Che cosa succede oggi alla vita religiosa? A quali minacce è esposta sia dal
punto di vista dell’istituzione che da quello delle persone?
Porre queste domande non vuol dire che la vita religiosa consacrata sia giunta
allo stato terminale. Ma come non riconoscere la disillusione stampata nella
vita di tanti/e religiosi/e. Qual è l’origine di così grande malessere? Quali le
cause?
Il futuro della vita religiosa consacrata potrà costruirsi solo a partire dal
presente, ma da un presente convertito al Vangelo, con la responsabilità che
richiede da noi la sequela di Gesù. Le seguenti riflessioni vogliono essere un
contributo per un tale discernimento.
Anzitutto tre presupposti
Può essere utile, per la tranquillità di tutti, presentare in maniera chiara e
sintetica tre presupposti o convinzioni che animano e sostengono questo
tentativo di interpretare il momento attuale della vita religiosa consacrata. Si
tratta di convinzioni fondamentali che illuminano la mia ricerca e che desidero
condividere con un gran numero di religiosi – uomini e donne – che, nonostante
tante difficoltà, non cessano di credere che la vita religiosa consacrata ha un
futuro.
Il primo presupposto – che è anche una convinzione – è semplice: la vita
religiosa consacrata è nata dal Vangelo, dalla scoperta appassionata della
persona di Gesù e dall’adesione della sua forma di vita. Possiamo dire perciò
che fintanto che ci sono uomini e donne “folli per Cristo”, appassionati per
questo modo di essere di Gesù, non cesseranno di esserci espressioni di questa
esperienza nelle “forme di vita religiosa consacrata”. È una convinzione
fondamentale in questo momento storico in cui la vita religiosa è interpellata
nella sua qualità evangelica di vita.
Il secondo presupposto è una costatazione storica. Sono state molte e
diversificate le forme in cui ha preso corpo la vita religiosa consacrata nel
corso della storia. Questa testimonia che alcuni gruppi e forme di vita sono
scomparsi dopo un certo tempo di esistenza. Pertanto nessuna forma storica
particolare di vita religiosa consacrata può avere la garanzia della sua
perennità. Senza che ciò abbia significato né significhi oggi la fine della vita
religiosa consacrata. È una costatazione che dovrebbe darci la pace e la libertà
necessaria in questo momento per rispondere agli appelli del Signore.
Il terzo presupposto è una diagnosi: la vita religiosa consacrata soffre oggi di
una innegabile “anemia evangelica”: personale e istituzionale. Questa diagnosi
non è un giudizio di valore sulle persone, è una costatazione di una situazione
oggettiva, letta a partire da certi sintomi. Questa potrebbe essere una delle
ragioni della mancanza di significato della vita religiosa apostolica nella
cultura moderna e della sua irrilevanza sociale. È una delle spiegazioni
possibili della diminuzione delle vocazioni. Per superare questa anemia, bisogna
recuperare la passione per la persona di Cristo, il primo amore che deve
risplendere in tutta la vita religiosa consacrata. È la condizione
indispensabile per un futuro significativo.
Il confronto con il post-moderno
La vita religiosa consacrata nel corso degli ultimi decenni è passata attraverso
varie fasi che è opportuno ricordare, almeno sinteticamente, per renderci conto
del punto in cui oggi ci troviamo e delle sfide che ci attendono, in vista di un
oculato discernimento.
Abbiamo assistito alla fine del “modello tradizionale” e ciò ha significato per
la vita religiosa l’inizio di un processo di ri-significazione dell’identità e
della missione e di confronto con il mondo moderno.
Come è avvenuto per lo stesso Vaticano II, la vita religiosa consacrata è stata
sorpresa nel suo cammino nel tempo da un profondo e inatteso cambiamento
culturale che ha voluto dire cambiamento di interlocutore: il passaggio cioè dal
soggetto moderno al post-moderno. Questa cambiamento non è stato solo il
risultato dell’emergere delle “nuove generazioni” nella vita consacrata, ma
dell’impatto della mentalità post-moderna nella società e nella cultura. E
quindi nella vita consacrata.
