In 100 paesi del mondo si è celebrata il 7 ottobre la Giornata mondiale per
il decent work (lavoro dignitoso): porlo al centro delle politiche sociali è
l’unico modo sostenibile per uscire dalla povertà, per costruire democrazia e
coesione sociale. Così si conferma l’urgenza di “svegliare” le comunità
cristiane sui temi socio-economici, perchè è in gioco il bene comune
dell’umanità e il futuro stesso delle nuove generazioni. Questa coscienza è
emersa a tutto tondo nel recente convegno nazionale dei direttori diocesani
della pastorale sociale e del lavoro, focalizzatosi sull’educare al lavoro
dignitoso (40 anni di pastorale sociale in Italia, Rimini 25-28 ottobre 2011).
Le analisi sulle cause della crisi che sta minando la vita quotidiana di tante
famiglie si concentrano su un liberismo economico senza regole/controlli e
sull’effetto devastante della combinazione di tre ideologie: l’utilitarismo,
l’individualismo e la tecnocrazia. A farne le spese è il mondo del lavoro, come
ha dichiarato di recente il presidente della Cei card. Bagnasco: «Il lavoro che
manca, o è precario in maniera eccedente ogni ragionevole parametro, è motivo di
angoscia per una parte cospicua delle famiglie italiane. Questa angoscia è anche
nostra: sappiamo infatti che nel lavoro c’è la ragione della tranquillità delle
persone, della progettualità delle famiglie, del futuro dei giovani. Vorremmo
quindi che niente rimanesse intentato per salvare e recuperare posti di lavoro.
Vorremmo che si riabilitasse anche il lavoro manuale, contadino e artigiano.
Vorremmo che gli adulti non trasmettessero ai figli atteggiamenti di sufficienza
o disistima verso lavori dignitosi e tuttavia negletti o snobbati. Vorremmo che
il denaro non fosse l’unica misura per giudicare un posto di lavoro. Vorremmo
che gli imprenditori si sentissero stimati e stimolati a garantire condizioni di
sicurezza nell’ambiente di lavoro e a reinvestire nelle imprese i proventi delle
loro attività. Vorremmo che tutti i cittadini sentissero l’onore di contribuire
alle necessità dello Stato, e avvertissero come peccato l’evasione fiscale.
Vorremmo che le banche avvertissero come preminente la destinazione sociale
della loro impresa e di quelle che ad esse si affidano. Vorremmo che i giovani,
in particolare, avvertissero che la comunità pensa a loro e in loro scorge fin
d’ora il ponte praticabile per il futuro» (Prolusione, Assemblea generale
vescovi 23-05-2011).
Quarant’anni di pastorale sociale
Questi “Vorremmo” hanno fatto da cornice all’incontro riminese organizzato
dall’Ufficio Cei per i problemi sociali e il lavoro (Psl), in sinergia con gli
Uffici per la catechesi, la famiglia, i giovani e le vocazioni, che si è
proposto di rileggere e rinnovare l’impegno di evangelizzazione ed educazione
nel mondo del lavoro sviluppando le prospettive degli Orientamenti pastorali
“Educare alla vita buona del Vangelo” e dell’enciclica “Caritas in veritate”.
Il direttore dell’Ufficio Cei di Psl, don Angelo Casile , ha sintetizzato i
lavori ricordando come la memoria dei quarant’anni di pastorale sociale in
Italia «ha permesso di rivivere le origini del nostro impegno ecclesiale,
scaturiti dalla volontà di papa Paolo VI, e di ascoltare la viva testimonianza
di quanti mi hanno preceduto nella direzione dell’Ufficio: mons. G. Crepaldi e
mons. P. Tarchi, ai quali si aggiungono, dalla Gerusalemme celeste, mons. F.
Charrier e mons. M. Operti. Grazie a loro e a mons. Santo Quadri, primo
presidente della Commissione episcopale per la pastorale del lavoro, l’Ufficio
nazionale ha assunto sempre più una fisionomia di collaborazione, di promozione
e di supporto degli Uffici diocesani e delle associazioni che si ispirano al
prezioso patrimonio della dottrina sociale della Chiesa».
