Verso un progetto europeo dei dehoniani (Sacerdoti del Sacro Cuore di Gesù),
a partire più dai «segni» che dai numeri: potrebbe essere questa la sintesi di
un seminario di studio svoltosi a Clairefontaine (Belgio, al confine col
Lussemburgo, 18-20 ottobre 2011). Una cinquantina i presenti: superiore
generale, consiglieri, provinciali, responsabili territoriali e altri
confratelli. Il titolo: «conferenza europea sulla secolarità». Il lavoro si è
svolto a metà fra il confronto interno e l’ascolto delle relazioni e la loro
discussione, con cinque fuochi prevalenti: l’identità della secolarità, la
teologia del mondo, le domande che il contesto secolare rivolge alla chiesa, i
dehoniani e l’Europa, i religiosi e l’Europa.
Il teologo canadese Gilles Routhier ha affrontato il tema
secolarità-secolarizzazione a partire dall’affermazione di fede «credo nello
Spirito Santo nella chiesa cattolica», cioè dalla convinzione che la Chiesa è in
grado di abbracciare la totalità e vivere in tutte le culture. Sia nei lunghi
processi storici come nelle diverse temperie geografiche. Una apertura che
comprende la secolarità, e cioè l’autonomizzazione del potere politico e di
altre dimensioni collettive dal potere ecclesiale, come un’opportunità da vivere
piuttosto che come una perdita di cui elaborare il lutto. Il termine
«secolarizzazione» è tanto generico quanto paralizzante. Una conclusione già
raggiunta a suo tempo dal Consiglio delle Chiese in Europa. Esso segnala la
Chiesa come vittima, ma non come attrice, rendendo impossibile pensare insieme
modernità e cattolicesimo. Non si tratta di negare la dura opposizione storica
fra Chiesa e modernità e tantomeno di «inginocchiarsi davanti al mondo», ma di
capire che la secolarizzazione è l’esito di un processo in cui si è via via
persa la capacità di interloquire e di reagire agli eventi storici, se non
appunto nella forma vittimale. La secolarizzazione è un termine finale sbagliato
di un processo non gestito. «L’uso acritico del concetto di secolarizzazione
induce spesso in maniera troppo immediata una opposizione fra cristianesimo e
società moderna e ci dispensa dall’immaginare le condizioni della loro
coesistenza». I processi di secolarizzazione non sono legati né alla modernità,
né alla democrazia, né alla scienza, né alla tecnica. «Si è in presenza di un
processo secolarizzante quando una religione non è più capace di inventare un
nuovo rapporto con la cultura emergente». Essa è più la conseguenza di un limite
che un processo rigoroso di volontà emarginatrice. Si tratta quindi di
comprendere i fattori che possono allargare il fossato fra Chiesa e modernità o
viceversa rafforzare quelli che ne facilitano la comprensione e la
collaborazione. Il concilio ha rappresentato lo sforzo di dire in positivo le
relazioni piuttosto che di riaffermare e radicalizzare l’opposizione. Il compito
cristiano, oggi come sempre, è quello di abitare evangelicamente i mondi vitali
che ci sono dati. La missione non è un atto di conquista, ma un concetto
relazionale che, a partire dalla volontà salvifica di Dio, permette un dialogo
con ogni uomo e ogni cultura.
Ascoltare i linguaggi del tempo
È toccato a Matthias Selmann, della facoltà teologica di Bochum (Germania)
confermare l’opportunità di chiarire l’ambiguità dei processi di secolarità,
ricordando il saluto preoccupato dei colleghi al nuovo vescovo di Berlino come
se la capitale (e le città contemporanee) fossero per loro natura inospitali per
la fede. Come spiegare che la società statunitense sia così intrisa di
sensibilità e pratica cristiana? Come spiegare la connessione per nulla forzata
che in essa si realizza fra ricerca scientifica, pratica democratica, autonomia
dello stato, pluralismo religioso e vivacità delle fedi? Ma anche sulle sponde
europee non mancano elementi che non si adattano all’immagine di una
secolarizzazione inesorabile. Come comprendere la ricerca religiosa interna alla
biografie di ciascuno e così fortemente sottolineata nella comunicazione privata
e pubblica del continente europeo? Difficile credere oggi, dopo l’abiura dei
sociologi al concetto di secolarizzazione inesorabile, che la desertificazione
spirituale sia l’orizzonte inevitabile del nostro futuro. E del resto, se un
esponente fra i maggiori della negazione del ruolo pubblico della fede, come
Jürgen Habermas, è giunto a concludere che il linguaggio democratico non è in
grado di esprimere alcune fondamentali dimensioni se non attraverso l’uso di
quello religioso, è difficile concludere che fra Vangelo e secolarità il gioco
sia a somma zero.
