In una conferenza al XXVII convegno dei formatori OFM il 21 sett. scorso ad
Assisi, p. Elia Citterio ha parlato della formazione alla vita cristiana e
religiosa in stretto riferimento con la situazione storica e culturale di oggi.
Ne sono venute delle indicazioni di rara profondità, che meritano di essere
prese in attenta considerazione non solo dai formatori ma da tutti i consacrati,
specialmente da chi ricopre ruoli di autorità e di governo. Soprattutto lì dove
si fa vedere a quale livello si gioca la partita – della formazione e della
perseveranza – al di là di tutte metodologie che vengono messe in campo oggi.
Il mio intervento punta ad offrire elementi di riflessione attorno alla
questione dei fondamenti e dei criteri dell’agire formativo oggi nella Chiesa,
in particolare nell’ambito della vita consacrata. Mi esprimerò con semplicità,
cercando di far parlare l’esperienza. Parlerò con semplicità e anche per
l’esperienza che ho maturato io stesso in questo campo.
Mi muoverò in una prospettiva evangelica – purtroppo molto stemperata nella
nostra coscienza moderna – prospettiva che riguarda la responsabilità del
generare alla fede, dell’essere padri e madri nella fede. La formazione nella
Chiesa parla prima di tutto di questo. La domanda, a tratti angosciosa che oggi
ci si pone, suona: perché l’esperienza della fede non suscita più impegni
duraturi? Cosa è venuto meno? Sembra infatti che la sensibilità attuale non sia
più disposta a riconoscere che ci si possa impegnare per qualcosa di duraturo,
perché costituirebbe un ostacolo alla realizzazione di se stessi. Come
immaginare in tale contesto una vera passione apostolica? Un impegno per tutta
la vita?
Ritornare al vangelo
La dimensione spirituale risponde all’urgenza di allargare gli orizzonti del
cuore, al fine di riscoprire il senso vero del vivere cristiano. Si tratta cioè
di ritornare a percepire la vita nello Spirito, ad accoglierla, ad assecondarla
nel nostro vivere quotidiano; si tratta di tornare a vivere quello splendore che
Gesù ci ha rivelato. La vita spirituale non riguarda lo sforzo nostro di
acquisire qualcosa, ma rimanda piuttosto all’accoglienza, alla scoperta di un
dinamismo che muove e impegna in una relazione. Allude a un “vigore”, un
“calore”, un “principio vitale”.
La vita spirituale si gioca sostanzialmente in rapporto a tre cose:
1. - la rivelazione del mistero di Dio. In primo piano non sta mai il
riferimento a noi, ma a ciò che ci viene da Dio. L’intelligenza spirituale della
Parola presiede alla conoscenza dei dinamismi del cuore e all’impegno nel bene
per e con i fratelli;
2. - la collaborazione con Dio perché si realizzi il suo sogno di stare in
comunione con gli uomini, condividendo i suoi segreti e i suoi sentimenti verso
i suoi figli. Di quel “sogno” è intessuta la vita del Signore Gesù e di quel
“sogno” parlano i nostri aneliti più profondi. L’azione nostra si situa come
risposta a una “presenza” più che come volontà di avere ciò che ci prefiggiamo;
3. - la realizzazione della vocazione all’umanità. Nasciamo uomini, ma dobbiamo
diventare umani, conforme al volere di Dio, secondo il suo progetto, radicati in
Gesù. È l’invito a custodire e coltivare il giardino del proprio cuore come
Adamo era chiamato a fare nel paradiso terrestre.
Punto fermo da non perdere di vista è che lo spirituale non è una sovrastruttura
che si aggiunge a quello che san Paolo chiama “corpo psichico” (cfr. 1Cor
15,44). È una realtà di radice, costitutiva del cuore dell’uomo che vive del
rapporto col suo Dio. Sembra però che la percezione di questa realtà si sia
molto affievolita nella coscienza degli stessi credenti e ciò contribuisce non
poco a rendere irrilevante la proposta cristiana nella sua specificità. In una
parola, fa difetto la dimensione spirituale nell’agire ecclesiale.
Attorno a questa constatazione, cercherò di proporre le mie riflessioni in due
tempi: prima di tutto, nel presentare una radiografia della situazione di oggi
tenendo insieme i bisogni dei cuori e lo stile della formazione, e poi
nell’indicare le possibili vie di uscita.
