Il 7 ottobre scorso a Oslo è stato assegnato il Premio Nobel per la pace 2011
ed è andato a tre donne, Ellen Johnson Sirleaf, a Leymah Gbowee e a Tawakkul
Karman. La prima è la presidente della Repubblica della Liberia, rieletta da
poco; la seconda è un avvocato e militante pacifista, presiede un’organizzazione
femminile interafricana per la sicurezza e la pace e, a suo tempo, ha promosso
uno “sciopero del sesso” che aveva costretto il regime a chiamare le donne al
tavolo delle trattative di pace; la terza è una giornalista islamica dello Yemen
ha fondato l’associazione “giornaliste senza catene” e ha significativamente
dedicato la nomination a tutti i “militanti della primavera araba”.
Queste tre donne hanno ricevuto il premio “per la loro lotta nonviolenta.... a
favore del processo di costruzione della pace”. Sono tre persone dei cosiddetti
paesi emergenti e si segnalano per essere donne che, pur dentro culture e
tradizioni maschiliste, fanno politica in modo diverso e praticano la non
violenza nella ricerca della giustizia e della pace. Non possiamo non essere
contenti per questa scelta che, pur non essendo quel “Nobel alle donne africane”
che molte organizzazioni avrebbero voluto, è tuttavia in linea con quella
speranza: «L’assegnazione di questo riconoscimento ci riempie di gioia e siamo
pieni di entusiasmo per questo Premio che è stato deciso all’unanimità dal
Comitato di Oslo», hanno detto Guido Barbera, presidente di Solidarietà e
Cooperazione (CIPSI) ed Eugenio Melandri, coordinatore di «ChiAma l’Africa» che
hanno promosso la Campagna NOPPAW (Nobel Peace Price for African Women) per
attribuire il Nobel per la pace a tutte le donne africane. Questo Nobel
rappresenta, secondo le intenzioni del Comitato che lo assegna, «un
riconoscimento del rafforzamento del ruolo delle donne», perché «non possiamo
raggiungere la democrazia e una forma di pace duratura nel mondo, se le donne
non possono ottenere le stesse opportunità degli uomini nell’influenzare lo
sviluppo della società a tutti i suoi livelli».
Idealmente premiate tutte le donne
Anche se il Nobel per la pace non è stato assegnato alle donne africane, come
speravano il NOPPAW e altre organizzazioni, si è trattato tuttavia di una scelta
molto valida. In questi anni recenti abbiamo visto vari Premi Nobel “per la
pace”, alcuni esemplari, altri discutibili, ma in generale, tolta qualche
eccezione (ad es. Madre Teresa di Calcutta) si è trattato di negoziatori dietro
i quali non c'era sempre una seria ricerca della pace e un chiaro rifiuto della
guerra. Questo Nobel, invece, premia – meritatamente – non solo queste tre
donne, ma idealmente anche tutte le donne dei paesi emergenti, dell’Africa e del
Terzo mondo, per il loro quotidiano impegno per la pace! Dato alle donne, questa
volta appoggia una comprensione nuova, più ampia e più vera, della pace. Pace
non significa più soltanto assenza di guerra, ma anche impegno per la
riconciliazione, per lo sviluppo, per i diritti umani, significa cura della
famiglia e della comunità, salvaguardia dell’ambiente, prevenzione della salute,
gestione intelligente e lungimirante dell’economia delle piccole imprese, del
microcredito e di tutte quelle realizzazioni che dobbiamo alle donne africane.
La campagna NOPPAW, oltre al successo insperato, ha contribuito a far
comprendere che le donne africane sono portatrici di speranza e di pace e, anche
se non ha raggiunto l’obiettivo prefissato, ha comunque contribuito a far sapere
che “l’Africa cammina con i piedi delle donne” e che sono le donne quelle che
portano l’Africa sulle spalle. Per questo è vero che questo Nobel ha il volto di
tutte le donne e in particolare delle donne africane.