Immaginare il contrarsi della Chiesa come perfettamente speculare all’estendersi
di una laicità compiuta e alternativa appartiene a uno schema utile per alcuni
spezzoni della storia moderna, ma fuorviante come modello generale. Del resto
conosciamo anche fenomeni di restrizione dello «spazio» cattolico, ad esempio in
Brasile con le sette protestanti o nell’America centrale con la riemersione
delle religioni antiche, che si dovrebbe connotare come secolarizzazione, ma non
ne ha per nulla le caratteristiche. Un presunto fantasma, come nel racconto del
cammino di Gesù sulle acque, può rivelarsi come una nuova opportunità
dell’incontro con Dio. Si può passare dalla paura alla fiducia. Soprattutto se
si dà forza teologica alla presenza del mondo, se si riprendo la teologia del
mondo, così come l’aveva avviata Karl Rahner.
Alla tendenza identitaria, oggi in crescita nel cattolicesimo, si dovrebbe
ovviare con il paradigma della donazione, con la riaffermazione di una fede che
non è solo attestazione, ma anche apprendimento. Il mondo non è solo il luogo di
esecuzione di principi dogmatici elaborati in precedenza, se la rivelazione di
Dio è spiegata nella Scrittura e nel concilio come un dialogo di Dio con gli
uomini. Il mondo e la storia sono uno spazio libero e dialogico che permettono
alla chiesa di capire meglio il suo messaggio. Il Nuovo Testamento è pieno di
episodi e richiami al fatto che nel dialogo la coscienza ecclesiale cresce e si
affina. I dogmi stessi sono la conclusione di un dialogo, non un monologo.
«L’esperienza dei secoli passati, i progressi delle scienze, i tesori nascosti
nelle varie forme di cultura umana, attraverso cui si svela più appieno la
natura stessa dell’uomo e si aprono nuove vie verso al verità, tutto ciò è di
vantaggio anche per la chiesa… Tale adattamento della predicazione della parola
rivelata deve rimanere legge di ogni evangelizzazione». Le parole di Gaudium et
spes (n. 44) tornano a illuminare la Chiesa come sacramento e segno di salvezza.
Le molte domande
L’invito della riflessione sui processi storici e sui terreni teologici approda
alla opportunità di meglio comprendere le domande e le esperienze di fede in
atto nel vissuto contemporaneo. Se ne è fatto carico Peter Martins Tomas,
giovane professore a Tubinga e direttore scientifico dell’accademia Sinos a
Berlino (la sede principale è a Mannheim).
La novità della lettura socio pastorale prodotta dall’accademia Sinos (il primo
lavoro è del 2005 e ha riguardato 18 paesi) è legata a una lettura dei dati non
per accorpamenti anagrafici o territoriali, ma per appartenenze a gruppi o
milieux caratterizzati da una sostanziale omogeneità di valori di riferimento e
di stili di vita. Considerando assieme la grande area che copre l’Europa
occidentale e i paesi del Nord America si ottiene un 22% di tradizionalisti,
spesso anziani a reddito basso, attaccati al lavoro e al dovere, vicini alle
chiese a cui chiedono capacità di guida e difesa dalla modernità. L’11%
appartiene invece al milieux dei ceti direttivi. Formazione alta e redditi di
rilievo, essi sentono la responsabilità della direzione economica e politica.