Non è necessario fare un’analisi di questa situazione culturale per capire come
incidano nella vita religiosa i tratti caratteristici di questa cultura. Essere
o non essere moderni o post-moderni non una questione di scelta, è un modo di
essere che la cultura e la società ci impongono. Il problema è di sapere come
comportarsi con questo “imperativo culturale”: fino a che punto lo sottoponiamo
al vaglio del Vangelo?
Ci sono non pochi indizi di quanto la frammentazione del soggetto post-moderrno
incida fortemente sulla crisi di identità della vita religiosa apostolica e
contribuisca alla disintegrazione dell’unità perduta tra esperienza spirituale,
stile di vita e invio in missione. Non solo per l’affermazione incondizionata
dell’individuo, ogni volta sempre più isolato nell’individualismo, ma per la
costante e accelerata trasformazione delle mentalità e dei valori.
È possibile essere seguaci di Gesù senza sottoporre questi cambiamenti a un
costante discernimento? Come verificarli in modo evangelico? Il problema non
riguarda solo i più giovani. Il contagio culturale delle mentalità non fa
distinzione tra le persone e nemmeno tra le età.
È visibile la frammentazione dell’esperienza spirituale, della convivenza
fraterna e della missione apostolica. Ciò che emerge è l’assenza di una base
omogenea e coerente e di un linguaggio comune che esprima l’unità del vissuto.
Continuiamo a usare lo stesso linguaggio senza accorgerci che ha un significato
diverso. Parliamo di carisma come se fosse possibile trovarlo in qualche luogo
mitico, privilegiato, al margine dell’unità indissolubile tra esperienza fontale
di Dio, invio in missione e vita condivisa.
Non ci rendiamo conto di quanto la prolungata “riduzione monastica” abbia
inferto alla vita religiosa apostolica un colpo mortale da cui non si è ancora
ripresa: la disarticolazione dell’unità dell’esperienza e la frammentazione di
ciascuno di questi elementi.
Dove si troverebbe il significato profondo della vita religiosa se non nella
qualità della vita fraterna e nello stile di vita in missione?... Se la missione
non rende visibile e non esprime in modo significativo ciò che siamo, la nostra
vita e ciò che facciamo sono senza significato. O siamo missione viva o non lo
siamo; anche se ci consumiamo nel lavoro.
È vano sognare un ritorno al passato
Due racconti di Luca – Emmaus (Lc 24,13-35) e la pesca miracolosa (Lc 5,1-11) –
possono essere letti come “parabola” di questo momento storico. Come quei due
discepoli, la vita religiosa si trova nel cammino di “una notte oscura”. Attorno
ad essa non c’è niente che favorisca uno sguardo di speranza. Il presente è
abitato da “tutte le cose che sono accadute” così “forti” così “evidenti” che
uccidono la speranza e la capacità di leggere i segni che esistono. Ciò che si
impone è il vuoto dell’assenza. Dopo una lunga notte di fatica senza i risultati
sperati (Lc 5.5), la vita religiosa ha bisogno di ascoltare dal Signore questo
“ordine” tassativo: “Prendi il largo!” (cf. 5,4). Inoltrarsi nel mare profondo,
finché si profili davanti un orizzonte insperato. La soluzione non sta nel
tornare al passato e nemmeno nell’allontanarsi dal Signore, come Pietro ( cf.
5,8), ma nel tornare a gettare le reti “nel tuo nome”, “sulla tua parola” (cf.
5,5), fino ad ascoltare la chiamata che proietta verso il futuro di Dio: “Io
farò di voi dei pescatori di uomini” (cf. 5,19).
Emmaus è la tentazione del passato, ma questo passato non esiste più. Le
incertezze del momento storico sono state incorporate nella nostra vita senza
rimedio, ci abitano. L’unica via di uscita è di verificarle alla luce del
Vangelo. È la funzione del “lavoro terapeutico” messo in atto da Gesù con i suoi
discepoli lungo il cammino verso Emmaus. Anche noi dobbiamo formulare ed
elaborare ciò che ci rattrista, finché i nostri cuori si riscaldino, gli occhi
si aprano e la speranza ritorni.