L’ “oggi” e le sue sfide
Nella sua recente conversazione con Peter Seewald, Benedetto XVI notava che «la
nuova generazione ecclesiale è diversa, più positiva rispetto a quella di
rottura degli anni ‘70». I tempi sono effettivamente cambiati, e tuttavia c’è da
domandarsi se questo atteggiamento più positivo, là dove si riscontra,
significhi anche che la fede, così come è vissuta e percepita, sia capace di
incidere profondamente nel vissuto reale delle persone. Non credo che si possa
affermare. Se consideriamo il movimento di emancipazione dal principio di
autorità tipico del pensiero moderno, mi pare che l’atteggiamento di fondo
dell’uomo d’oggi, alla ricerca di un senso della vita, possa essere descritto in
questi termini: si è passati da un perseguire la verità per non fallire la
felicità, a un perseguire la felicità a costo della verità. Evidentemente la
semplificazione è eccessiva, ma rende ragione del punto in cui ci si trova: si
vuole comunque la felicità per sé, senza ancorarla a qualcosa che la
giustifichi. Ma in questo modo la felicità è davvero accessibile? Si intende
evidentemente una felicità che duri, non qualcosa di passeggero; una felicità
che soddisfi, che sia feconda, non semplicemente una somma di emozioni e di
piaceri in un continuo sfruttamento vicendevole; una felicità capace di
eternità.
Molti vuoti e i rimedi?
Parlando del peccato degli angeli, Tommaso d’Aquino afferma che non può essere
consistito nel fatto di voler essere uguali a Dio. L’angelo sa bene che Dio è
infinitamente più grande di lui, sua creatura. Il suo errore è stato quello di
voler “conseguire con le proprie forze la beatitudine ultima, il che è proprio
di Dio”. Ha voluto cioè avere il controllo di tutto e non dipendere nella sua
felicità da altri. Avere però la totale padronanza della propria vita significa
distruggere la vita nella sua innata apertura.
Tutto questo mi sembra la fotografia del panorama interiore odierno. Tanto che
fallire la propria felicità comporta sempre un giudizio cattivo su Dio, che mina
alla radice il fluire della vita rendendola ingiusta e oppressiva. Non per nulla
nelle società moderne, pervase da un’ansia angosciosa per l’insicurezza nel
perseguire l’obiettivo della felicità, ormai percepito come una specie di
assoluto, è venuta meno l’idea di Dio. Si vuole la felicità senza accettarne le
condizioni di realizzazione, che sempre ci sfuggono perché non si è più disposti
a sottomettersi alla vita. Il desiderio di realizzazione si accompagna alla
mancanza di una tensione interiore adeguata. Alla fine si desidera qualcosa, ma
non di vivere. Ci si perde in velleitarismi o in una sentimentalità vacua.
Quanto è distante dal sentire moderno l’atteggiamento evangelico, così
tipicamente francescano, della sottomissione dolce e libera a tutto e a tutti!
Del resto, credo vada riconosciuto che il “secolarismo” imperante, di per sé,
non è negazione di Dio, ma della creatura. L’eterno serpente tentatore, sempre
all’opera nelle sue suggestioni illusorie, rivela all’uomo tutte le sue
potenzialità (“Sarete come dèi”, cfr Gn 3,5), ma gli nasconde con ciò stesso il
suo limite ontologico. La ragione profonda dell’angoscia moderna deriva da qui:
voler prendere da sé qualcosa che invece ci può essere solo donato.
Penso che la sensibilità culturale moderna, nel suo complesso, manchi proprio
delle due caratteristiche che costituiscono i segnali della buona salute dello
spirito: la gioia (la gioia della salvezza e la salvezza che è gioia) e l’
umiltà. E a me pare che la formazione religiosa, quando prende in carico le
persone che già si ritrovano ferite dalla vita o comunque arruffate
interiormente, invece di favorire l’acquisizione di quelle due caratteristiche,
si perda nell’illusione di voler risolvere i problemi piuttosto che insegnare a
viverli cercando il Regno di Dio, come invita il vangelo. La tendenza
rivendicativa della sensibilità odierna è proprio il male di fondo che va
guarito con l’accompagnamento a una vera esperienza di incontro col Signore
Gesù.
Due difficoltà di fondo
Rilevo due difficoltà di fondo, oggi, nell’approccio alla vita, di cui un
cammino formativo deve rendere ragione:
1. - Invece che accogliere preferiamo voler scegliere, anche se illusoriamente.
