I monaci camaldolesi hanno tenuto il loro capitolo generale dal 20 settembre al 5 ottobre scorso, sul tema Monaci e Monache camaldolesi oggi... e domani: “oggi”, perché si tratta di fare sintesi del cammino post-conciliare sviluppato fin qui; “domani”, perché si avverte la necessità di prospettare scelte, posizioni, intuizioni, spinte nuove per il futuro.
Come è ormai da tradizione da alcuni decenni, l’incontro si è aperto al monastero di Camaldoli con due relazioni presentate da don Armando Matteo (docente di teologia fondamentale all’Urbaniana (Roma), e di sr. Antonietta Potente (domenicana, che vive dal 1994 in Bolivia dove insegna teologia morale), e del prof. A. Schiavone (docente all’Università di Firenze e di Napoli), che hanno posto le basi per il successivo dibattito capitolare.
Nella prima settimana, oltre ai Padri capitolari, hanno partecipato monaci e monache provenienti dalle diverse comunità della Congregazione camaldolese e numerosi oblati e amici di Camaldoli. In tutto un centinaio di partecipanti.

Il contributo dei relatori

Don Armando Matteo ha prospettato i mutamenti del tempo che stiamo attraversando. Siamo alla fine di una parabola epocale – ha detto – e se da un lato il nostro è un tempo di precarietà e di transizione, dall’altro è anche tempo di benedizione. Gli osservatori più attenti ci dicono che siamo al termine del post-moderno e si sta dischiudendo un tempo più vincolato al reale, ai valori decisivi, e all’autenticità; il post-concilio sta ormai esaurendo le sue connotazioni temporali degli anni ’70, ’80 e ’90: il tempo delle interpretazioni del Concilio è finito, si tratta ora di ripartire dai temi conciliari per trovare nuove visioni teologiche e spirituali.

Sr. Antonietta Potente, da parte sua, ha declinato il suo discorso con delle metafore vive. Oggi siamo chiamati a stare sulla soglia: viviamo il tempo delle porte socchiuse e si comincia a intravvedere qualcosa. Il nostro è tempo di preparazione in cui la nostra vita religiosa deve essere pensata come scoperta vissuta della religiosità della vita, e decisione di rimanere nella quotidianità ponendo gesti di celebrazione, di amore, e di umanità ritrovata.
Infine, A. Schiavone ha sottolineato come ormai siamo entrati nella terza rivoluzione tecnologica dell’umanità, quella della bio-informatica. Il concetto tradizionale di natura ciclica e immutabile si è disgregato di fronte alle scoperte della scienza e alla cultura che soprattutto l’Occidente ha diffuso negli ultimi due secoli nel resto del mondo. E mentre l’uomo appariva fino a pochi decenni fa come l’esito evolutivo della natura stessa, oggi invece è l’uomo che è chiamato – attraverso la riscoperta di un’etica responsabile e umana – a decidere le trasformazioni e gli esiti della natura stessa. Occorre perciò un’etica responsabile e umana, che salvaguardi l’essere umano insieme alle altre creature e a tutte le espressioni della natura.
Il monachesimo camaldolese vuole confrontarsi e camminare con la storia attuale e non teme gli scambi culturali che stanno avvenendo.
Su queste linee è stato poi elaborato il documento finale che riportiamo qui di seguito.

