«La crisi globale del cibo e dell’acqua è arrivata alla capanna di Safia: lei
non può più comperare farina, riso, fagioli, latte in polvere. I prezzi sono
cresciuti enormemente. La terra dei campi per piccole o grandi coltivazioni è
spaccata, arida, polverosa. Safia non riesce più a trovare un po’ d’acqua da
bere o per cucinare. La siccità ha devastato il gregge delle sue capre, ha
scomposto quello delle pecore dei suoi vicini, ha distrutto la forza delle
mandrie di mucche e cammelli delle tribù limitrofe. È il caos». Chi parla è
padre Franco Cellana, superiore dei missionari della Consolata in Kenya. Si
riferisce alla grave crisi alimentare che sta colpendo intere regioni
dell’Africa dell’Est.
Safia è un emblema di quello che sta succedendo a oltre 12 milioni e mezzo di
persone in cinque paesi: Kenya (3,7 milioni), Etiopia (4,8), Somalia (3,7) e
Gibuti (165.000). Ma anche in Eritrea, sebbene il regime dittatoriale di
Afeworki continui a negare. Una crisi epocale, che le Nazioni Unite hanno
classificato in alcune regioni del centro Sud della Somalia con un nome tragico:
carestia. La memoria storica riporta indietro agli anni 1984-85 quando una crisi
analoga colpì Etiopia e Sud Sudan, causando la morte «per fame» di centinaia di
migliaia di persone. E poi successivamente alla fine degli anni ’90.
I dati dell’Unicef (agenzia delle Nazioni Unite per l’infanzia) parlano di 1,85
milioni di bambini coinvolti di cui 780.000 sono malnutriti e la metà soffre di
«malnutrizione acuta». Ovvero fame.
«Nella Somalia che è la più colpita, i vecchi cercano di combattere la fame con
un liquido masticato da un ramo spinoso chiamato jerrin mentre anche i loro
bambini vagano per la savana in cerca di arbusti liquorosi per vincere gli
stimoli della fame», continua padre Cellana.
Ma oggi esistono i «sistemi di allerta precoce», ovvero complessi algoritmi che
sintetizzano dati climatici (piogge), prezzi del cibo, produzione agricola e
hanno il compito di mettere in preallarme governi, organizzazioni internazionali
e agenzie umanitarie. Avvisaglie di una possibile crisi erano infatti già state
segnalate a ottobre 2010. In seguito, una cattiva stagione delle piogge ad
aprile 2011 ha contribuito al disastro. Le Nazioni Unite parlano di una siccità
tra le più acute degli ultimi decenni.
Così in primavera è iniziato l’esodo di popolazioni dalle zone più colpite,
ovvero dal centro e sud della Somalia. La gente abbandona i propri villaggi alla
ricerca di cibo e acqua. Fuga verso Mogadiscio, la capitale della Somalia, dove
è più facile accedere agli aiuti umanitari e fuga verso i campi profughi nel sud
est dell’Etiopia e nord est del Kenya. L’Alto Commissariato per i rifugiati (Unhcr)
stima un afflusso di 1.500 persone al giorno nei tre campi di Dadaab (Kenya),
che ha portato la popolazione dai 90.000 previsti dalle strutture agli oltre
440.000 facendone il complesso di rifugiati più grande del pianeta.
Il tutto nell’indifferenza totale del mondo. Fino a quando Papa Benedetto XVI ha
lanciato un appello per le popolazioni colpite, all’Angelus di domenica 17
luglio. Anche le Nazioni Unite si sono mosse, decretando, tre giorni dopo, lo
stato di carestia. Finalmente la crisi ha guadagnato le prime pagine dei
maggiori quotidiani del mondo e la Fao ha convocato una riunione straordinaria
il 25 luglio, che si è conclusa con una richiesta di fondi per rispondere
all’«emergenza umanitaria».
Alla ricerca delle vere cause
Ma le cause della fame non sono solo climatiche.
Innanzitutto in Somalia, dopo la crisi politica del 1991 e la caduta del regime
di Mohamed Siad Barre, non c’è più stato un governo stabile, che avesse il
controllo dell’intero territorio nazionale. Il paese è caduto prima nelle mani
dei “signori della guerra”, poi delle “corti islamiche”, infine di Al Shabaab,
una costellazione di gruppi estremisti legati ad Al Qaeda. A questi si oppone il
governo federale di transizione (Tfg), con sede a Mogadiscio, appoggiato dalla
Comunità internazionale e da una missione dei peacekeeping dell’Unione Africana,
Amisom (composta da circa 9.000 militari ugandesi e burundesi).
