retto finché questo ha tenuto.
Man mano che nei collaboratori è andato diminuendo il “vocazionale”, a
determinare la scelta di servizio, è stata la preoccupazione “occupazionale”
relegata alle cose da farsi o al tempo lavorativo e non la scelta di una
solidarietà che attraversa la vita. Oggi sono prevalenti gli operatori
legittimati dalla professionalità più che dall'appartenenza ad un “mondo
vitale”, venendo meno in tal modo, molti investimenti di senso. Inizia così il
mutamento dell'ethos dell'operatore sociale che si porta pian piano, ad essere
lavorista, rendendo prima o poi fragili le logiche di “dono” necessarie nella
relazione di aiuto. Ed è così che il servizio nato da una passione carismatica
si porta ad evolversi come un modello d'impresa di lavoratori, che, per restare
sul mercato, deve rafforzare le proprie capacità di sviluppo
imprenditorializzando il lavoro sociale. Da qui il venir meno dei volontari la
cui nativa vocazione non è quella di essere funzionali ad una impresa di lavoro,
ma al bisogno di chi è in difficoltà. Nel contempo le vocazioni alla vita
consacrata sono andate ulteriormente diminuendo e le nuove, non “contagiate” dal
precedente forte momento culturale, sono diverse in quanto a “passione”, in
riferimento al disagio sociale conclamato.
Altra con-causa di questa deriva è data dal fatto che lo Stato ha, via-via,
privato i religiosi/e della “titolarità” dei servizi alla persona relegandoli in
posizione subalterna alle proprie esigenze, con una normativa tesa a uniformare
a sistemi di qualità apparentemente impeccabili, ma che alla fine si rivelano
fragili, ridondanti e frammentari, attenti più alla legittimità degli “atti” che
dei risultati, non più espressione dell’istanza carismatica di un ente, ricco di
generosità e di intraprendenza, ma sempre più esplicita espressione di un
contratto (Stato-Ente) dalle forti connotazioni istituzionali e commerciali.
Una domanda provocatoria
Come mai le attività maggiormente significative sono quelle i cui iniziatori non
sono Religiosi?: è la domanda posta in un gruppo di partecipanti all’incontro di
Assisi . Era chiaro il riferimento a don Benzi, don Ciotti, don Picchi, don
Albanese, don Clauser, ecc; o ai laici: Riccardi, Oliviero ecc. i quali si sono
posti di fronte al “nuovo” con la mente libera da parole e concetti uditi da
altri, da modelli standardizzati e da livelli decisionali estranei all’inedito.
E tutto questo per cercare di obbedire alla verità sottesa nei “segni dei
tempi”. In quegli anni la stessa inedita ispirazione dello Spirito era stata
fatta propria da vari religiosi/e, i quali però hanno dovuto fare i conti con il
“glorioso passato” istituzionale. Certamente l’istituzione è un rilevante
patrimonio di memoria e di intelligenza che funge da “volàno”. Funzione preziosa
in tempi di cultura omogenea, ma anche all’origine di difficoltà quando un’epoca
finisce, per il fatto che il volàno non è capace di disimparare per apprendere
nuove mappe concettuali. Nell’istituzione l’accoglienza del nuovo varia a
seconda che conferma o contraddice i propri presupposti. Ma quando la storia
presenta differenti orizzonti, le forme attuative del carisma, per continuare ad
essere espressive, domandano “discontinuità” piuttosto che riproposizione dei
“vissuti”. Negli Istituti le nuove forme, non essendo riferibili a prassi
consolidate, sono nate non conformi, stigma che le ha accompagnate per vari anni
condizionandone lo sviluppo sperato. Quanto detto va a dire uno dei motivi che
hanno determinato la differente significatività delle esperienze dei
“non-religiosi” da quelle dei religiosi/e.