Il documento messaggio finale

«In queste settimane di Capitolo generale il nostro sguardo e la nostra attenzione hanno privilegiato la vita dentro le nostre comunità e hanno rinnovato i vincoli di comunione all’interno dell’intera Congregazione. Prima di tutto, vogliamo ringraziare il Signore per il dono della nostra vocazione e del nostro carisma monastico camaldolese e rinnoviamo la nostra professione di fede per adorarlo nello spirito della verità e rimanere i ricercatori del suo amore nella chiesa e nel mondo di oggi.
Ma la nostra ricerca e la nostra riflessione non possono prescindere dal tempo che stiamo vivendo, e da quella spinta di energia che in più parti del mondo di oggi sta emergendo con le sue dimensioni di novità e di cambiamento. Avendo celebrato il Capitolo generale in Italia e nel nord del mondo, esprimiamo questi pensieri e riflessioni a partire dalla nostra cultura, e ci rendiamo conto che queste pagine sono condizionate dal nostro orizzonte occidentale, per cui dovranno essere arricchite e completate dalla sensibilità culturale e religiosa del Brasile, dell’India e della Tanzania, dove vivono diversi nostri confratelli monaci e consorelle monache.
La nostra situazione storica è paradossale: da un lato, si percepisce la fine di una cultura, di un sistema politico-economico, di prassi istituzionali, di un’organizzazione sociale (stanno emergendo crepe profonde che mettono in risalto la senescenza di un ordine dato); dall’altro, si stanno manifestando mutamenti imprevisti che sollecitano il nostro interesse e la nostra considerazione.
Nel crogiolo dell’attuale trasformazione, mettiamo in evidenza alcune consegne, che ci interpellano e ci sfidano come monaci/che.
Dentro la storia. Il mondo contemporaneo pare segnato dal desiderio del cambiamento ad ogni livello del vivere umano (“io posso” / “I can”), e simultaneamente dalla preoccupazione dell’orizzonte sconosciuto (“in che direzione?”) verso cui camminare. Il chiaroscuro di speranza e timore pare essere la cifra della odierna condizione umana. La chiesa, e il mondo monastico con essa, appare chiaramente come figlia del suo tempo, di cui riconosce “la gioia e la speranza, la tristezza e l’angoscia” (GS 1), e sperimenta che quell’atteggiamento profetico è diventato un sentimento di partecipazione dall’interno alle dinamiche più profonde del sentire contemporaneo.
… Con speranza. In un certo modo, quel sentimento di spaesamento e di isolamento che il mondo odierno esperimenta, assomiglia molto alla domanda su ciò che inevitabilmente avviene alla nostra vita monastica. Qualcosa di inesorabile accade nei nostri eremi e monasteri e noi ci chiediamo se sopravvivranno/sopravvivremo (domani) al ritmo inesausto delle mutazioni. Se ascoltiamo la parola di Gesù nel vangelo, “Non affannatevi per il domani “ (Mt 6, 34a) e “Chi di voi, per quanto si affanni, può aggiungere un’ora sola alla sua vita?” (Lc 12,25), il nostro sguardo e la nostra domanda mutano gradualmente in coscienza spirituale, e ci riscopriamo ri-centrati sulla nostra capacità di corrispondere (oggi) alla domanda di evangelo che sorge impetuosa dal mondo, dalla chiesa, dalla comunione monastica e dalla nostra stessa famiglia camaldolese.
Gli epocali distacchi. Oggi si tratta di assumere una diversa coscienza del distacco a cui siamo chiamati: “Basta avere almeno quarant’anni per percepire la sensazione di stacchi epocali da interi mondi di abitudini e di comportamenti perduti, e che si stanno completamente dimenticando” (A. Schiavone). Siamo stati invitati a non assumere un’aria di mestizia, di scoraggiamento e di sfiducia, perché anche se siamo confrontati con un tempo di povertà, di estraneità, di precarietà, di inattualità e di debolezza, il nostro è anche un tempo di benedizione: ci è affidato il compito “di decidere cosa, del vecchio mondo, vogliamo portare fino al nuovo … Ciò che ci salverà non sarà mai quel che abbiamo tenuto al riparo dai tempi, ma ciò che abbiamo lasciato mutare, perché ridiventasse se stesso in un tempo nuovo” (A. Baricco).
Siamo entrati ormai nella terza rivoluzione tecnologica dell’umanità: quella della biologia e della informatica, della bio-convergenza tra umanità e tecnologia, in cui sta emergendo una nuova connotazione dell’umano, non più affidato alla evoluzione sic et simpliciter della natura, ma consegnato agli uomini stessi. Ora “l’accumulo” degli eventi naturali della nostra evoluzione, ci porta a un destino, il nostro essere qui e ora, uomini e donne su questo pianeta, che non è dovuto al fato o alla fortuna, o alla causalità, ed è anche difficile percepirlo solo come provvidenza. Sentiamo che dobbiamo inverarlo come storia personale, come umanità di popoli attraverso una responsabilità razionale e sapienziale di un discorso etico umano.
