Nel pomeriggio di domenica 9 ottobre 2011, Benedetto XVI ha presieduto la celebrazione dei secondi vespri, nella Certosa di Serra San Bruno, ultimo atto della sua visita in Calabria. L’incontro si pone in continuità con altri segni della profonda comunione tra la Sede Apostolica e l’Ordine certosino. Anche il beato Giovanni Paolo II si era recato in quel luogo il 5 ottobre 1984, mentre già nel maggio aveva indirizzato una sorta di lettera al ministro generale, in occasione del IX centenario della fondazione della prima comunità alla Chartreuse, presso Grenoble.
La spiritualità voluta da san Bruno per i suoi monaci si è sempre distinta per un più di assoluto a cui deve aspirare chi vi è chiamato. Stat Crux dum volvitur orbis : è appunto il motto della Certosa. La Croce è il punto fermo, in mezzo ai mutamenti del mondo. Rimanendo saldamente uniti a Cristo, si vive associati al suo mistero di salvezza, come Maria che rimase presso la Croce, unita al Figlio nella stessa offerta d’amore. La vita della Certosa è stata delineata sempre in termini di contrasto con il mondo. Si è sottolineata la sua dimensione di “segno della vita futura”, ma quei monaci rimanevano lontani, disincarnati, quasi esseri diversi dai comuni mortali.
Ora la visita di Benedetto XVI è stata occasione per ripresentare la vocazione del monaco certosino nell’oggi, alla luce della ecclesiologia del concilio Vaticano II. E questo non solo attraverso l’omelia pronunciata dal papa ai Vespri, sobriamente cantati nel coro monastico, ma anche grazie a interviste concesse eccezionalmente per la circostanza dal priore della certosa, dom Jacques Dupont . È sorprendente la coincidenza di visioni tra Benedetto XVI e il priore di Serra San Bruno nel parlare di Dio all’uomo contemporaneo .

Il “monaco” che sonnecchia in ogni uomo.

Dal racconto del priore vien fuori man mano uno stile di vita che suona come una proposta anche al nostro mondo, fatto più di parole che di azione. Chi vive nella Certosa sembra capovolgere i valori a cui l’uomo di oggi più aspira. Già il primo testo legislativo certosino, redatto da Guigo, parla della quies come quanto di meglio si possa trovare nella loro vita. Questo termine latino esprime qualcosa di più profondo che il semplice silenzio. Così lo spiega il priore Dupont: «Il silenzio è una chiamata interiore, in modo che dal semplice tacere nasca la sete di un silenzio più profondo». Una apertura per accogliere il Verbo.
Non è facile raggiungere tale livello. Ci vuole quella pazienza di tutta una vita, che contrasta con la pretesa odierna di voler tutto presto e a poco prezzo. Ma il certosino ha davanti a sé come guida la Vergine Maria, la quale ha ricevuto suo Figlio come il silenzio accoglie la Parola di Dio. E il priore prosegue: «Insieme a Maria cerchiamo, nonostante le nostre imperfezioni e le nostre debolezze, di trascorrere la nostra vita nella contemplazione e nell’adorazione di Dio, non nello splendore della visione, ma nell’oscurità della vita quotidiana di Nazaret».
Il vivere come solitari in comunità è una testimonianza d’amore resa all’Assoluto di Dio. Una testimonianza necessaria in modo particolare in questo oggi in cui si insiste tanto sull’uomo. E può diventare provocatoria se si pensa che «ogni uomo porta in sé l’archetipo del monaco, che lo sprona ad andare oltre a ciò che passa e a ciò che è molteplice, per ricercare l’Unum necessarium». È molto efficace nel suo latino l’espressione con cui san Bruno sintetizzava l’ideale certosino: Fugitiva relinquere, aeterna captare.
Una spiritualità, quella della Certosa, in cui si fa esperienza di qualcosa che ogni cristiano serio può condividere anche trovandosi in uno stato di vita diverso, purché coltivi quell’archetipo del monaco che porta in sé. Si legge negli statuti certosini: «Se aderiamo veramente a Dio, non ci trinceriamo in noi stessi, ma al contrario la nostra mente si apre e il cuore si dilata tanto da poter abbracciare l’universo intero e il mistero salvifico di Cristo».
È vocazione specifica dei certosini vivere separati da tutti, per stare a nome di tutti al cospetto del Dio vivente. Eppure ogni persona che abbia conosciuto la libertà dello spirito, sente risvegliarsi quel “monaco” che porta in sé e che si esprime in sete di Dio: gioia e tormento dell’amore che cerca l’amore.
Una testimonianza data soltanto con l’amore – disse Giovanni Paolo II a quella stessa Certosa, nel 1984. E poi proseguì: «Il mondo vi guarda e, forse inconsapevolmente, molto si attende dalla vostra vita contemplativa. Continuate a porre sotto i suoi occhi la provocazione di un modo di vivere che, pur intriso di sofferenza, di solitudine e di silenzio, fa zampillare in voi la sorgente di una gioia sempre nuova».

