Leggendo un titolo come questo, si rischia la noia, se non la nausea. Quante volte ormai, sotto forme diverse, l’abbiamo visto sulle nostre riviste! Eppure, quando ci pensiamo, esso si rivela necessario, nuovo e stimolante. Certo, ogni istituto, in occasione di un capitolo generale, si chiede quale sia la sua partecipazione alla missione della Chiesa. Pur convinti che la missione di un istituto di vita apostolica non sia diversa da quella che la Chiesa ha avuto da Gesù Cristo, sappiamo che ciascun istituto è chiamato ad assumerne un aspetto particolare. È proprio questo il carisma, il dono specifico di ciascuna realtà ecclesiale all’interno della “comunione dello Spirito Santo”: richiamare alla Chiesa intera i vari aspetti di quella missione che è di tutti e che è stata affidata ai discepoli attraverso diversi mandati. C’è chi ha ricevuto il carisma di proclamare il Vangelo del Regno a tutti i popoli (cf. Mt 28,19; Mc 16,15); chi d’essere testimoni del Risorto (cf. Lc 24,46-48; At 1,8); chi di essere agente di riconciliazione (cf. Gv 20,21-23), di comunione e di perdono (Mt 18,21ss); chi ha avuto il dono di assistere e curare gli infermi e far rientrare in comunità gli esclusi (cf. Lc 10,1-9); chi di essere luce del mondo e sale della terra, particolarmente nella formazione della gioventù (cf. Mt 5,13-16); chi di manifestare l’amore di Dio apparso in Cristo e di costruire la “civiltà dell’amore” attraverso la carità fraterna vicendevole (cf. Gv 13,34-35). Riflettere sugli ambiti vecchi e nuovi dell’evangelizzazione del mondo permette di verificare e attualizzare la missione propria di ogni istituto in questo mondo d’oggi che sta cambiando sotto i nostri stessi occhi, in questa transizione epocale i cui tempi difficilmente riusciamo a cogliere, anche perché essi si susseguono l’un l’altro con estrema rapidità.

Una missione che richiede forme nuove


La missione affidata alla Chiesa dal Figlio nello Spirito (Gv 20,21) viene dall’amore del Padre, sorgente dell’amore e della vita (AG 2) e consiste nel comunicare l’amore del Padre per il mondo che egli vuol riportare alla comunione della sua famiglia trinitaria. La Chiesa, Corpo di Cristo e sacramento universale di salvezza, permette al suo Capo invisibile, di essere visibile e di agire nella storia. Nella Chiesa ogni istituto di vita religiosa apostolica partecipa alla missione che viene da Dio (missio De»), anche se non la esaurisce e non la monopolizza, dato che Dio è più grande della sua Chiesa e ha anche altre strade straordinarie (LG 16 e GS 22) per raggiungere e salvare tutti: questa è, infatti, la sua volontà (1Tm 2,4).
In questa missione immutabile, ciò che va messo sempre a punto secondo la variazioni del tempo, è la maniera di agire di ogni istituto il quale deve attualizzare il suo carisma e armonizzarlo con quello degli altri dentro il progetto missionario della Chiesa. Molti sono stati i modelli di missione che si sono succeduti nel tempo, da quello della missione per irradiazione proprio della Chiesa dei primi tempi a quello della missione ad gentes fino a quello del dialogo ecumenico e interreligioso che è in corso oggi. Così pure molti sono stati i paradigmi della missione intesa come mediazione di salvezza, ricerca della giustizia, predicazione del Vangelo, contestualizzazione del Vangelo, liberazione, inculturazione, testimonianza ecumenica comune, ministero di tutto il popolo di Dio, testimonianza rivolta ai membri di altre fedi, teologia, come azione di speranza . Potremmo aggiungere un altro paradigma, missione come riconciliazione, presentato al Congresso missionario mondiale di Atene del maggio 2005.
La missione di un istituto religioso, immutabile nel suo contenuto, deve sempre adattarsi al mondo d’oggi. È importante sottolineare quest’oggi, perché la missione deve riferirsi al mondo d’oggi e non a quello del Fondatore, vissuto in un’epoca diversa dall’attuale. In questo senso, una volta identificato il carisma, è importante distinguere i tempi per non cadere in forme di fondamentalismo, applicando all’oggi, risposte pensate per un tempo che non c’è più.