Credere nel futuro della vita religiosa è aver fiducia nella fedeltà più grande
di Dio che abita e rende possibile la traversata di questo momento storico.
Appoggiati sulla parola del Signore, bisogna “inoltrarsi nelle acque profonde”.
È un tragitto che ci porta dall’identità sospesa all’identificazione della
chiamata; e dalla disarticolazione della missione al recupero della unità
necessaria tra “essere” ed “essere per gli altri” nell’esperienza unica di
“essere con Gesù”.
Recuperare l’esperienza della vocazione, di “essere chiamati”: è la prima
condizione perché la vita religiosa possa rivivere. A prima vista sembra ovvio,
ma è qualcosa che non può essere dato per scontato. Senza “vocazione” non ci può
essere “vita”.
“Nessuno attribuisce a se stesso questo onore” scrive la lettera agli ebrei (5,4
ss.) parlando del sacerdozio di Cristo, “se non chi è chiamato da Dio, come
Aronne”.
Discernere la vocazione: è il primo lavoro da fare per ricostruire la vita
religiosa apostolica. È un problema che è in relazione con quello delle
vocazioni che tanto ci preoccupa.
È urgente discernere con maggior cura la vocazione di coloro che desiderano
entrare, ma con non minor cura è necessario discernere la qualità della
vocazione di coloro che già vi fanno parte (“come stiamo” nella vita religiosa?
come spiegare tante “uscite”?).
La qualità della vita nella vita religiosa è un problema di vocazione (come
stiamo e viviamo?). Vocazione intesa come opzione di vita non solamente come
questione di gusti, di inclinazione, qualità, ecc. nella decisione iniziale.
Sappiamo che ogni opzione di vita implica dei rischi. “Perché non si sa mai”,
diceva Guimarães Rosa. Per questo, una vocazione consistente esige un fondamento
solido, ha bisogno di una “mistica” che la sostenga.
È urgente perciò recuperare la “mistica della vocazione” così come si trova nei
racconti del Vangelo. L’apparente “ingenuità” di questi racconti, stilizzati al
massimo, non nasconde la loro densità antropologica: Gesù passa, vede, chiama e
suscita la risposta a seguirlo.
La vocazione appare come un “avvenimento” che sopravviene nella vita di una
persona, incontrando uno che le rivolge una chiamata. Avvenimento sorprendente,
insperato e per questo gratuito.
La chiamata viene da fuori, da un “altro”, da qualcuno che interpella e in
questo modo modifica la vita della persona. Si tratta di ciò che i Vangeli
descrivono come “incontro” con Gesù di Nazaret.
La risposta può essere solo personale e libera, nessuno può rispondere al posto
di un altro: la chiamata è categorica, imperativa (“seguimi!”). E indica la
radicalità antropologica della sequela: tutto o niente. Ciò che è in gioco è la
totalità della vita della persona. Ma è possibile che uno rischi in questo modo
la sua libertà umana?
La “grazia” della vocazione è presente nell’atto stesso di essere aperti/e ad
accogliere e “ascoltare” la chiamata. Questa grazia suscita la libertà di
rispondere e rende possibile una risposta libera. La radicalità antropologica,
tuttavia, non si esaurisce nell’atto di rispondere: deve essere “messa in
pratica” nel corso della vita e in tutte le dimensioni.
Questo è il significato dell’evangelico “rinnegare se stesso” che non ha niente
a che vedere con la repressione o la negazione dell’umano (dis-umanizzarsi), ma
è la rinuncia a fare del proprio “io” il centro, la norma e lo scopo della
propria vita.
Prima di tutto, è necessario “rinunciare a se stessi”, abdicare alla pretesa del
dominio sulla propria vita. Ciò è possibile solo “per causa mia e del Vangelo”
(Mc 8,35), ossia nella misura in cui Gesù entra e prende possesso senza ritorno
della nostra vita. E così la realizza. Relazione personale in cui la forma di
vita di Gesù esercita una vera seduzione sulla persona, che diventa capace di
rispondere in tutta libertà.
