Una premessa: le riflessioni che seguono offrono una visione della vita
religiosa dichiaratamente parziale: molti consacrati non si ritroveranno in esse
e molti altri non meritano di esservi inclusi. E a questi chiedo scusa e
perdono. Ma credo che tali riflessioni non saranno inutili: parecchi di noi
(forse) vi si riconosceranno e potranno (forse) fare un non superfluo esame di
coscienza, anche guardando all’interno della propria comunità. Perché credo che
– almeno di tanto in tanto – occorra “scoperchiare il tetto” delle nostre
tranquillità, delle nostre abitudini, delle nostre facciate, della nostra
“sazietà” spirituale, per entrare dentro la casa del nostro “io” e dei nostri
comportamenti e vedervi – con coraggio e verità – l’effettiva realtà.
E attraverso il tetto scoperchiato si possono intravvedere alcune di queste
realtà. Ne ricordo tre.
La “feroce” autorealizzazione
L’aggettivo toglie la legittimità di una conquista di per sé valida per la
persona umana, nel suo cammino verso la maturità. Ma l’accento è sull’aggettivo.
Lo analizziamo per la vita religiosa.
L’idea stessa di comunità dovrebbe implicare la consapevolezza che occorre
operare per obiettivi comunitari, quindi irriducibili al proprio “io”, anche se
perseguibili con le proprie capacità e specifiche competenze. Ora se un
religioso – e anche ogni lavoratore di un’azienda – esplica il proprio io non al
servizio del bene comune e senza alcun rapporto con gli altri, in una
separatezza più o meno orgogliosa, potrà forse realizzare i propri obiettivi, ma
non a favore, forse spesso a scapito, della comunità che dice di servire e a cui
dice di appartenere.
L’impostazione fortemente individualistica di intendere l’autorealizzazione non
serve la comunità, ma soltanto, appunto, il proprio io e l’egoismo. Spesso non
si pensa più in termini di comunità: vengono meno le basi comunitarie e anche
carismatiche (il carisma ha sempre un orizzonte comunitario). Resta la “storia
del singolo”, il “trionfo del privato” e la “morte della comunità”.
Non soltanto: in questa effervescente “logica dell’io” nascono talvolta una non
tanto latente competitività e dei confronti umilianti – se non sfacciati – e
insulsi. In tal modo la comunità diventa una “somma di individui” con esistenze
separate in casa. Con quale beneficio e testimonianza per la natura e missione
della vita religiosa è facile da vedere. Si rimane facendo al minimo i “doveri
canonici” della regola, ma la testa è altrove: dentro il proprio io. Ci si mette
la coscienza a posto con queste osservanze e poi ci si dedica con entusiasmo
alla ricerca della propria realizzazione, in un’ottica privatistica. L’amore
autentico per la realizzazione comunitaria non c’è.
Una diffusa conseguenza degli egoismi imperanti è la solitudine. Di tutti: dei
ricercatori dell’autorealizzazione assoluta perché si chiudono – di fatto – in
una torre d’avorio nella quale nessuno può entrare, ma dalla quale neppure loro
sono capaci di uscire; degli altri, perché non vi è intesa, comunione,
comunicazione, condivisione e vero dialogo. Ci si parla, ma la voce non
raggiunge il cuore; ci possono essere tanti progetti singoli, separati e
gelosamente custoditi e difesi dall’intrusione degli estranei. La vita scorre su
binari paralleli, in eterno.
Un’altra conseguenza: la “feroce” autorealizzazione finisce per chiudere in una
camera blindata anche intellettuale: vi si coltivano le proprie idee, ritenute
le sole giuste e considerate definitive, alle quali non necessita alcun apporto
di altre concezioni e visioni. Alcuni credono che il loro spesso supposto
carisma sia in grado di oscurare l’effettiva assenza quasi totale di idee e
progetti. E qui non vi è spazio per la complessità, la novità. L’anestesia
auto-realizzante addormenta le facoltà del ricercatore dell’ “io assoluto”.
Le “appaganti” parole
Anche qui l’accento è sull’aggettivo. Noi religiosi, talvolta, ci presentiamo
come persone piacevolmente intente a discutere delle nostre “virtù nazionali”:
discettiamo volentieri e con convinzioni teoriche ineccepibili sulla vita
consacrata, sulla comunità, sulla fraternità. E poi viviamo in una beata,
intoccabile “zona di individualismo”, di “fuga all’esterno”. È un modo
beatamente quotidiano di sentirsi, nonostante tutto, a posto con la propria
coscienza, inattaccabili dall’illogicità del nostro comportamento-. Abbiamo
“parlato”, e spesso anche bene, e quindi…
Il “potere della parola” è tutto: l’esame teorico della vita religiosa – in
tutte le sue espressioni e diramazioni – assorbe tutte le energie e non resta
più molto per vivere in modo coerente e decente. L’analisi è tutto. Poi ci si
dimentica di agire. E l’analisi troppo spesso non spinge allo sforzo di condurre
una vita coerente alle abbondanti parole dette. Inoltre la nostra “fedeltà ai
principi” è viziata dalla superficialità della stessa analisi e
dall’inconsistenza della coerenza.