Il quadro del nostro tempo


Per stabilire le sfide e gli orientamenti della vita religiosa del futuro, la prima preoccupazione deve essere di contemplare con gli occhi di Gesù e di ascoltare con il suo cuore il mondo d’oggi e di intuire in quale direzione esso si sta dirigendo lasciandosi guidare dalla compassione di Gesù al momento di decidere come rispondere alle attese del mondo.
Quali sono i tratti caratteristici del mondo che ci sta attorno? La prima caratteristica, almeno per quello che riguarda l’Occidente, ma anche i cosiddetti paesi emergenti, è il cambiamento rapido e profondo. “Non c’è niente di più sicuro del cambiamento”, dice uno slogan pubblicitario. Il cambiamento è la nota caratteristica del nostro mondo. Esso è così rapido e frequente che si può vedere solo quando si guarda indietro per contemplare il recente passato. La caduta del muro di Berlino, fine dello scontro tra le grandi ideologie del secolo scorso («la guerra fredda»), lo sviluppo tecnologico soprattutto nel campo informatico, la fine della modernità e delle sue certezze, l’evoluzione postmoderna dei costumi con la caduta dei valori tradizionali e l’emergere di un nuovo modo ethos, hanno impresso al nostro mondo una serie di cambiamenti non ancora conclusa. La novità di oggi non sono però i cambiamenti, cui in questi ultimi sessant’anni ci siamo abituati, ma la loro accelerazione.
Oggi il processo di secolarizzazione sta facendo cadere certezze che hanno formato le generazioni passate; la globalizzazione, se avvicina i popoli e permette loro di comunicare con straordinaria rapidità, mette in moto, tuttavia, processi di esclusione che aggravano la condizione dei poveri, fanno crescere la violenza ed erodono i valori delle culture tradizionali; il tramonto delle ideologie e l’affermarsi del libero mercato, la cultura del postmoderno che frammenta l’esistenza e crea solitudine e disperazione, insieme con il relativismo teologico e morale e con il pluralismo culturale e religioso del mondo, stanno sottoponendo il nostro mondo a dei cambiamenti che non è esagerato chiamare epocali. Essi appaiono insieme con le loro conseguenze anche nelle chiese locali e nella vita degli istituti di vita consacrata. “Nulla è più come una volta …” si sente dire, e con verità. Il cambiamento assume, ovviamente, espressioni diverse nei diversi contesti, ma ci sono anche delle costanti che si possono rilevare. Tra di esse sottolineiamo una forma di sfiducia nelle istituzioni sia civili che religiose, considerate responsabili della crisi attuale e sentite come un freno al suo superamento, e, nello stesso tempo, un insieme di attese e di speranze che nascono nel cuore di tutti, specialmente in chi si sente emarginato e/o dimenticato dalla società. Nelle chiese locali e nelle congregazioni religiose si parla, da tempo ormai, ma oggi con più convinzione, dell’urgenza di mettere in atto una nuova missione, una nuova evangelizzazione, nuovi metodi e forme per la missione. La coscienza della novità e dei cambiamenti richiede attenzione e discernimento per dare anzitutto un nome alle paure e alle speranze che quest’ora suscita in noi e nelle nostre comunità e per individuare, con creatività e realismo, le scelte che la missione evangelizzatrice deve fare, ma più di tutto richiede molto coraggio per cambiare abitudini secolari e trasformare, non solo assumere, la cultura d’oggi, come insegna Paolo VI in Evangelii Nuntiandi n. 20.

Le sfide e gli impegni della vita consacrata


Partendo dalla situazione attuale vogliamo individuare le sfide rivolte alla missione della Chiesa e fare alcune scelte che oggi si impongono alla vita consacrata se vuol vivere la sua dimensione apostolica: Quali sono le attese del mondo di oggi che suggeriscono agli istituti religiosi e missionari impegni nuovi? Quali sono gli obiettivi ai quali deve dare attenzione la missione della vita consacrata nel medio e lungo termine?