È ciò che qui significa “recuperare la vocazione”. Paradossalmente, questo
“perdersi per trovarsi” è la condizione per poter essere “inviati” come
testimoni del Signore.
Servire è possibile soltanto in un atteggiamento disarmato, quando non si ha
niente da prendere con sé. È la “mistica della vocazione”. Senza di essa la vita
religiosa diventerà, presto o tardi, un peso insopportabile.
Inconsciamente la risposta si sposterà dalla “vita religiosa come opzione di
vita”, liberamente assunta, a una vita religiosa percepita come un peso. Cosa
che colpisce non solo la persona, ma anche il corpo.
Ma, “avere vocazione” oggi non è qualcosa di evidente. Meno ancora in una
cultura in cui è messo al primo posto il “successo professionale”, l’ossessione
della realizzazione. È una cultura di “professioni”, non di “vocazioni”.
La cultura moderna privilegia, da una parte, la logica della ragione strumentale
(la tecnologia richiede professionisti altamente qualificati) e, dall’altra,
l’affermazione dell’individuo (io!) come soggetto definitivo della propria
autorealizzazione. Professione è sinonimo di lavoro, denaro, livello di vita e
autorealizzazione.
Non c’è posto, in questa prospettiva, per un’esperienza di “vocazione ricevuta”,
che qualifichi l’ “io” del soggetto al di là del professionale e che dia
significato alla sua vita.
Si perde il senso della vocazione perché si è perso il significato del mettere
la propria vita a servizio degli altri. Per questo mancano “vocazioni” in tutti
gli ambiti della vita umana e sociale.
Si possono avere degli eccellenti professionisti in medicina senza la
“vocazione” a essere medici, così come è possibile fare delle cose buone nella
vita religiosa senza avere la “vocazione” a vivere questa opzione.
La vocazione come opzione di vita – vita posta al servizio degli altri – suppone
una esperienza di esodo da se stessi, un uscire dall’ “io chiuso in se stesso”
per riceversi come “io pro-vocato” da Dio. È necessario essere passati
attraverso l’esperienza di questa perdita di sé per scoprire la gioia di
realizzarsi “perdendosi”, di conservare la vita donandola. È il paradosso del
Vangelo.
Come opzione di vita, la vocazione non può essere relegata al passato (al
momento dell’ingresso nella vita religiosa). Perciò il problema di “vivere la
vocazione o con vocazione” è più preoccupante di quello delle “vocazioni”
(quanti siamo?). Perché è in gioco la qualità di chi siamo: ciò che si vive è
più importante del numero delle persone che entrano nella vita religiosa. È
possibile trasmettere con la nostra vita (qualità di vita) l’esperienza di ciò
che ci abita e dà significato?
Un approccio del genere può sembrare a prima vista insolito, ma è fondamentale.
Il problema delle vocazioni alla vita religiosa non è solo una questione di
numero. È una questione di identità, inseparabile dalla qualità della vita. Ecco
perché è necessario discernere non solo la vocazione di coloro che stanno per
entrare, ma anche di quelli che già vi fanno parte.
a) Il fondamento della vita religiosa apostolica: come ogni vocazione cristiana,
la vita religiosa trova il suo fondamento nel Vangelo. Non c’è in questo nessuna
pretesa di fare nostri in maniera esclusiva i racconti evangelici di vocazione.
Si potrebbe riferirsi ugualmente all’elaborazione paolina della vocazione come
conversione, passaggio, dalla “schiavitù” alla “libertà di figli”; o ad altri
testi evangelici.
Una cosa è certa, l’ esperienza fondante della vocazione alla vita religiosa è
la chiamata a seguire la forma di vita concreta di Gesù. In lui scopriamo una
esperienza di Dio fatto carne – con grida e lacrime – nelle lotte della vita
quotidiana: imparò ad essere Figlio da ciò che patì. (cf. Eb 5,8).