Considerano la Chiesa come importante dal punto di vista culturale e della
custodia delle tradizioni, ma estranea alle logiche stringenti del mondo.
L’ambiente intellettuale (10%) è caratterizzato da studi elevati e redditi
medio-alti, da stili cosmopoliti e sensibilità ambientali. Incrociano il tema
religioso a partire dalla domanda di senso e spesso si formano a uso personale
una mescolanza di fedi e riferimenti spirituali. Il papa e il Dalai Lama hanno
la medesima suggestione.
I «moderni-performativi» (10%) sono prevalentemente giovani che vivono da soli o
coi genitori, studenti o impiegati, con scarsa attenzione ai soldi, il cui
imperativo è vivere in modo intenso la propria vita, in attesa di un successo
professionale e un adeguato stile di vita. Incrociano pochissimo le comunità
cristiane territoriali, ma sono suggestionati da figure come i religiosi per la
loro radicalità.
Il gruppo centrale e principale dei «moderni-moderati» va oltre il 17%. Uomini,
donne e famiglie di formazione media costituiscono una buona fetta del ceto
medio. Hanno spesso un buon rapporto con le chiese a cui chiedono luoghi di
incontri familiari e formazione per i bambini, ma senza garantire una frequenza
sistematica.
I consumatori-materialistici (13%) sono coloro il cui significato è determinato
dal possesso delle cose. Di età e collocazione sociale diversa hanno di solito
redditi bassi e, se sono giovani, avvertono di essere destinati a una vita
marginale. Le domande che rivolgono alle chiese sono soprattutto quelle legate
agli aiuti e ai compiti di diaconia.
C’è infine un 16% di ricercatori di sensazioni, spesso giovani con bassa
formazione, lavori saltuari non qualificati. La loro sub-cultura è
anticonvenzionale e ribelle, fortemente critici con i tradizionalisti e il ceto
medio. La Chiesa ha poco a che vedere con la loro vita. Ad essa si possono
chiedere servizi e possono anche mostrare riconoscenza e fedeltà.
Non senza l’Europa
Il confronto interno dei sei gruppi linguistici e la testimonianze dirette di
altrettante attività ministeriali o personali (dall’opera editoriale alla
formazione universitaria, dalla scelta dei preti operai alla pastorale
giovanile, dall’attività in aree di diaspora e forte secolarizzazione fino a
racconti personali di inculturazione in diversi ambiti nazionali) hanno
elaborato le suggestioni teoriche alla pratica della vita religiosa dehoniana
nei vari paesi dell’Europa occidentale e orientale. Il padre generale, José
Ornelas Carvalho, ha ricordato ai presenti la grande migrazione in atto
dall’Europa al sud del mondo per quanto riguarda le vocazioni, gli studenti e i
religiosi più giovani e come questa generale tendenza incrocia le domande
pastorali delle chiese del continente europeo. Uno spostamento a sud che però
non può avvenire semplicemente sostituendo il centro propulsore dell’Europa con
quello di altri continenti. Se la presenza in Europa dovesse scomparire non ci
sarebbe futuro per nessuno e senza una azione comune nel contenente
l’interrogativo sul futuro diventerebbe drammatico. Ciò impone rinnovata
attenzione sia alla collaborazione reciproca fra province ed entità dehoniane in
Europa, sia alla ricerca di iniziative comuni (comunità o in attività
specifiche), sia nella ricerca di una nuova governace che, senza piegare al
centralismo, permetta di costruire un cammino condiviso. Una strada, come ha
ricordato il consigliere generale John Van Den Hengel, già percorsa da un
duplice incontro nel 2010 dell’Unione superiori generali e da sperimentazioni di
molti altri ordini e congregazioni, fra cui i verbiti, i gesuiti, i francescani,
i cappuccini e soprattutto il salesiani che hanno formalizzato un progetto
Europa dal 2008. È l’intera Chiesa che, nel sinodo sull’Europa e nel progettato
sinodo sulla nuova evangelizzazione sta portando uno sguardo di attenzione al
vecchio continente.