1. Approfondire la dimensione teologale della nostra vita

Nel mondo occidentale, gli effettivi degli istituti religiosi sono ai minimi storici e la loro missione si sostiene solo grazie all’incremento numerico proveniente dalle nuove chiese, un incremento che non è così sicuro, se è vero che la vita consacrata nelle società che hanno raggiunto un certo livello di progresso economico e sociale è destinata a perdere attrattiva e rilevanza. Inoltre i servizi che i religiosi offrono attraverso le opere gestite in proprio, sono offerti oggi anche da altri organismi istituzionali e civili. Infine, la generosità dei giovani, che c’è ancora, trova oggi sbocchi anche al di fuori degli istituti religiosi e missionari, in movimenti e organismi di solidarietà, che non richiedono la formazione e gli impegni ad vitam propri degli istituti di vita consacrata. A questo punto viene spontaneo chiedersi: la vita consacrata e la sua missione hanno ancora un futuro, una ragione e un senso? È ancora possibile proporla alla gioventù di oggi e di domani? Assolutamente sì. Ma la proposta deve puntare all’essenziale, alla consacrazione, che è dell’ordine dell’essere e non di quello del fare. È Dio e il suo Regno, la sequela Christi, l’amore per Cristo che deve possederci e spingerci («Caritas Christi urget nos» 2Co 5,14). Questa motivazione non viene meno neppure oggi in un tempo di cambiamenti e sarà sempre valida. La consacrazione ha una dimensione essenzialmente teologale, prima di ogni altra ragione umanitaria per quanto valida, e si esprime in una testimonianza personale convinta del primato di Dio e dei beni del Regno, come dice Giovanni Paolo II: “Il contributo specifico di consacrati e consacrate alla evangelizzazione sta innanzitutto nella testimonianza di una vita totalmente donata a Dio e ai fratelli” (Vita Consecrata 76).
In un mondo segnato da una progressiva secolarizzazione e dal relativismo teologico e morale, l’esperienza teologale dei religiosi ha come prima finalità di mantenere viva la domanda su Dio e di Dio e la fede cristiana nel Salvatore. Può sembrare una presunzione, ma diventa sempre più vera e attuale la parola di Etty Hillesum che, in piena persecuzione nazista, affermava di sentirsi chiamata “a difendere fino all’ultimo la casa [di Dio] in noi” , ad affermare quella relazione di Dio con l’uomo che la nostra cultura secolarizzata e postmoderna tende a rinchiudere nel «privato», se non addirittura a negare. Sarà necessario ricordare che salvando Dio, i religiosi contribuiscono a salvare l’uomo e a dare un futuro alla società, a garantire la possibilità che esista ancora un mondo umano? C’è forse missione più urgente di questa nella Chiesa e nel mondo d’oggi? Salvare Dio è salvare l’uomo, che ha un bisogno estremo di ritrovare Chi dia consistenza e valore alla persona, senso alla sua vita e lo porti ad aprirsi all’altro con senso di responsabilità. Non è forse questa una missione per noi religiosi, una missione che viene prima di ogni altra missione specifica?
«Dio è il garante del vero sviluppo dell’uomo» (Caritas in veritate, . 29), di una vita buona che vale la pena di essere vissuta. In questo tempo di transizione antropologica dall’homo consumens all’homo sobrius, i religiosi possono offrire un’icona dell’uomo come Dio lo ha pensato, capace di amare, di condividere e di servire, di quell’uomo nuovo che il Figlio è venuto a proporre nella sua esistenza terrena e di cui i religiosi, grazie ai consigli evangelici, sono come “un’esegesi vivente” (Verbum Domini, 83). L’esperienza di Dio in una vita consacrata vera, positiva, gioiosa, l’ascolto della Parola e la vita comune rendono i religiosi attenti alle persone, alle loro attese, solidali con la loro ricerca del vero, del bello e del buono, capaci di cogliere la presenza di Dio nella vita degli altri e nelle culture e risveglia in essi la responsabilità per la trasformazione delle strutture di peccato che sono nel mondo e per la salvaguardia del Creato. L’esperienza di Dio è fonte e riserva di speranza in un mondo che abbandona le persone nella solitudine e nella disperazione.
L’esperienza teologale della vita consacrata non si riferisce solo all’ambito della spiritualità, ma ha un impatto decisivo nell’aprire le comunità di vita consacrata ai grandi orizzonti del mondo attuale. Questo richiede che si curi la dimensione teologale e spirituale della vita consacrata, non dandola per scontata, ma facendo - della vita e delle opere - un’epifania del Regno di Dio e non invece un’affermazione di se stessa o della Chiesa o dell’istituto. Il criterio di validità di ciò che si fa nella vita consacrata deve essere la sua verità e la sua trasparenza, la capacità di mostrare il Dio di Gesù Cristo non quello del mondo.