All’opposto dell’autocentramento del soggetto moderno, Gesù ha vissuto
doppiamente “de-centrato”: rivolto al Padre e dedito agli altri. Questa è
l’esperienza che voleva trasmettere a coloro che chiamò a “stare con lui”.
Il racconto paradigmatico di Mc 3,13-15 dice in maniera sintetica e plastica:
chiamò quelli che voleva, ed essi andarono da lui; ne scelse Dodici perché
“stessero con lui” e per “mandarli a predicare” il Vangelo.
Il trittico “chiamò quelli che volle, per stare con lui e inviarli” indica
chiaramente qual è il nucleo specifico della vita religiosa apostolica, la sua
esperienza fondante, la “mistica” senza la quale essa si disintegra e perde il
sapore. “Stare con gli altri” (vita fraterna) per “essere inviati con altri”
(missione) fa pare dell’identità (essere, stando con Gesù) di questo tipo di
vita religiosa. La radice di questa esperienza è la chiamata di Gesù.
Una chiamata del genere deve configurare la vita della persona in tutte le sue
dimensioni. La con-vivenza è il risultato dello “stare con Gesù”. Siamo amici
nel Signore perché siamo amici del Signore. E, nello stesso tempo, qualifica la
missione: siamo inviati non come individui isolati, ma come “corpo apostolico”.
Questa forma di vita è un dono (carisma) per la Chiesa e può diventare un invito
ad altri a viverla. Ma la sua forza risiede nell’unità indissolubile di questi
tre elementi.
Recuperare il primato della vocazione vuol dire esperimentare nel concreto della
vita che la chiamata di Dio mi precede e mi pro-voca, qualificando ogni giorno
il mio “io”. Questa precedenza di significato è fondamento alla vita e alla
missione. Un’esperienza di Dio che ci disloca incessantemente, facendosi uscire
da noi stessi per gli altri. L’esperienza di continuare a essere sedotti da Gesù
e dalla sua vita conferisce attualità alla vocazione e ci fa uscire dal
deperimento e dall’anemia spirituale.
b) Discernere la vocazione di coloro che vi fanno già parte. La vocazione è
necessaria per “entrare” nella vita religiosa ma anche per “rimanervi”. Bisogna
sentirsi chiamati per scegliere questo stile evangelico di vita. Non bastano le
qualità umane e spirituali. Da sole non sono un criterio né un “segno” di
vocazione. Bisogna essere stati “conquistati” da Gesù (cf. Fil 3,12), sentirsi
chiamati a vivere la sua “forma di vita” e farne il significato della propria
esistenza. Questa è la prima e fondamentale “missione” nella vita religiosa.
Orbene, della “forma di vita” di Gesù fanno parte costitutiva:
– a) la relazione fontale con il Padre,
– b) la con-vivenza con coloro che egli con-voca (vivere “con Gesù” crea
comunione e comunità),
– c) una vita messa al servizio degli altri. Questi tre aspetti vissuti in una
sintesi originale costituiscono la caratteristica della vita consacrata
apostolica. La “mistica della vocazione” riposa su questa unità tra “essere” ed
“essere inviato in missione”.
Pertanto, chiedersi “come stiamo/rimaniamo” nella vita religiosa è decisivo per
recuperare ad essa la qualità. In caso contrario, in breve tempo, la permanenza
diventa un peso morto che infetta il corpo della vita religiosa e lo debilita.
Si tratta dell’ “anemia spirituale”. Per questo è necessario discernere la
“vocazione di coloro che già vi appartengono”.
Fino a che punto la “vocazione definisce la permanenza e il modo di essere e di
vivere nella vita religiosa? La risposta non è evidente. In molti casi, la
vocazione sembra essere “una cosa del passato”, non conserva la forza
dell’aoristo continuativo: ossia una chiamata che continua ad avere risonanza
nel presente. Come se, una volta compiuto il passo iniziale, effettuata la prima
consegna, fosse poi solo questione di “vivacchiare”.