Invece di rapportarci a una realtà significante, già portatrice di “logos”,
preferiamo disporre a piacimento di realtà materiali neutre, confezionandocele
su misura. Si pensi alla questione del “genere”, oggi così dibattuta. Così, non
si deduce la morale dalla fedeltà a una realtà, ma si fissa la realtà in base a
una propria morale. La centralità del soggetto, vera conquista della modernità,
è così vissuta a partire da desideri rivendicati o pretesi; il che mi sembra la
via migliore per fallire la propria felicità, come si può costatare ampiamente
nella società di oggi. Di qui deriva anche la debolezza nel percepire l’esigenza
della fedeltà, tanto che oggi dovremmo educare non semplicemente alla fedeltà,
ma a riconoscere e vivere i processi di fedeltà in modo da imparare a diventare
fedeli nelle varie situazioni della vita, in modo da trasformare le difficoltà
in opportunità e risorse per una vita più autentica.
2. - Invece di aprirci al mistero vediamo solo problemi con l’illusione di
poterli prima o poi risolvere. Siccome però la vita è insidiata dalla morte, che
non si può risolvere ma solo posticipare o al massimo anticipare, viviamo
angosciati e fuggenti. Preferiamo un’impostazione funzionale, tipica di una
mentalità scientifica, anche a livello interiore e perdiamo il senso dell’agire.
Ogni evento triste, ingiustizia, offesa, delusione, si traduce in lamentela,
dentro un ingorgo emotivo insuperabile, invece che costituire segnali per la
propria conversione. C’è uno spreco enorme di risorse costruttive. La lamentela
è lo spazio di morte nel quale indugiamo, impedendo al nostro cuore di vivere
nell’amore esattamente là dove si trova.
Paradossi significativi
Alcuni nodi sono significativi e paradossali, possiamo farne qualche elenco.
La cultura parla di libertà, di affermazione; la fede di obbedienza, di
sottomissione. Perché il discorso sull’obbedienza oggi sembra eclissato? Eppure
non si può vivere la fede se non dentro un’obbedienza, riscoperta però nella sua
dimensione rivelativa evangelica per la vita.
La cultura parla di diritti, di uguaglianza. La fede parla di amore, di
dedizione, di comunione. Ad esempio, la nostra cultura odierna non può non
essere contro la famiglia perché la famiglia, quella di un uomo e di una donna
aperta ai figli, smaschera il male indotto da una teorica uguaglianza
contrabbandata come dovere assoluto per la società. L’amore è assenza di
comparazione, esige il coinvolgimento esperienziale delle persone, mentre
l’uguaglianza è perseguita sul livellamento delle differenze. È il prevalere
della teoria sulla concretezza dell’esperienza.
La cultura, la scienza vogliono offrire certezze, mentre la fede offre solo
verità. Le certezze riguardano l’ordine funzionale del vivere, mentre le verità
riguardano l’ordine del cuore, dentro relazioni interpersonali significative. La
questione affettiva si svela qui in tutta la sua drammaticità: si vorrebbe
essere sicuri di un amore, mentre la verità dell’amore pesca nella fiducia,
umile e tenace.
Nella nostra società, all’individuo è richiesta una fatica incredibile per
arrivare al successo nei vari campi, mentre per la felicità si suggerisce la via
facile e a buon mercato. Non si è più abituati alla fatica della lotta, tanto
che il principio di fedeltà ha perso molto del suo lustro, con la conseguenza
che tutto appare effimero e inconsistente.
Se dovessi riassumere le paure di fondo dal punto di vista spirituale, direi che
oggi le persone, i giovani in particolare ma non solo, hanno paura di restare
fregati da Dio, dalla Chiesa, dalla fraternità, dagli uomini; e poi hanno paura
del futuro. Le due paure non hanno a che vedere solo con le contingenze tipiche
del nostro tempo, sebbene queste ultime contribuiscano a fomentarle. Alla base
della prima paura rilevo lo sguardo di non benevolenza, di disprezzo di sé e la
diffidenza verso la vita, che derivano da una cattiva immagine di Dio – come del
resto tutte le parabole di Gesù rivelano – e che si traducono sovente in
arroganza e aggressività. Dopo duemila anni di cristianesimo siamo ancora alle
prese con la difficoltà a percepire e assimilare la letizia del lieto annuncio
evangelico, il cuore della rivelazione di Gesù. Nella seconda paura rilevo
l’incapacità di vivere la vita da dentro un’alleanza, perché percepita come un
dipendere dagli eventi a noi esteriori ma che hanno presa su di noi. Più l’uomo
cerca la sua felicità ad ogni costo, più resta in balia delle sue ossessioni.