Esperienza di una Realtà oltre il sensibile

Benedetto XVI, nell’omelia pronunciata durante i secondi vespri, ha messo in risalto il legame profondo che esiste nella Chiesa tra Pietro e Bruno, tra il servizio pastorale e la vocazione contemplativa: «Il ministero dei Pastori trae dalle comunità contemplative una linfa spirituale che viene da Dio».
Nell’abbandonare le realtà fuggevoli e cercare di afferrare l’eterno è il nucleo della spiritualità certosina. “Ab Uno captus” – diceva san Bruno. E il papa spiegava come questo significasse l’aver trovato quella perla di grande valore di cui parla il vangelo (Mt 13, 44-46) e aver risposto con radicalità all’invito di Gesù (Mt 19, 21). Di qui «il forte desiderio di entrare in unione di vita con Dio, abbandonando tutto il resto, tutto ciò che impedisce questa comunione e lasciandosi afferrare dall’immenso amore di Dio per vivere solo di questo amore».
In realtà ogni monastero – maschile o femminile che sia – è un’oasi in cui si scava il pozzo profondo da cui attingere “acqua viva” per la nostra sete più profonda. «Ma la Certosa è un’oasi speciale – proseguiva Benedetto XVI – dove il silenzio e la solitudine sono custoditi con particolare cura, secondo la forma di vita iniziata da san Bruno e rimasta immutata nel corso dei secoli». Abito nel deserto con dei fratelli: è la frase sintetica che egli scriveva nella Lettera a Rodolfo.
Per confermare l’intero Ordine nella sua missione, quanto mai attuale e significativa, il papa faceva un abbozzo dell’attuale condizione socioculturale. Il progresso tecnico ha reso la vita più confortevole, ma anche più convulsa; le città sono rumorose, a volte non c’è silenzio neanche di notte. E poi lo sviluppo dei media che ha diffuso il fenomeno della virtualità: sempre più le persone sono immerse in una dimensione che non è quella della realtà, a causa di messaggi audiovisivi che raggiungono le orecchie dalla mattina alla sera. Specialmente i più giovani, se escono da un simile contesto, hanno paura di sentire il vuoto piuttosto che il valore dello star soli. E questa tendenza ha raggiunto un livello tale da far parlare di mutazione antropologica.
Tale situazione porta ancor più a valorizzare nell’oggi il carisma specifico della Certosa come dono prezioso per la Chiesa e per il mondo. In esso si trova per tutti un messaggio profondo, che Benedetto XVI, da acuto conoscitore dello spirito umano, così riassume: «Ritirandosi nel silenzio e nella solitudine, l’uomo, per così dire, si “espone” al reale nella sua nudità, si espone a quell’apparente “vuoto” cui accennavo prima, per sperimentare invece la Pienezza, la presenza di Dio, della Realtà più reale che ci sia, e che sta oltre la dimensione sensibile. È una presenza percepibile in ogni creatura: nell’aria che respiriamo, nella luce che vediamo e che ci scalda, nell’erba, nelle pietre… Dio, Creator omnium, attraversa ogni cosa, ma è oltre, e proprio per questo è il fondamento di tutto. Il monaco, lasciando tutto, per così dire “rischia”: si espone alla solitudine e al silenzio per non vivere di altro che dell’essenziale, e proprio nel vivere dell’essenziale trova anche una profonda comunione con i fratelli, con ogni uomo».

Un cammino di trasformazione

Ma non basta ritirarsi in un luogo come la Certosa per cogliere stabilmente la presenza di Dio. Come nel matrimonio non basta celebrare il sacramento per essere veramente una cosa sola, così il diventare monaci richiede tempo, impegno, attesa. E proprio in questo Benedetto XVI vede la bellezza di ogni vocazione nella Chiesa: «dare tempo a Dio di operare con il suo Spirito e alla propria umanità di formarsi, di crescere secondo la misura della maturità di Cristo, in quel particolare stato di vita». Abbiamo bisogno di tempo per fare nostra una delle dimensioni del mistero di Cristo. È un cammino di trasformazione: un cammino che si snoda dal fonte battesimale fino al passaggio nella casa del Padre. Agli occhi del mondo sembra impossibile rimanere per tutta la vita in un monastero, «ma in realtà tutta una vita è appena sufficiente per entrare in questa unione con Dio, in quella Realtà essenziale e profonda che è Gesù Cristo».
La presenza del Santo Padre a Serra San Bruno, è venuta a confermare ancora una volta la mistica unione che esiste tra la famiglia certosina e la Chiesa istituzionale: «La Chiesa ha bisogno di voi e voi avete bisogno della Chiesa». Tutto il mondo monastico, più o meno nascosto e silenzioso, non ha un posto marginale nel popolo di Dio. Come, del resto, nessuna vocazione è marginale: siamo un unico corpo, in cui ogni membro è importante e ha la medesima dignità, ed è inseparabile dal tutto. Allora, «anche voi che vivete in un volontario isolamento, siete in realtà nel cuore della Chiesa, e fate scorrere nelle sue vene il sangue puro della contemplazione e dell’amore di Dio».
La presenza di Benedetto XVI in tante circostanze delle realtà umane e ecclesiali, offre uno stimolo ad approfondire i temi di volta in volta trattati, in modo tale che il nostro spirito rimane aperto a conoscere e andare avanti con i tempi. Così quegli insegnamenti che scavano nella verità, diventano una sorta di “formazione permanente” per chi desidera camminare insieme a tutta la Chiesa. Forse è un dono di cui ancora pochi si rendono conto. E nel popolo di Dio non cresce adeguatamente. Ma «vivere è mutare, scriveva Newman, la perfezione è il risultato di molte trasformazioni».
Per una autentica vita cristiana, e tanto più sacerdotale, occorre saper comprende e accogliere le cose umane e trasformarle in preghiera. Allora la persona diventa anche “segno” delle cose ultime e vere come possono esserlo i monaci. Per questo il papa ripetutamente torna a proporre ai cristiani, ciascuno nella propria condizione, l’ispirazione ideale del monachesimo: la ricerca di Dio quale scopo principale dell’esistenza.