Pertanto è decisivo recuperare la forza della vocazione per ricostruire l’unità
perduta della vita apostolica. Solo a partire dall’esperienza di “essere
chiamato sarà possibile ricreare la sintesi tra esperienza di Dio, condivisione
di vita con altri e invio in missione, che è ciò che costituisce la “mistica
ispiratrice” di questa forma peculiare di vita che è la vita religiosa
apostolica.
c) Nello stesso tempo, si impone un imperativo: avere maggiore chiarezza e
rigore nel discernimento delle vocazioni alla vita religiosa. Non come
atteggiamento elitario, ma per una questione di coerenza con l’ecclesiologia
della Lumen gentium e la sua teologia delle vocazioni. Ognuna delle vocazioni
nella Chiesa ha una sua funzione nella comunità e deve essere valorizzata per la
differenza che rappresenta. Perciò è necessario discernere la chiamata di Dio in
ciascun caso. Non esiste una vocazione “superiore”. La “migliore” vocazione è
quella che Dio dà a ciascuno di scegliere, non quella che la persona sceglie in
modo arbitrario.
La vita religiosa è una delle vocazioni possibili nella Chiesa. Non è né
migliore né peggiore delle altre. Perciò è decisivo avere la certezza che Dio
chiama uno per questo tipo di vita. Non pare che sia questo l’atteggiamento
dominante nell’ammissione dei candidati/e. Bisogna avere dei criteri ben chiari
e definiti. Non basta avere inclinazione, gusto, qualità ecc. Niente di questo è
indizio di vocazione, di chiamata di Dio. Dal punto di vista umano, è
indispensabile la maturità per fare un’opzione di vita. Le qualità hanno il loro
posto, soprattutto per il profilo che caratterizza ciascun tipo di vocazione, ma
è decisivo scoprire i segni di una vera chiamata.
Si ha, tuttavia, l’impressione che l’ossessione del numero continui a
condizionare i nostri discernimenti. Gli itinerari vocazionali di molti
candidati sono sorprendenti: manifestano delle ricerche aleatorie, in funzione
della persona, più che essere un discernimento di una vocazione divina. Sia
nella vita religiosa maschile che in quella femminile.
Con la più grande naturalezza, lo stesso candidato passa attraverso diverse
comunità religiose: dopo una permanenza in un ordine monastico, bussa alla porta
di una congregazione apostolica sacerdotale, passando attraverso varie
congregazioni di fratelli. Come se i carismi fossero uguali e le forme di vita
intercambiabili.
Di quale discernimento si tratta? La chiamata di Dio può essere così aleatoria?
O stiamo favorendo itinerari personali il cui epilogo è tanto fortuito quanto è
stato il suo punto di partenza? Le conseguenze di questo tipo di “vocazione” si
faranno sentire più tardi. Con pregiudizio di tutti. E con detrimento della
qualità della vita.
La stessa vita religiosa si svilisce venendo a patti con questi procedimenti. Il
rigore nel discernimento vocazionale è una prova di onestà verso Dio e di
serietà verso la vocazione e il candidato.
2 Nello stesso tempo in cui la vita religiosa apostolica è provocata a
ricostruire la sua unità vitale, essa è chiamata a recuperare la qualità
evangelica di vita. È necessario che l’esperienza fondante si esprima in forme
concrete che le diano visibilità e la capacità di essere attraente. È il “vieni
e vedi” dell’invito di Gesù (Gv 1,39; cf. v. 36). Nel periodo post-pasquale, la
chiamata, la vocazione ci giunge attraverso gli altri (Gv 1,4 e 45ss: “Abbiamo
trovato il Cristo”. Non ci saranno vocazioni se la nostra vita non susciterà
interrogativi.
Come è avvenuto con Gesù, bisogna che le persone si interroghino circa la nostra
forma di vita: “Chi sei tu che fai queste cose e le fai in questa maniera?”.
