Jean-Noël Bezançon sacerdote e parroco nella diocesi di Créteil, ha insegnato
per vent’anni all’Institut catholique di Parigi ed è dal connubio di queste due
competenze che nasce un attuale riflessione attorno ad un tema il cui dibattito
ecclesiale non è ancora terminato.
L’autore affronta la questione della celebrazione eucaristica in quanto fonte e
culmine della liturgia, ma anche anima di ogni comunità cristiana, attorno alla
quale i credenti ritrovano la propria identità.
Come si sa, ormai da qualche anno, Papa Benedetto XVI ha concesso la possibilità
di celebrare l’eucaristia secondo il rito tridentino di s. Pio V. Anche alcune
personalità del mondo ecclesiale come, per esempio, il card. Médina Estévez
prefetto emerito della Congregazione per il Culto Divino e la Disciplina dei
Sacramenti sostengono che la non abrogazione dell’antico rito rende ancora
valida la sua celebrazione. Di contro, non pochi liturgisti sostengono invece
che Paolo VI ha riformato il medesimo rito.
Reagire ai silenzi e reticenze
Non c’è dubbio che a 50 anni dal Vaticano II sono calati silenzi e dubbi sulle
ragioni profonde della riforma liturgica. È questo il punto di partenza
dell’autore, il quale esprime così le motivazioni che lo hanno spinto a scrivere
quest’opera: «alcuni si sentono autorizzati, con articoli o opuscoli destinati a
seminare il dubbio nelle comunità cattoliche, a denigrare questo “nuovo” rito
giungendo persino a calunniare i presbiteri e le assemblee che lo usano nella
preghiera». E continua: «Le pagine che seguono vogliono reagire a questo dubbio
che si insinua come un veleno nelle vene della chiesa da qualche decennio. Non
per attaccare qualcuno ma per rendere grazie al Signore per questo dono fatto
alla nostra epoca: la messa ritrova in verità, la messa di sempre, questa messa
che amiamo. Prendersela con questa messa è prendersela con la chiesa che ne ha
fatto la sua preghiera e, dunque, la sua identità» (p. 9-10). Un intento
dichiaratamente teologico e pastorale, ancorato al cammino della Chiesa del
Vaticano II.
La messa tra sacro e profano
Il libro non è una spiegazione del rito della messa di Paolo VI. Molto di più, è
la focalizzazioni su alcuni pilastri che costituiscono un continuum con la
tradizione della chiesa lungo la sua storia secolare. Chiarito l’obiettivo della
celebrazione eucaristica che è la gloria di Dio (p. 13), Bezançon fonda le sue
riflessioni su alcune informazioni basilari della storia della celebrazione
eucarista, le cui radici risalgono alla tradizione ebraica, in particolare
sinagogale. Il suo, non è un intento di archeologia liturgica ma è un
interessante prospettiva metodologica che aiuta il lettore a cogliere la
struttura essenziale della messa, rispetto alle tante sfumature che si sono
costruire lungo i secoli.
La messa non è il luogo del sacro e del sacrificio. L’autore esprime con forza
una tesi che contrasta una certa tendenza di non pochi cristiani: Il ritorno
alla lingua latina, a una lingua non più parlata, “l’orientamento verso Dio”,
una certa ipersacralizzazione del santuario e di coloro che vi agiscono. Tutte
queste forme e richieste, pur rispettabili nel loro intento, appaiono molto
ambigue e nascondono una interpretazione nettamente sbagliata del mistero
eucaristico (pp. 70-76). Un capitolo intero è dedicato al rapporto lingua e
silenzio. Dio non è forse poliglotta? – polemizza l’autore – e non leggiamo nel
giorno della Pentecoste un multiforme presenza di lingue comprensibili dallo e
nello spirito? Per poter partecipare all’Eucaristia è necessario comprendere e
la lingua deve essere messa al servizio del “svelamento” del mistero, non del
suo contrario.
Una messa per tutti
L’autore si sofferma, infine, su una dimensione altrettanto importante ma che
rischia di essere relegata a pura teoria: l’essere popolo di Dio. La messa è per
tutti e non va rinchiusa ad un élite o circolo privato. Scrive Bezançon «’Tutti’
ha detto Gesù. La messa riguarda tutti, e non solo alcuni, gli specialisti che
vi sono consacrati al posto di altri. Qui c’è uno dei più significativi recuperi
della riforma liturgica voluta da Paolo VI: la messa smette quindi di essere la
preghiera del solo presbitero (che poteva dire: “la mia messa”) a cui i fedeli
erano invitati ad assitere, al meglio a partecipare, per ridivenire l’eucaristia
di tutto il popolo di Dio» (p. 117). Condividere il medesimo pane e parlare di
un medesimo corpo: condizione essenziale per costruire la chiesa cattolica,
nella sua tradizione vivente.