La guerra civile, che in Somalia va avanti da 20 anni, e l’assenza di uno stato
hanno negato qualsiasi possibilità di politiche agricole e di protezioni contro
eventi climatici catastrofici, come la siccità.
In secondo luogo la crisi globale dei prezzi alimentari ha colpito ancora più
duramente nel Corno d’Africa, dove la produzione agricola resta dipendente dai
fenomeni atmosferici. I prezzi del cibo sui mercati locali sono aumentati
notevolmente e la gente non è più in grado di comprare la farina e gli altri
alimenti di base.
Marco Bertotto, direttore di Agire (consorzio di undici Ong italiane attive sul
fronte delle emergenze umanitarie) è critico su come questa crisi è stata
raccontata dai media: «L’immagine che è passata è stata di una ennesima crisi in
Africa, con i bambini che muoiono di fame e per la quale non si può fare nulla.
Senza raccontare la serie di fattori che hanno portato a questo che non è un
disastro naturale».
La situazione ha infatti origini molto più complesse: «La crisi ha una
componente naturale legata ai cambiamenti climatici, ovvero aspetti dipendenti
dai cicli delle piogge, poi ci sono i problemi di restrizione della mobilità
delle persone a causa della guerra, di anni di politiche agricole sbagliate e
sfruttamento scorretto del territorio. Ad esempio, l’assenza di investimenti in
campo agricolo o investimenti mal gestiti, favorendo le monoculture estensive
con finalità di esportazione piuttosto che appoggiando le comunità locali». E
conclude: «L’emergenza in Africa orientale è stata provocata dall’uomo e non è
ineluttabile».
La risposta del mondo
La macchina umanitaria si è quindi messa in moto a luglio.
Le Nazioni Unite hanno chiesto circa 2,4 miliardi di dollari per fronteggiare la
crisi. Bertotto fa i conti: «Finora solo il 58% è stato promesso, neanche
stanziato. Poi manca oltre un miliardo. C’è quindi un problema di inadeguatezza
delle risorse per far fronte a questa emergenza.
Nel corso del mese di agosto c’è stato un aumento della capacità di risposta
delle agenzie umanitarie, dovuto al fatto che alcune cose si sono mosse, i soldi
sono iniziati ad arrivare e in parte è aumentato l’accesso in Somalia. Questo ha
permesso non tanto di migliorare la situazione ma di impedirne il peggioramento,
perché sul terreno la situazione è critica».
Secondo Bertotto il «picco» della crisi dovrebbe ancora arrivare, in quanto la
carestia si sta estendendo ad altre zone.
«Il contesto di intervento delle agenzie umanitarie è molto difficile,
soprattutto in Somalia. Ci sono fasce di popolazione che non hanno ricevuto gli
aiuti e che realisticamente non li riceveranno mai, perché ci sono zone dove è
impossibile arrivare a causa della guerra. Anche le Ong italiane, pur avendo
costruito negli anni un rapporto con operatori locali che consente loro una
buona presenza, hanno difficoltà». La sicurezza, a causa della guerra, è
limitata, mentre in alcuni casi, soprattutto all’inizio della crisi, gli Al
Shabaab hanno impedito l’intervento delle agenzie umanitarie, accusandole di
strumentalizzare la carestia.
«Nei gruppi Al Shabaab si trovano insieme elementi ideologizzati da correnti
islamiche estremiste e fazioni di origine clanica insoddisfatti della situazione
attuale» dice monsignor Giorgio Bertin, vescovo di Gibuti e amministratore
apostolico della Somalia. «Sì, è vero, aggiunge, che hanno posto ostacoli a
diverse agenzie umanitarie e dell'Onu, però hanno anche lasciato che
organizzazioni come il Cicr (Comitato internazionale della croce rossa, ndr) e
altre, soprattutto di origine musulmana, agissero nei territori da loro
controllati».