Sul versante della formazione
Dal punto di vista della formazione religiosa, posso esprimere questi nodi
dicendo che si confonde facilmente il livello psicologico e quello spirituale,
confusione che rivela la difficoltà di percepire la natura dell’esperienza
cristiana che è essenzialmente escatologica. Il rischio grosso è quello di
vivere “mondanamente” la dimensione religiosa o di condurre una pratica
religiosa in modo mondano. Il cuore così non scopre nessun tesoro, non riesce a
godere e finirà per esaurire le sue risorse cedendo a quello che le Scritture
sono solite chiamare “mormorazione”: si finisce per accusare Dio che non è
capace di adempiere le sue promesse. Così l’impegno della conversione o della
sequela si spompa e ci si sente in diritto di cercare altro o in altro modo.
Non va dimenticato che la potenza di rivelazione delle parole e dell’agire di
Gesù non riguarda la denuncia del mondo nella sua ostilità a Dio (questo è
scontato!) ma lo smascheramento della mondanità nel vivere la sequela. Il che
significa che se vogliamo che la fede renda luminosa la nostra esistenza occorre
accoglierla senza condizioni, proprio come si vive la realtà di un grande amore.
Sembra invece di essere in diritto di vivere la sequela del Signore con un amore
provvisorio, parziale, condizionato.
Sono due i presupposti di questa accoglienza in-condizionata, che il percorso
formativo dovrà illustrare in tutta la loro radicalità. Li rammento con due
citazioni evangeliche, anche perché non riguardano specificamente la vita
consacrata, ma la possibilità stessa di una autentica esperienza evangelica:
1. - la radicale dipendenza da Dio libera dalla dipendenza reciproca: “Come
potete credere, voi che ricevete gloria gli uni dagli altri, e non cercate la
gloria che viene dall’unico Dio?” (Gv 5, 44). Siamo sicuri che nel cammino di
fede intrapreso e perseguito adoriamo Dio e non invece l’idolo più grande? A
giudicare dagli entusiasmi effimeri e dalle pretese affettive camuffate si
direbbe che i cuori si accontentino più di servirsi di Dio che di servire Dio.
Dovremmo mostrare con la nostra vita che l’obbedienza genera la libertà.
2. - essere nel mondo, ma non del mondo (cfr. Gv 15,19; 17,11). La fede ha a che
fare con la scoperta del Regno nell’agire quotidiano, nella trasparenza del
quotidiano. Insegniamo questo ai giovani nel cammino della loro maturazione e
nella vita fraterna e ecclesiale? È caratteristico che i giovani oggi esprimano
le loro potenzialità migliori nel viaggiare (giornate della gioventù, esperienze
missionarie, pellegrinaggi). Questo può anche far intraprendere percorsi di vita
significativi, ma una volta attivati i percorsi di vita, quando l’intensità
emotiva scema, sono educati alla percezione del mistero del regno dei cieli
nella loro vita quotidiana? Risulta essenziale tornare ad educare alla
percezione del mistero del Regno.
Prigionieri del passato?
Potrei riassumere il tutto in una affermazione di Paolo a proposito del giudizio
dell’uomo spirituale: “Ora, noi non abbiamo ricevuto lo spirito del mondo, ma lo
Spirito di Dio per conoscere ciò che Dio ci ha donato. Di queste cose noi
parliamo, con parole non suggerite dalla sapienza umana, bensì insegnate dallo
Spirito, esprimendo cose spirituali in termini spirituali. Ma l’uomo lasciato
alle sue forze non comprende le cose dello Spirito di Dio: esse sono follia per
lui e non è capace di intenderle, perché di esse si può giudicare per mezzo
dello Spirito. L’uomo mosso dallo Spirito, invece, giudica ogni cosa, senza
poter essere giudicato da nessuno. Infatti chi mai ha conosciuto il pensiero del
Signore in modo da poterlo consigliare? Ora, noi abbiamo il pensiero di Cristo”
(1Cor 2,12-16).
Mi sembra che non crediamo neanche più di essere in grado di pensare in tal
modo, se non disgraziatamente nella scomposta presunzione di essere superiori
agli altri (cosa non inusuale nella Chiesa!), il contrario di quella
gioia/umiltà che caratterizza l’annuncio evangelico.
Troppo spesso il vangelo è letto come ideale, non come radice della vita.
Puntiamo all’entusiasmo, che però dipende dagli ideali e troppo poco
sull’intelligenza spirituale, che attinge invece alle radici. Così manchiamo di
quell’armonia e modestia che sono necessarie per vivere la propria vita e non
arriviamo mai alla saggezza del cuore, vero spazio per la fraternità. Perché
dipendiamo sempre dal passato, dalle nostre ferite, come se dovessimo salvarci
da noi stessi, e non restiamo aperti al futuro, alla promessa di Dio, alla gioia
dell’essere invitati comunque alla tavola di Dio?
Quali formatori?