Un altro motivo che determina rilevante diversità di significato e di esito, sta
nel fatto che chi inizia nuove forme di solidarietà, dopo alcuni anni si rende
conto che non è sufficiente fare accoglienza, ma è necessario simultaneamente
organizzare frammenti di politiche sociali, con la tipica funzione di sensore
dei bisogni e la capacità di stare nei processi, che significa imparare la
difficile arte del promuovere, la sola ad arrivare a prevenire le cause che
determinano le difficoltà. È quello che hanno voluto, saputo e potuto fare i non
appartenenti a istituzioni, diversamente dai Religiosi che a motivo di scadenze
canoniche si trovano all’interno delle esperienze nel ruolo di persone in
transito, mentre invece rimangono fissi gli operatori assunti per i quali non
raramente il cambio della leadership è un’opportunità per far spazio a linee di
indirizzo e di impegno a misura dell’interesse lavorativo.
Non interpella il fatto che attorno ai vari don Ciotti, don Benzi … ecc , con
mentalità non solo di servizio ma di politiche, si siano associati molti
“condividenti” per lo più volontari, mentre attorno al Religioso/a (ormai soli)
ci siano quasi esclusivamente “dipendenti” e rari volontari?
Nuove «diaconie» per nuove schiavitù
Ora, per i religiosi/e, una prospettiva di futuro possibile, sta nella scelta
di spostare le tende verso settori ove maggiore è la domanda di “condivisione”,
in particolare le povertà a cui nessuno risponde . Il Consiglio d’Europa in un
convegno internazionale ha indicato nei bisogni di relazione e di affettività le
grandi emergenti povertà dalle quali scaturiscono le altre.
È allora tempo di trasferire gli impegni da situazioni “di difesa” ad aree di
“frontiera”, emancipandosi dalla soggezione culturale agli odierni orientamenti
per poter reinterpretare la creatività della carità, espressa non solo negli
impegni lavorativi ma nell’assunzione di coerenti “stili di vita”: si tratta di
operare ma anche di interiorizzare e ricondurre ad unità alcune dimensioni del
nostro vivere. In questo c’è il Vangelo narrato con la vita, piuttosto che nei
“servizi” oggi inflazionati. Un recente censimento ISTAT riporta la cifra di
oltre 220 mila organizzazioni non profit in Italia.
In particolare, se un tempo gli istituti religiosi erano “scuole di
spiritualità”, ora devono diventare “scuole di mistica”, vale a dire una
spiritualità resa concreta e riscontrabile nelle scelte di vita, e nel contempo
luoghi, aperti ai laici, per rendere possibile la messa in comune di suggestioni
e di utopie evangeliche che possano dare un futuro e un “di più” di senso a ciò
che si fa e si è. La cultura dell’accoglienza, della condivisione, della
solidarietà, necessita di continue ri-motivazioni, nascendo da un rilevante
bisogno di ricerca di valori, significati della vita, senso della storia delle
persone, il tutto da ricercare nei faticosi percorsi della quotidianità
personale e collettiva, nell'interiorizzazione delle esperienze, nei necessari
equilibri tra il fare e l'essere. Senza questo – l’ attuale storia lo insegna -
tutto si brucia in fretta.
Nel recente passato le nostre speranze erano riposte nei «laici»; ora siamo
testimoni che il termine “laico” è inclusivo di possibilità o di fallimenti a
seconda di come si intende la parola laico e di quanto si è investito nella
formazione carismatica di essi. Fortunati coloro che hanno dei laici che
condividono il “cuore” del carisma, ma di questi quanti sono in grado o
disponibili ad accogliere la consegna delle nostre attività? «Il coinvolgimento
di laici interessati al carisma dell’Istituto – scrive p. Martinelli può essere
utile, ma difficilmente rappresenta una risposta di lunga durata. La via da
percorrere è quella di un’apertura intelligente a forme di collaborazione con
realtà nuove e vive, siano esse movimenti ecclesiali laicali o nuove forme di
vita consacrata». Queste espressioni fanno eco all’esortazione apostolica
Ripartire da Cristo: «dall’incontro e dalla comunione con i carismi antichi e
nuovi, può scaturire un reciproco arricchimento» . È tempo dunque di uscire
dagli “spazi chiusi” per aprirsi al mutualismo collaborativo. Al punto in cui si
è, l’incapacità di associarsi in funzione di un bene comune porta le attività
dei Religiosi/e a essere ad alto rischio.