Parlando di cosa succede sul terreno, precisa: «La situazione nel centro Sud
Somalia rimane molto grave a causa dell'insicurezza e della siccità che ha
provocato la carestia. Coloro che possono continuano a cercare di sopravvivere
rifugiandosi in Kenya o nel Sud Ovest dell'Etiopia, ma anche in altre zone del
cosiddetto Ogaden (Etiopia dell’Est, ndr). Almeno centomila sono arrivati nella
zona di Mogadiscio in quanto accessibile al mare e ora quasi tutta sotto
controllo del governo di transizione».
Anche la Caritas Italiana sta intervenendo per portare soccorsi, e ha messo a
disposizione 700 mila euro attraverso le Caritas nazionali. Continua mons.
Bertin: «La Caritas agisce nei campi di rifugiati del Kenya e dell’Etiopia. In
Somalia interviene per interposta persona, ma non posso precisare né dove né
come per ragioni di sicurezza dei nostri partner locali».
«La situazione sta peggiorando perché ci si rende sempre più conto
dell’estendersi del territorio colpito dalla siccità – racconta Paolo Beccegato,
responsabile dell’area internazionale di Caritas Italiana. Va sottolineato
peraltro che l’insicurezza rende ancora più precaria la situazione della
popolazione, invogliandola ad andare a rifugiarsi da qualche parte. Ciò
nonostante, piccoli interventi in varie località sono ancora possibili, grazie a
organizzazioni locali che godono la fiducia della Caritas Somalia, che Caritas
Italiana sostiene. Non solo, ma ci sono concrete possibilità che questi
interventi aumentino, limitando così l’esodo della gente».
La tattica di Al Shabaab
Gli Al Shabaab con una mossa unilaterale si erano ritirati da Mogadiscio il 6
agosto scorso. Ma questa, celebrata come una vittoria dal Tfg, non è altro che
una mossa tattica. E gli scontri sono continuati, tant’è che a inizio settembre
un conflitto a fuoco tra governativi, Amisom e non precisate “milizie armate” ha
causato 15 morti e oltre 20 feriti gravi. Sul campo è caduto anche un cameraman
malese, Noramfaizul Mohd Nor. Questo ha causato il ritiro di tutti i 54
operatori umanitari della Malesia.
La diplomazia arranca e domenica 4 settembre, sempre a Mogadiscio, è iniziata la
conferenza consultativa, sotto l’egida delle Nazioni Unite, per definire il
futuro del governo transitorio. Oltre al Tfg, si sono riuniti per tre giorni i
responsabili della regione auto proclamata autonoma dello Puntland e di altri
territori semi autonomi. È stato pure firmato un documento politico che dovrebbe
portare a una nuova Costituzione e ad elezioni nell’agosto 2012. Ma né il
Somaliland (Nord della Somalia) auto proclamatosi indipendente nel 1991, né gli
Al Shabaab sono rappresentati. Difficile, in questo modo, trovare soluzioni
condivise da tutti.
Intanto le Nazioni Unite allargano sempre più la zona somala definita sotto
“carestia”, che sul campo significa un aumento delle persone soggette a rischio
di morte per fame e pandemie. Colera, morbillo, malaria si diffondono quando il
fisico è debole perché sotto alimentato.
A migliaia, intere famiglie anche con bimbi piccoli, tentano il viaggio della
disperazione per raggiungere i campi profughi, già affollati da centinaia di
migliaia di persone. Dichiarando anche la zona di Bay (sotto controllo degli Al
Shabaab) in stato di carestia, sono ormai 6 le regioni somale più colpite e
altre 750 mila persone sono a rischio.
«Tutti gli anni, ciclicamente – sostiene Marilena Bertini, presidente dell’Ong
Comitato di collaborazione medica (Ccm), da tempo impegnata nell’area - si
registrano situazioni drammatiche per la salute e la sopravvivenza delle persone
legate ai conflitti in atto, alla povertà e alle condizioni climatiche che
stanno peggiorando. I bisogni d’intervento sono strutturali e richiedono azioni
di lungo periodo. Da sempre il Ccm è a fianco di queste popolazioni e anche in
questo momento particolarmente drammatico vogliamo farci portavoce
dell’ingiustizia che vivono». Ancora una volta, chi conosce bene la zona, è
cosciente che la siccità ha solo fatto precipitare una situazione mantenuta al
limite a causa di decenni di interventi e politiche “umane” errate.
Monsignor Bertin sintetizza così le sfide di oggi e di domani: «Le prospettive
immediate sono quelle di salvare le vite. Per il futuro bisognerà lavorare di
più per la pace e la ricostruzione dello stato».