D’altra parte, a fronte della formazione come vedo che viene impartita, uno dei
rischi che mi sembra di poter segnalare è quello di demandare la responsabilità,
come succede un po’ in tutti gli ambiti preposti all’educazione: famiglia,
parrocchia, scuola, ecc. Sembra logico defilarsi rispetto alla presa in carico
delle persone con l’affidarsi ai vari “esperti” nei diversi ambiti. Occorre
invece costituire e vivere un unico ambito educativo, giocando lì la nostra vita
e non semplicemente svolgendo un ruolo. Solo da dentro questo unico ambito
educativo può essere efficace la collaborazione con tutti coloro che hanno
qualche titolo per intervenire nei vari aspetti che interessano la crescita
delle persone.
Le persone hanno bisogno di vedere che la presa in carico è totale, nel senso
che ciò che viene insegnato fa parte del mistero comune della vita. Se è
difficile morire a se stessi, vederlo incarnato nelle persone che ci
accompagnano e ci guidano è il solo modo per imparare a farlo. Il vedere che la
potatura dà frutto, porta vita, è assolutamente necessario coglierlo nei nostri
accompagnatori. Se gli uomini che ci guidano tolgono se stessi per fare spazio a
Dio, allora suscitano la fiducia. Se si vive secondo Cristo molti problemi
decadono sia a livello personale che comunitario. L’importante è non camuffare,
non coprire, non nascondere, non aver paura.
Purtroppo nella chiesa non si bada sufficientemente al fatto che si possono
vivere mondanamente gli ideali più belli con la conseguenza di non riuscire mai
ad affascinare per davvero i cuori. Ho l’impressione che si finisce di parlare
di maturità umana, di maturità affettiva, come del miraggio dell’acqua a un
assetato nel deserto.
Se l’amore del Signore non coinvolge le nostre risorse più creative, come
educare ad amare? Pensiamo alla diversità di coinvolgimento emotivo incluso
nelle espressioni: “fare la carità” e “fare l’amore”. Non ne siamo in qualche
modo responsabili per aver banalizzato o annacquato l’esperienza cristiana?
Sono da tener presenti pure le difficoltà inerenti alla stessa organizzazione
della vita consacrata nella Chiesa, difficoltà che non di rado opprimono i
cuori, anche inconsapevolmente. Penso, ad esempio, alla non chiarezza che si
riscontra nella tendenza a equiparare la volontà della fraternità alla volontà
di Dio per coloro che si consacrano: hanno sentito la voce di Dio e si ritrovano
a fare i conti con la voce degli uomini. Fatta la tara alle proiezioni
sentimentali personali, resta pur sempre la questione del porre nei giusti
termini la mediazione umana che, se non è colta in una dimensione spirituale
adeguata, diventa fonte di delusioni e di calpestamenti.
Possibili vie di uscita
Quando Dio ha creato l’uomo, l’ha posto in un giardino, nel paradiso terrestre
“perché lo coltivasse e lo custodisse” (Gn 2,15). La terra di quel giardino
allude alla terra del cuore; coltivare il giardino significa coltivare la terra
del cuore, significa coltivarsi. Il problema della formazione è come coltivare
il proprio giardino interiore, e questo richiede lavoro e anche fatica.
Imparare a fare i conti con la fatica
Il lavoro e la fatica non appartengono al peccato, perché lo precedono;
appartengono al nostro vivere umano, allo sviluppo, alla realizzazione di quello
che si è ma non si è ancora rivelato. L’uomo è chiamato a passare da essere
semplicemente individuo a diventare persona e questo non viene da sé. Anche la
libertà a cui siamo chiamati ha bisogno, per realizzarsi, di un lavorio costante
e fecondo. Si tratta della specifica vocazione a diventare umani. Uomini si
nasce, ma umani si diventa. L’uomo, a differenza di tutti gli altri esseri, ha
questo di singolare: per diventare se stesso è chiamato a trascendere se stesso.
Il cane non fa fatica ad essere cane; per l’uomo non è così. Lo si può spiegare
come si vuole, ma questa esigenza è insopprimibile.
Nell’esperienza cristiana si realizza la propria vocazione a diventare umani,
attraverso la pratica dei comandamenti di Dio. Proprio i comandamenti vanno
letti nell’ottica della realizzazione di quella vocazione all’umanità che
costituisce la somiglianza con Dio e che comporta l’esperienza forte della
comunione e dell’amore vicendevole. Noi spesso leggiamo i comandamenti dalla
parte del sacrificio, della rinuncia a qualcosa, quando invece essi esprimono
ciò che ognuno porta nel più profondo del cuore come anelito di vita.