L’autocritica – questa sì necessaria – è esclusa tassativamente dalla nostra
esistenza e il troppo benessere – dato dalle appaganti parole – non provoca
ripensamenti. In questa situazione si spengono subito anche gli “alti ideali” da
cui si era partiti e i “ futuri progetti” che erano balenati alla mente: non è
opportuno lanciarsi in terreni che smuovono il proprio benessere e la
convinzione di avere tutto il desiderabile. L’orizzonte resta limitato e il
camminare non porta lontano: ci si muove come su un tapis roulant: stando fermi
allo stesso posto.
Sfoggiamo eleganti, e a volte anche erudite, posizioni “moderne”, condite di
idee brillanti – meglio se alquanto eccentriche – e poi viviamo nella tranquilla
“volgarità” di sempre, timorosi di uscire dal bozzolo che ci siamo costruiti e
nel quale ci sentiamo sicuri. All’orizzonte non si delineano mai prospettive
nuove e allettanti, non perché non ci siano, ma perché non si vedono tra le
proposte che la cultura e la pastorale oggi offrono.
La “freddezza della rettitudine” (esteriore) genera l’incapacità di sentire lo
“sfrigolio” del bisogno, dell’effettiva adesione al mondo degli altri. Tante
volte sono le parole che “dicono” la nostra partecipazione ai problemi –
soprattutto a quelli dolorosi – degli altri: noi, in fondo, ne siamo e ne
restiamo fuori. Abbiamo la “beatitudine”, non proprio evangelica, del “vedere” e
del “parlare”.
La spirale della condiscendenza verso se stessi porta sempre più in basso: non
si sente più il desiderio di agire, sognare, scavare. Si è contenti di “essere”.
Per tanti di noi esiste un altrove che ci interessi seriamente, direi
caparbiamente? O piuttosto esiste soltanto un qui e un adesso che assorbe
completamente il nostro interesse? L’animo umano dispone di eccellenti
meccanismi di protezione e noi siamo ben lieti di approfittarne, magari
inconsciamente. Con le “armoniose parole” proclamate ci sente già realizzatori
di oasi di pace e di campi di missione.
“L’eccessiva” frammentazione
La ricerca del proprio io tende a eliminare la complessità, che dice sempre
altre concezioni, ramificazioni oltre la mia visuale, esistenza di altri mondi
al di fuori e al di là del mio. L’autorealizzazione “feroce” non accetta una
“comunità di idee”, certo da vagliare e discutere, ma comunque sempre da
prendere in considerazione e non da rigettare a priori. Nella migliore delle
ipotesi l’auto-realizzatore assiste con degnazione, con il sorriso sulle labbra,
al discorso comune. Pronto comunque a non tenerne conto. La ricchezza della
molteplicità va così perduta e il dinamismo comunitario è spento e le diverse
forze esistenti si disperdono. Rimane la frammentazione, la polverizzazione
degli interventi: ma sono efficaci? Senza una comune visione restano soltanto
individui portatori di un privato progetto di presenza.
In questa polverizzazione le differenze – in sé una ricchezza – sono in realtà
deleterie, perché non amalgamate in un progetto condiviso. Allora non è
“l’insieme” che agisce, ma la frammentazione, condita di indifferenza per quanto
l’altro fa. Si dimentica che la propria, sacrosanta autenticità, si esprime in
relazione ad altre, altrettanto sacrosante, autenticità. Quanto non sia
“religioso” tutto questo è evidente, ma non sempre l’evidenza è evidente per chi
non la vuole guardare.
Oggi si sottolinea con forza e insistenza che senza comunicazione non vi è
società civile e una vera concezione della realtà, che resta parziale senza
contatto e scambio con altre visioni. Questo è naturalmente valido anche per la
comunità religiosa: se prevale l’egoistica e compiaciuta ricerca di se stessi,
la natura della vita comunitaria è falsata. Rimane un insieme di scapoli o di
nubili che condividono le “spese” della casa, ma per il resto in proprie
nicchie, alle prese con i propri affari.
La comunità non si costruisce quando ciascuno vuole essere “tutto” – esiste solo
lui: è la comunità – o quando uno solo vuole essere tutto – guida, voce, viva
espressione della comunità. Soltanto tutti insieme possiamo essere la comunità.
La “feroce” autorealizzazione, “l’eccessiva” frammentazione, le “appaganti”
parole: tre elementi che – in modo diverso, ma egualmente dannoso – impediscono
la creazione di un’autentica comunità religiosa. Possiamo scoperchiare il tetto
del silenzio e dell’indifferenza?