È uno dei compiti pendenti oggi. In questi cinquant’anni, essa la vita religiosa
è passata attraverso profonde trasformazioni che le hanno dato un volto più
umano. Non sembra tuttavia che abbia raggiunto quello che cercava con il
rinnovamento. È come se l’aggiornamento fosse rimasto al di qua del vero
obiettivo: quello di una qualità di vita più evangelica. Accontentarsi di meno
vorrebbe dire vendere a basso prezzo la vocazione, ridurla a uno spazio
terapeutico di autorealizzazione. Non è forse questa la ragione della nostra
attuale insoddisfazione?
Due elementi sono indispensabili perché la vita religiosa apostolica recuperi la
sua qualità evangelica. Il primo è la ricostituzione della sua “esperienza
fondante”, della sintesi viva dei tre aspetti che la costituiscono. I
cambiamenti attraverso i quali è passata non hanno avuto l’incidenza sperata
negli spazi fondamentali della vita religiosa, non hanno modificato
qualitativamente né la nostra esperienza di Dio, né i nostri rapporti fraterni,
e nemmeno il modo di attuare la missione.
In secondo luogo, una volta ricostituita questa esperienza, la vita religiosa
apostolica deve ricostruire la sua visibilità istituzionale. Qualcosa che era
molto evidente nel “modello tradizionale”. Ma visibilità non è sinonimo di
moltiplicazione delle strutture. La vita religiosa post-conciliare ha condiviso
la ricerca di altre espressioni. Ci sono molti indizi, tuttavia, che non è
riuscita a ricostruire la sua stessa visibilità. Navighiamo tra residui del
passato e frammenti erratici di nuove espressioni. Ma non abbiamo traduzioni
chiare di esperienza vissuta come “forma concreta di vita”.
Che significa per la vita religiosa darsi una visibilità evangelica? Non si
tratta di una qualsiasi struttura. La visibilità deve scaturire dall’interno
della “esperienza fondante” ed è questa che deve configurare in maniera concreta
ciascun aspetto del modo di essere e di vivere. In altre parole, l’esperienza è
la matrice per una base comune che conferisce coerenza al vissuto: un orizzonte
comune di comprensione, un linguaggio comune e un ethos specifico dal quale deve
germogliare lo stile di vita.
Senza un orizzonte comune di comprensione non ci può essere “comunione di vita”.
L’uniformità monastica ha inferto un colpo mortale all’identità della vita
religiosa apostolica. All’estremo opposto, la cultura moderna frammentata non
offre un orizzonte comune di significato. In questo contesto, la vita religiosa
potrà solamente convivere con la grande diversità se sarà capace di manifestare
in essa l’unità plurale che si intesse attorno a Gesù. Egli è il “criterio di
vita”, la “norma fondamentale” dell’orizzonte di comprensione della vita
religiosa. Il contrario di questa “unità plurale” sarebbe una diversità caotica
in cui tutto è ugualmente possibile. Cosa che equivarrebbe alla morte della vita
religiosa.
Un’unità siffatta non è negazione della diversità, ma integrazione delle
differenze e della diversità plurale che arricchiscono. È ciò che la vita
religiosa apostolica sembra aver perso per mancanza di immaginazione o di
creatività. O forse perché non ha la libertà di lasciare che le sue espressioni
scaturiscano liberamente dalla vita.
Situarci nel medesimo orizzonte, a partire da prospettive diverse, ci farà
scoprire un linguaggio di identificazione – spirituale, comunitario e apostolico
– che conferisce unità alla diversità delle prospettive. Un linguaggio che
identifica e dà corpo “all’unità nella differenza”. Un tale linguaggio potrà
solo derivare dall’unità recuperata dell’esperienza originaria: l’esperienza che
sostiene e dà significato agli individui (esperienza di Dio in Gesù Cristo) è
quella che rende possibile la con-vivenza con altri (vita fraterna in comune) e
quella che deve ispirare, animare e dare significato alla missione (quello che
“facciamo”).
La vita religiosa apostolica manca anche di un ethos proprio che le dia
visibilità ed esprima con chiarezza la “differenza” della sua proposta di vita.