Con retto discernimento
L’urgenza educativa, allora, intesa come capacità di mediazione per coinvolgere
i cuori nella grazia della fede per vivere la propria vocazione all’umanità,
l’appunterei attorno a questi nodi.
Prima di tutto bisogna avere uno sguardo umile e gioioso sulla nostra realtà di
creature. Mi piace citare un’espressione di Florenskij a commento del famoso
passo di Gc 1,2-4: “Fratelli miei, accogliete con grande letizia ogni sorta di
prove, sapendo che la prova della vostra fede produce la pazienza; la pazienza
agisca in voi da perfezionamento, affinché siate perfetti in tutta pienezza,
senza mancare di nulla”. La pazienza si riferisce alla fatica del vivere, che
non è evitabile; ma bisogna anche vigilare perché la fatica sia quella giusta e
feconda, e non una fatica inutile, oppressiva. La vere sapienza va sempre
insieme alla modestia nell’agire. Spesso gli obiettivi sono fuori portata e non
si accettano i tempi e i passaggi adeguati. Si vive proiettati e presuntuosi,
segno della non accettazione della propria realtà di creature.
In secondo luogo bisogna saper essere strumenti di mediazione per coinvolgere i
cuori nelle dinamiche spirituali corrette, il che non è istintivo né dipende
dalla sensibilità. Si pensi all’espressione “seguire Cristo”: che cosa vuol
dire? Del Cristo non si dice che va, che parte, ma che viene. Non si tratta
allora di seguire Cristo facendo una cosa piuttosto che un’altra (es.: è volontà
di Dio che mi consacri o assuma questo compito…); si tratta piuttosto di fare in
modo che in quello che scelgo in libertà e responsabilità, o che assumo in
obbedienza, possa essere trovato in Cristo. È questo che rende santo ciò che
vivo, non il contrario, quasi che debba essere Cristo a dirmi qual è la cosa che
mi può santificare. Molti giudizi di discernimento sulla vocazione delle persone
finiscono per impedire il vero cammino spirituale nell’incontro con Cristo.
Un ascolto chiesto a dei peccatori
È sempre utile ricordare che la dinamica dell’intelligenza delle Scritture è la
medesima che presiede all’intelligenza dei cuori . A questo bisogna sapersi
educare per poi aiutare gli altri nello stesso senso. Ce lo fa vedere Gesù
stesso quando, rispondendo all’interrogativo della scriba sul prima
comandamento, cita Dt 6,4-5 e richiama tre cose.
1. - l’ascolto: “Ascolta, Israele”. Qui mi preme ricordare che, se vogliamo
davvero calare dentro il vissuto questo comandamento, non lo possiamo dissociare
dalla nostra condizione di peccatori. San Cipriano ricorda, nel suo commento al
Padre nostro, che all’invocazione “rimetti a noi i nostri debiti come noi li
rimettiamo ai nostri debitori”, la prima cosa che domandiamo non è la generosità
per essere capaci di perdonare, ma piuttosto la coscienza di essere peccatori.
Sapendoci peccatori, non avanziamo più diritti e possiamo sperimentare in tutta
la sua dolcezza il perdono di Dio; ci sentiamo solidali con tutti i nostri
fratelli e, non avendo più alcun motivo di rivendicazione, non ci separiamo più
da nessuno per nessun motivo. E così facendo restiamo nella carità di Dio per
gli uomini.
Si può capire quanto è importante questo nei processi educativi. Tutto dipende
da quell’ Ascolta! che ci porta a riconoscere l’amore di Dio proprio attraverso
la consapevolezza di essere peccatori. Al di fuori di questa logica non si
accede alla rivelazione di Dio. L’unica innocenza possibile per noi è quella di
essere perdonati. A questa rivelazione tende tutta la storia della salvezza, di
cui le Scritture portano testimonianza. Per giunta, l’eliminazione di ogni
pretesa di innocenza nei confronti di Dio purifica anche quella miriade di
pretese che abbiamo l’uno verso l’altro e che intralciano il buon corso dei
rapporti umani. Più l’uomo si scopre peccatore, meno accampa pretese verso il
mondo e gli uomini. Il cristiano si accoglie perdonato davanti a Dio, peccatore
davanti agli altri, in tutta umiltà e fiducia, con sano realismo.
Ma non da soli
2. - “Il Signore è il nostro Dio”. In evidenza non c’è un io, ma un noi. Dio
offre continuamente la sua alleanza, ma non posso avere la sfrontatezza di
pretenderla per me. Prima c’è la Chiesa, poi il fedele. Si tratta di ritrovarsi
insieme dentro questo mistero, di vivere in santa compagnia. Nell’esperienza
dell’ intimità non si entra da soli. Prima c’è un noi e soltanto dopo scopri chi
sei, cominci a scoprire che sei ciò che intuisci di poter diventare.