Nella storia della Psl registriamo uno snodo decisivo nella Nota Evangelizzare
il sociale (1992), in un periodo in cui giunge al capolinea la vicenda del
partito della Democrazia Cristiana e in cui si rilanciano le Settimane sociali
dei cattolici. Nella Nota si evidenziavano con chiarezza: la centralità
dell’uomo concreto e storico che Cristo ha affidato alla cura e alla
responsabilità della Chiesa; il primato dell’uomo sul lavoro, il primato del
lavoro sul capitale e il primato della destinazione universale dei beni sulla
proprietà privata; le ragioni etiche della convivenza sociale che sono la vera
anima della democrazia.
In un solco ben tracciato
Da qui, come ha messo in risalto la stimolante relazione di mons. Sergio Lanza
(assistente ecclesiasitico dell’Univ. Catt. del Sacro Cuore), discende la
visione cristiana che non considera l’ambito sociale ed economico come
corollario della pratica della carità, ma come suo connotato essenziale. «La
fede cristiana non si limita ad alcune (preziose) forme di aiuto, ma tende a
promuovere con intensità di impegno una autentica cultura di solidarietà. Va
alla radice dei problemi, e non si accontenta di qualche forma di elemosina. La
Chiesa... non esita – ammaestrata dal concilio Vaticano II e dalle recenti
encicliche pontificie – a elaborare modalità nuove di presenza, in
corrispondenza di un modo fedele al Vangelo di pensare il proprio essere Chiesa
nell’oggi. ».
Il Vangelo dunque offre una visione antropologica e un riferimento etico
indispensabili per affrontare con sapienza ed efficacia i grandi problemi della
nostra società. Da qui parte la riflessione sulla dignità del lavoro. Il
criterio per valutarla, ha sottolineato il presidente Cei card. Bagnasco
all’inizio del convegno, è dato dalla sua conformità alla dignità dell’uomo:
«qualunque lavoro non ha una dignità o un valore in se stesso in modo assoluto,
ma è sempre relativo, cioè in relazione a ciò che ne è l’unità di misura,
l’uomo».
Nell’enciclica Caritas in veritate, Benedetto XVI offre addirittura un Decalogo
del lavoro decente, interpretandolo in modo più ricco: «Che cosa significa la
parola “decenza” applicata al lavoro? Significa un lavoro che, in ogni società,
sia l’espressione della dignità essenziale di ogni uomo e di ogni donna: un
lavoro scelto liberamente, che associ efficacemente i lavoratori, uomini e
donne, allo sviluppo della loro comunità; un lavoro che, in questo modo,
permetta ai lavoratori di essere rispettati al di fuori di ogni discriminazione;
un lavoro che consenta di soddisfare le necessità delle famiglie e di
scolarizzare i figli senza che questi siano essi stessi costretti a lavorare; un
lavoro che permetta ai lavoratori di organizzarsi liberamente e di far sentire
la loro voce; un lavoro che lasci uno spazio sufficiente per ritrovare le
proprie radici a livello personale, familiare, e spirituale; un lavoro che
assicuri ai lavoratori giunti alla pensione una condizione dignitosa» (63).
Oltre la siepe per dare speranza
Tutto ciò conduce a una radicale revisione del rapporto tra etica ed economia.
Qui si registra un vuoto formativo verso i giovani che va colmato: ne ha parlato
con competenza, nella sua relazione introduttiva al laboratorio specifico, anche
la salesiana sr. Alessandra Smerilli, docente della pontificia Facoltà di
scienze dell’educazione “Auxilium”. La grande sfida è immettere il tema della
“gratuità” in economia: questo non significa introdurre nel mercato una
filosofia buonista, bensì di valorizzare lo stile delle relazioni sul lavoro,
puntando sulla dignità di ogni lavoratore. L’etica dunque non è la semplice
legalità e nemmeno un’etichetta per vendere meglio un prodotto!