Il formalismo della normativa tradizionale ha dato luogo a un vuoto di
riferimenti, in cui ognuno è criterio di comportamento. Se i valori e i
comportamenti con cui ci identifichiamo sono quelli della cultura dominante, in
che cosa consiste la nostra testimonianza, qual è la nostra differenza? La vita
religiosa ha bisogno di un ethos comune, il cui riferimento sia l’universo dei
valori del Vangelo, ossia un modo di essere che crei dei comportamenti diversi
in rapporto alla società e alla cultura che ci circonda.
Si tratta della differenza tra “essere nel mondo” ed “essere del mondo” su cui
tanto insiste il Vangelo di Giovanni. Non possiamo escludere che la vita
religiosa, in questo processo di trasformazione, abbia assimilato, sotto diversi
aspetti e in maniera acritica, il modo di essere e lo spirito del mondo,
allontanandosi dalla sua matrice evangelica.
Da questo ethos particolare, da questo stile di vita “al modo di Gesù” (ethos è
lo stile in cui si trovano e si riconoscono i chiamati a vivere questa forma di
vita) sorgerà un modo spontaneo, l’ espressione visibile di questo modo di
vivere.
Così la vita religiosa si fa conoscere (visibilità) e diventa, nello stesso
tempo, un’interpellanza e un interrogativo per gli altri (significato).
L’attrattiva di questo stile di vita e la capacità di suscitare interrogativi
(perché sono così? che cosa giustifica questa vita?) saranno la prova
dell’autenticità dell’esperienza vissuta e della sua forza trasformatrice.
Se gli uomini e le donne con cui viviamo non riescono a percepire “di che” e
“per quale ragione” viviamo, dovremmo domandarci se la nostra vita non
assomiglia, come dice Paolo, a un cembalo che strepita (cf. 1Cor 13,1).
Questo momento storico può rappresentare un vero kairós per la vita religiosa
apostolica, una grazia “pasquale” per risorgere a una vita nuova. Ma per questo
deve imparare a leggere i “segni dei tempi”. Le morti sembrano chiare. Il nucleo
duro di questa “pasqua” è il “ritorno al Vangelo”, la conversione alla sua
“forma di vita” originale. Qualsiasi altro tentativo risulterà insufficiente. È
possibile questa riconversione – personale e istituzionale – dell’identità e
della missione della vita religiosa apostolica? C’è ancora posto nella nostra
vita per una irruzione creatrice dello Spirito?
Duplice è la missione della vita religiosa apostolica nella Chiesa. Ad intra
essa è chiamata a tenere viva nella comunità ecclesiale la coscienza che la
Chiesa non esiste per se stessa né termina in se stessa, ma esiste “per il
mondo” – l’unico mondo, concreto e reale per il quale Gesù ha dato la vita . Ad
extra, la vita religiosa è inviata per essere presente nel mondo “gridando con
la vita” – come direbbero Fratel Carlo de Foucauld e sorella Magdaleine – che
per generare vita bisogna trasmettere la fede che un “altro mondo è possibile”
solo “nello spirito delle beatitudini” e che è di questo Spirito di Gesù –
“Spirito” con la S maiuscola – che il mondo è assetato.
Per assolvere a questa duplice missione, tuttavia, bisogna che la vita religiosa
attui anzitutto in se stessa la “sintesi vitale” tra passione per Dio, vita
fraterna e missione. Non è infatti con discorsi che convinceremo il mondo del
primato di Dio nella nostra vita o che diventeremo “segno” di Cristo per gli
altri.
Non basta “vivere insieme” per diventare segno di ciò che vuol dire essere
“compagni di Gesù”, possiamo logorarci nel lavoro senza che traspaia la cosa più
importante, ossia che siamo “servi della missione di Cristo”.
A partire da queste premesse, con semplicità e umiltà, la vita religiosa
apostolica potrà entrare in dialogo con altre vocazioni e forme di vita nella
Chiesa. Senza nascondere il suo volto né diluirsi in nessuna delle altre forme,
ma affermando il suo posto e la sua funzione nella comunità ecclesiale e nel
mondo al quale è inviata. Basta che essa “vada al largo”, rischi di inoltrarsi
in queste acque profonde a cui è invitata oggi dal Signore.