3. L’amore: “Tu amerai”. Alla fine viene il tu, la vocazione a vivere in
responsabilità: sei chiamato ad amare. La responsabilità si esercita dentro il
movimento di rivelazione che è stato messo in moto dall’ascolto, perché è
nell’ascolto che si entra nella comprensione del dono di Dio e delle
responsabilità che ne conseguono. Se non ci è svelato nulla di Dio, vuol dire
che il cuore non si è aperto e la grazia non ci ha toccati.
Qui è la celebrazione liturgica che entra in gioco e deve essere fatta oggetto
di verifica e di discernimento. La celebrazione liturgica ben intesa indica il
percorso di verità degli affetti: sacrificio e comunione. Non si può fare il
sacrificio di sé se non per godere la comunione con colui che si ama, e nello
stesso tempo non si può godere quella comunione, se non si accetta di
sacrificarsi. Si tratta di un passaggio – quello dal sacrificio alla comunione –
che non è automatico. E’ compito fondamentale della formazione mostrarne la
fattibilità e la fecondità secondo un sano principio di gradualità.
Educare l’intelligenza del cuore
Siamo a un altro punto che mi sembra fondamentale e che esprimerei così:
desiderare la sapienza del vangelo tramite l’intelligenza del cuore.
C’è qui tutta una serie di connessioni segrete che andrebbero evidenziate e poi
trasmesse a chi è in formazione. Con alcuni esempi: non serve volere la carità,
se non si è disposti a onorare gli altri più di quello che meritano; oppure: la
grazia non è data allo sforzo, ma all’umiltà; ancora: la purità di cuore non
deriva dal fatto di non avere pensieri cattivi, ma dal fatto di guardare con
occhio benevolo gli altri, ecc.. E poi quest’altro punto così facilmente
disatteso: l’urgenza di imparare a leggere i propri bisogni con più lucidità e
radicalità. Noi, più che della verità del nostro cuore, viviamo di “reazioni”:
traduciamo spesso in giudizi di verità le nostre reazioni, incapaci come siamo
di leggerle più in profondità, secondo la sapienza evangelica. Ad esempio,
quando mai l’ira che proviamo di fronte alle offese la sappiamo leggere in
funzione del principio di conversione per godere il mistero del regno dei cieli?
La fede che non si traduce in carità muore, e un amore che non fa presagire la
fede è destinato inevitabilmente a chiudere la persona in se stessa. Ce lo
ricorda con forza Gesù: “Chi rimane in me, e io in lui, porta molto frutto,
perché senza di me non potete far nulla” (Gv 15,5). Abbiamo troppo dimenticato
queste parole, con la conseguenza di una banalizzazione dell’esperienza
cristiana, che ha reso irrilevante la vera ragione dell’agire buono verso il
prossimo.
In secondo luogo, l’esperienza della confidenza in Dio vince ogni forma di
rivendicazione individualistica. Si può applicare qui l’affermazione del profeta
Abacuc: “Ecco, soccombe colui che non ha l’animo retto, mentre il giusto vivrà
per la sua fede” (Ab 2,4), intesa in questo modo: chi non avanza pretese e
confida davvero in Dio, non inciamperà nella vita perché non sarà in contesa né
con se stesso né con gli uomini.
L’assunzione di un compito: la missione
Perché l’interiorità non si volatilizzi in intimismo, l’esito del percorso
formativo dovrà tradursi in assunzione di responsabilità, l’assunzione cioè di
un compito che costituisce la nostra “missione” nella vita, come testimoni del
vangelo nel mondo. Questo ruota attorno a tre elementi.
1. - Il primo richiama l’annuncio che insieme abbiamo accolto. Alludo a quella
dimensione di trasbordo che porta sempre oltre se stessi, verso gli altri. Si
tratta di uno stile, un modo di pensare e di volere che si forgia per mezzo
della familiarità con le Scritture e con il respiro della grande tradizione
della Chiesa, della cui ricchezza l’accompagnatore si fa tramite.
Qui più che cercare di volere bene a qualcuno, dove bene è il complemento
oggetto del volere, si tratta di imparare a volere bene qualcuno, dove bene è un
avverbio che esprime il nostro modo di vedere e volere l’altro, proprio come fa
Dio con noi. L’accento non è posto sull’affermazione di sé, ma sulla
disponibilità a servire chi ci è affidato, come servitori e testimoni di un
mistero che ci supera e ci include: questo è il ruolo del vero accompagnatore,
da recuperare oggi in una dimensione di fede più umile.