Si assiste a una rinnovata domanda di religiosità della vita, perché il nostro tempo di transizione è anche tempo di preparazione. A. Potente ci suggeriva di stare sulla soglia, perché questo è anche il tempo delle porte socchiuse: si intravede qualcosa. Dobbiamo avere il coraggio di sporgerci. È anche tempo di sogni metafisici verso il basso: coscienza, incarnazione e spiritualità nell’interdipendenza delle nostre vite/esistenze; nella concreatività con l’energia gioiosa della Presenza divina che ci coinvolge quali patners della sua azione creatrice e liberatrice; e nell’esercizio di una libertà/apertura fedele alla quotidianità: non partire dalla domanda “cosa posso fare?”, ma cambiarla in un’altra già piena di iniziativa: “come posso fare?”
La passione di/per Dio ci invita a considerare l’altra metafora che ci ha proposto sempre A. Potente, quella del viaggio.
Partire da dove? È importante attivare la ricerca dal di dentro di noi stessi. Partire da sé, dalla profondità della nostra interiorità. Non si tratta di scoprire un facile intimismo emozionale, ma ascoltare dentro di noi e percepire/ricevere l’amore con cui Dio ci ama.
Perché partire? Perché l’umanità stessa è in cammino, sta conducendo il suo esodo “verso una città dove abitare” (Salmo 107); perché partecipiamo alla nostra stessa creazione (autopoiesis); perché sentiamo il bisogno di una casa dove dimorare, e per fare gesti che celebrano e amano: casa non come rifugio ma punto di partenza per affrontare l’esistenza.
Con chi partire? Si coglie la religiosità della vita e la passione di/per Dio stando dentro il quotidiano, ma non da soli. È un mistero perché una persona incontra certe altre. Oggi e ancor di più domani non possiamo ritenere di poter pensare da soli, compiere i gesti di amore della nuova umanità da soli, vivere isolati … separati dagli altri in un individualistico isolamento. La solitudine del/la monaco/a nell’eremo o nel monastero è grazia aperta all’incontro e alla condivisione, si lascia arricchire dal dono dell’alterità. Dunque, è un partire con l’altro/a costruendo relazioni autentiche, ma è soprattutto un partire con Dio come proprio di chi desidera “sciogliersi ed essere con Cristo” (San Bruno di Querfurt).
Ci interroga, inoltre, la protesta degli indignati operata da tanti giovani che – in diverse parti del mondo (dalla Spagna alla Grecia, al Cile, e in questi giorni negli stessi Stati Uniti) – stanno protestando per la loro vita precaria e per la mancanza di futuro. Non è solo protesta, ma anche tentativo di pensare una società umana diversa. Si domanda una nuova economia che non ruoti principalmente attorno agli interessi finanziari, ma riparta dal lavoro e dalle innovazioni tecnologiche; si vuole una società più inclusiva e più aperta all’altro/a superando razzismi e intolleranze culturali, di genere, e di opposizioni ideologiche; si propone un’etica che dia senso alla vita delle persone e sia corrispondente alla eco-sostenibilità dell’ambiente; si denunciano guerre e conflitti che sono ingaggiati solo per la conquista di fonti energetiche e per garantire il potere geo-politico.
Guardiamo anche alla primavera di cambiamento socio-politico che sta attraversando non solo le società arabe del Mediterraneo, ma anche altre popolazioni che domandano democrazia, giustizia, diritti civili e un adeguato sviluppo sociale. Mentre la disperazione presente nei campi profughi di Haiti, la fame e la sete di migliaia di persone in Somalia, al confine col Kenya, e in altri paesi, sono uno scandalo insopportabile.
Infine,come ci ha suggerito Armando Matteo, viviamo la nostra vita monastica camaldolese nella chiesa di Cristo, semper reformanda. La abitiamo come chiesa della Bibbia, chiesa dei Padri e delle Madri, chiesa della preghiera, chiesa che attende il regno di Dio, chiesa della gioia e della festa. Il divenire, che caratterizza la chiesa come popolo pellegrinante nella storia, è proprio anche del monachesimo camaldolese in cammino da mille anni. Sentirci in movimento e in trasformazione ci appartiene.
In questo tempo segnato da tante soglie, sappiamo per fede che tutta la storia sta evolvendo verso il compimento del Cristo cosmico. Attraverso il nostro servizio monastico nell’epiclesi dello Spirito santo, rinnoviamo la speranza che la nuova creazione si realizzi più efficacemente».
(Il documento è firmato dai padri Capitolari camaldolesi)