La donna africana protagonista nascosta
Chi conosce l’Africa, sa che la donna africana è una protagonista nascosta, ma
insostituibile, di questo mezzo secolo d’indipendenza, segnato da grandi
speranze e da cocenti delusioni. Se l’Africa non è sprofondata nella miseria, ma
continua ad andare avanti, malgrado tutte le disgrazie che le sono cadute
addosso, malgrado le guerre, le malattie, le carestie, malgrado il diffuso
malgoverno, questo è dovuto, in gran parte, alla tenacia delle donne, al loro
amore e al loro impegno per la vita. Questa non è retorica. Noi missionari siamo
testimoni che la salvezza dell’Africa non viene dai governanti africani che
troppo spesso vendono e svendono la loro terra a chi la saccheggia
nell’indifferenza e con la complicità del resto del mondo. Non viene neppure
dalla classe intellettuale che troppo spesso vive sognando di lasciare la
propria patria per andare altrove in cerca di libertà e riconoscimenti che non
trovano a casa propria. La salvezza dell’Africa e dei suoi figli viene dalle
donne africane che rimangono fedeli alla loro missione di custodi della vita e
della famiglia, troppo spesso, testimoni della sua distruzione, dalle madri di
famiglia che non abbandonano la casa, i figli e gli anziani, quando la casa
brucia o la terra è invasa da persone senza legge e senza cuore. L’Africa la
salvano le madri che continuano a lavorare una terra, che non è mai loro, per
trarne il sostentamento per la famiglia, che allevano i figli propri e altrui,
che sfidano le bande armate e che affrontano la violenza, anche quella che più
le umilia, e che resistono inermi anche quando tutti se ne vanno. L’Africa la
salvano quelle madri che, finita l’emergenza, sanno ancora trovare i cammini del
perdono e della riconciliazione affinché la vita continui, quelle madri che non
hanno paura di scendere in strada – spesso a rischio della vita – per chiedere
giustizia e pace e un futuro per i loro figli e fratelli. In questi anni
terribili, sono state le donne che hanno salvato la speranza in Africa e saranno
ancora loro, le donne africane che, se ci sarà finalmente quel “rinascimento
africano” che tutti auspicano, faranno camminare il continente verso il futuro.
Premiato il “genio femminile”
La “sapienza dolorosa” delle donne produce una nuova cultura, fatta di tenacia e
di difesa della vita e della pace. Nel mondo che chiamiamo civile, ha scritto
Giancarla Codrignani, in Mosaico di pace, «nonostante l'incapacità di
controllare egoismi, istinti predatori, sete di potere, le donne restano ancora
incapaci di accettare fino in fondo l'irrimediabilità della violenza, che
conoscono fin troppo bene sul loro corpo». In Africa, invece, esse hanno dato
prova di resistenza passiva alla violenza e si sono impegnate per salvare la
vita e costruire un futuro.
Potremmo chiederci dove trovano questa energia. Giovanni Paolo II (in Mulieris
dignitatem) l’ha chiamata il “genio femminile”, la capacità della donna di
vedere lontano, di prevedere e provvedere, di accogliere, far crescere e
promuovere la vita, ogni vita, non solo quella umana, la sua capacità di
ascolto, di empatia e di sensibilità per ogni persona, la sua capacità di
trasformare anche la sofferenza in dono per la vita. Questa è la forza
dell’amore deposta da Dio in ogni donna. Quando poi il genio femminile si
incontra con la fede cristiana, allora le donne africane diventano anche le
colonne delle comunità cristiane, a volte più resistenti di coloro che sono
ordinati per questo ministero.
Infine, un’ultima considerazione. In questo Nobel vorremmo vedere incluse anche
le molte suore missionarie, donne di Dio, che in quest’ultimo secolo e mezzo
hanno consacrato e spesso anche sacrificato la vita per la promozione della
donna nel Terzo Mondo e che sono state fedeli alla scelta di stare accanto alla
donna in nome di Gesù Cristo. Hanno messo a disposizione il loro “genio
femminile” e tutte loro energie, l’intelligenza e il cuore per lo sviluppo umano
e spirituale di questo continente. Se il pensiero va subito a quelle suore
missionarie che hanno sigillato nel sangue la loro scelta vocazionale, come sr.
Leonella Sgorbati o Annalena Tonelli, ricordiamo anche tutte quelle religiose
che silenziosamente spendono la loro vita accanto alle madri e ai bambini e alle
famiglie, che danno tutta la loro vita per lo sviluppo integrale dei paesi
emergenti, in Africa e altrove. Quando mai ci sdebiteremo con loro? Ci sarà un
Premio Nobel per loro?