2. - In secondo luogo lo spazio fondamentale da dare all’intercessione. La prima
forma di responsabilità nei confronti dei nostri fratelli non è giocata davanti
a loro, ma davanti a Dio: siamo rimandati al desiderio di Dio per la salvezza di
tutti, desiderio che ci è chiesto di accompagnare con la nostra testimonianza.
Senza la tensione dell’intercessione, la testimonianza si esaurirà nel fare
semplicemente delle cose per gli altri e non potrà mai far risplendere l’opera
di Dio. L’intercessione è la condizione di fondo che permette al formatore di
finalizzare ogni impegno e fatica al suo vero scopo: condurre all’incontro con
Dio. Questo induce noi accompagnatori a non mescolare mai interessi nostri
all’opera di Dio e favorisce in chi è accompagnato la ricevibilità dell’annuncio
e della testimonianza di cui portiamo la responsabilità.
Come sarebbe possibile dare il vangelo a una persona senza che questa ci diventi
cara? Solo a questo patto il nostro linguaggio saprà essere concreto, capace di
offrire una rivelazione vissuta e vivente che può suscitare una risposta, un
lasciarsi prendere dalla nostalgia di Dio, che già tutti portano racchiusa in
loro.
3. - In terzo luogo la testimonianza. Cosa è realmente in gioco nella
testimonianza cristiana? Quando Gesù invia i suoi discepoli in missione, ricorda
loro le prove che li attendono, e poi li esorta a non avere timore: temete Dio e
non gli uomini! (cfr. Mt 10,26-28). Gli uomini cercheranno di contrastarvi, ma
se non cedete alla violenza farete vedere al mondo che l’amore di Dio è più
forte e ha vinto davvero il male. Gesù non intende certo dire che verremo
risparmiati, che non subiremo violenza o morte. Vuol dire piuttosto che Dio sarà
con noi anche nella morte, e tutto verrà alla luce, anche questa realtà e questo
mistero.
Un’altra nota va fatta ancora per colui che accompagna. Le preghiere che
eleviamo a Dio Padre nel nostro servizio di accompagnamento, non si concludono
con la richiesta della carità. La tradizione insegna che la carità ha bisogno di
un custode attento e intelligente, e questo è il compito che ci è affidato. Così
vedere i propri peccati e non accusare il fratello riassume, anche per
l’accompagnatore, la forza di una santa associazione: l’umiltà della carità. In
questo si sostanzia l’arte divina del servire come accompagnatori.
Tre cose per concludere
Se, alla fine, potessi indicare gli atteggiamenti fondamentali che predispongono
a far vivere quanto abbiamo detto li descriverei così:
1. - Custodire la convinzione che il Signore accoglie tutti, ognuno per se
stesso, nella sua specificità, in tutta misericordia. La persona ha bisogno di
essere accolta integralmente e concretamente; essere disponibili a questo porta
a farsi carico di lei con tutto il cuore, in amicizia. È una disponibilità a
lavorare con Dio, il quale continuamente opera nei cuori e compie i suoi voleri
di salvezza anche là dove nemmeno si riesce ad intuirne la presenza.
2. - La mansuetudine come immagine dell’accondiscendenza di Dio verso i suoi
figli. Ci si riferisce allo sguardo di benevolenza, di pazienza e di tenerezza,
per cui la persona non si sente mai giudicata. L’esperienza insegna che
diventare amorevoli significa diventare più veri e più lucidi. Ce ne accorgiamo
anche dal linguaggio usato, più immediato e concreto, attento a collegare
l’annuncio cristiano alle esigenze del cuore, al di là di ogni strategia
psicologica.
3. - La responsabilità legata all’accettazione di un compito, il compito di
favorire la riconciliazione con Dio, con se stessi e con il mondo, in modo da
liberare in questo modo tutti gli spazi del cuore. Si tratta di imparare a
custodire la tenerezza verso l’umano nella sua trasparenza del divino senza
contrapporre o contrarre nervosamente i due poli a scapito della sanità di fondo
dell’anima.
Anticamente ci si poneva questa domanda: «Dio si sarebbe incarnato anche senza
il peccato?». La teologia greca ha sempre sostenuto che Dio si sarebbe incarnato
comunque. Perché? Perché l’uomo è creato a immagine del Verbo di Dio che si
sarebbe fatto uomo. L’umanità è fin dall’inizio ordinata alla divinità. Non ce
ne rendiamo conto e spesso lottiamo invano contro noi stessi.