La tendenza alla privatizzazione della fede invece tende oggi a scivolare in una
religiosità di consumo, volta a soddisfare bisogni individuali e del tutto
sganciata dal vissuto della città dell’uomo. È necessario allora far percepire
che la solidarietà certifica l’autenticità della spiritualità. Queste
considerazioni, nutrite da un Magistero sempre più robusto, non bastano tuttavia
a sfatare l’impressione che la tematica sociale continui a transitare per lo più
sulle tangenziali della pastorale quotidiana. La distrazione pastorale nei
confronti della tematica sociale è un’evidenza della più generale
ritrazione/ripiegamento mentale e pratico della Chiesa dai territori dell’umano
storico.
Perciò mons. Giancarlo Maria M. Bregantini, presidente della Commissione
episcopale per i problemi sociali e il lavoro, la giustizia e la pace, ha
richiamato le chiese locali a una maggiore valorizzazione dei quattro
appuntamenti pastorali annuali: la giornata della pace (1 gennaio), la tematica
del lavoro sulla scia della figura di Giuseppe lavoratore (1 maggio), la
giornata del Creato (1 settembre) e la festa del Ringraziamento agricolo a metà
di novembre. E ha continuato mettendo il dito sulla piaga: troppe sono ancora le
diocesi prive di un robusto delegato alla Psl, efficace e fattivo; e ci sono
diocesi che non hanno una consulta che aiuti il delegato con un laboratorio di
cultura. Infine, ha dato tre parole per il cammino futuro della pastorale
sociale in Italia: intraprendere, includere, accompagnare i giovani.
Intraprendere è oggi più importante del solo investire. Rifacendosi alla nota
poesia dell’Infinito di Leopardi, ha affermato che intravedere oltre la siepe
dice uno stile di speranza. «Allenare all’invisibile è oggi il grande prezioso
contributo che possiamo dare in un’ottica precisa di evangelizzazione, da parte
della pastorale sociale, alla nostra realtà economica. Se non si spera, non si
investe. Se non si guarda lontano, non si progetta il futuro economico delle
nostre aziende... La stessa complessità non ci deve spaventare, ma invogliare ad
esperienze nuove, in una logica positiva che si chiama innovazione. In questo
cammino sarà necessario anche poter incontrare gli industriali, specie
all’interno delle grandi aziende, come la FIAT. Ad esempio, sarebbe bello
accogliere l’invito che mi è giunto per strade precise, onde ascoltare e
confrontarsi dialetticamente con Marchionne, grande ed esperto manager della
FIAT. Non per esserne succubi, ma per illuminare, capire, condividere ma anche
suggerire atteggiamenti in sintonia con la dottrina sociale della Chiesa».
Includere significa coltivare un’ospitalità secondo la logica emersa dalla
Settimana sociale 2010: riconoscere la cittadinanza ai figli degli immigrati
nati in Italia; far votare alle elezioni amministrative comunali anche gli
immigrati regolari; offrire sostegno alle crescenti imprese nate dal coraggio
degli immigrati. Accompagnare i giovani, infine ha detto mons. Bregantini,
richiama alla «grande emergenza antropologica, dal sud al nord: il precariato...
proprio nel dibattito schietto con Marco Biagi, già si era sollevato il timore
che, con facilità, la flessibilità si potesse trasformare in precarietà. Su
questo punto, anche le nostre istituzioni cattoliche devono e possono dare un
esempio di speranza, riducendo sempre più il numeri dei lavoratori precari che
assumono. La gente richiede infatti anche da noi uno stile nuovo, una
testimonianza che ci veda non-allineati al modo di fare e di pensare delle
aziende. Ma quanta fatica e quanti ritardi, anche nel nostro mondo!».
Dai laboratori arrivano intanto conferme sui ritardi e le lentezze formative
delle comunità cristiane sul territorio, ma anche la testimonianza di “buone
pratiche” in risposta alla disoccupazione giovanile, in tema di nuova
imprenditoria femminile e di migliore valorizzazione delle qualità delle donne
nelle aziende, di riscoperta della sobrietà e di nuovi stili di vita, per un
rinnovato equilibrio tra famiglia, festa e lavoro.