2. Il dialogo come luogo proprio della missione

Il fenomeno della globalizzazione, che ha unificato il mondo, ha aperto una nuova frontiera della missione. Sono le religioni non cristiane, fino a pochi decenni fa, sconosciute e ininfluenti nella vita della Chiesa, che invece oggi sono gomito a gomito con la religione cristiana. Omai non possono (e non devono) più essere ignorate né considerate rivali della nostra, ma partner dell’impegno di “salvare Dio” e di conservare la pace. Oggi il dialogo interreligioso e interculturale, nuova frontiera della missione della Chiesa, impegna tutti, ma in special modo i religiosi e i missionari, che devono essere degli specialisti nel ricercare Dio e nel promuovere il suo Regno, a entrare in dialogo con le religioni non cristiane. Insieme a tutti i ricercatori di Dio, le comunità religiose devono impegnarsi nella promozione della pace per «allontanare lo spettro funesto delle guerre di religione che hanno rigato di sangue tanti periodi nella storia dell'umanità» (Novo millennio ineunte, 55). Così devono impegnarsi, insieme ai seguaci delle altre religioni, nella difesa e nel rispetto della vita di ciascun essere umano” (ibid. 51) contro ogni forma di manipolazione e di subdola o aperta distruzione.
Il mondo di oggi ha bisogno di dialogo e noi potremo essere un segno che il dialogo è possibile, che con il dialogo si possono superare i contenziosi senza giungere al conflitto o alla guerra. Il dialogo interreligioso è richiesto oggi dalla Chiesa per salvaguardare la pace in un tempo in cui proprio a partire dalla religione, mal interpretata, si rischia di dichiarare delle “guerre di religione” combattute in nome di Dio. Anche recentemente Benedetto XVI ha ricordato che le religioni devono diventare “forza del convivere” (11 settembre 2011).
Del dialogo oggi si parla molto, con il rischio di svuotarne la ricchezza. Dialogo è ascolto, scambio e condivisione. Oggi e nel futuro prossimo i religiosi dovranno superare, finalmente, la paura del dialogo per credere nella sua validità: esso non è la fine dell’annuncio o della missione, come troppo spesso si sente dire: «A causa del dialogo, i missionari non battezzano più, hanno paura di scomodare i non cristiani …». Senza dubbio ci saranno state delle esagerazioni o delle espressioni infelici, ma il dialogo non esclude il battesimo che è oggetto di un comando esplicito del Signore e che non è solo una strategia della missione, ma è un luogo proprio della missione. E lo sarà, se gli agenti della missione (chierici o laici che siano) metteranno la vita della gente al centro delle loro preoccupazioni pastorali prima di ogni progetto materiale o strutturale, se assumeranno gli interrogativi della popolazione e scopriranno la presenza e l’azione dello Spirito che li ha preceduto nel cuore della gente e della sua cultura. Solo allora potranno far risuonare la Parola e questa sarà accolta come portatrice di Vita. Questo suppone che il missionario e il religioso/a ritrovino la passione per Gesù. Così tutto quello che faranno servirà a far conoscere e amare il Salvatore, anche quando non sarà possibile proporre il battesimo oppure quando sarà meglio attendere ancora che la risposta maturi nel cuore dell’interlocutore.
Un dialogo sincero presuppone vicinanza e attenzione alla realtà, analisi e riflessione, semplicità di strutture e trasparenza di progetti. Domanda inoltre una grande umiltà, per riconoscere gli sbagli fatti in passato, i propri limiti e le attese degli altri, spesso non verbalizzate. Il dialogo è vero e sincero quando fa spazio all’altro e lo ascolta a lungo e con calma, senza la fretta di far giungere l’interlocutore alla decisione di accogliere quel tesoro prezioso che noi abbiamo e che vorremmo condividere.

3. Modelli di comunione e convivenza

C’è una sfida e una richiesta che la situazione del mondo della globalizzazione, frammentato e conflittivo, rivolge alla vita consacrata ed è quella della convivenza e della collaborazione. La mescolanza delle razze, delle culture e delle religioni, in una parola, la multiculturalità ha bisogno di superare la conflittualità (iscritta nella legge del libero mercato) come pure la sola coesistenza che potrebbe diventare indifferenza e scivolare poi nel conflitto. Per quanto paradossale possa sembrare, il mondo della globalizzazione, diventato “il villaggio globale”, non è caratterizzato da quei rapporti di prossimità, solidarietà e comunione che caratterizzano la vita del villaggio. La globalizzazione ha invece moltiplicato e aggravato le tensioni e i conflitti a tutti i livelli, politico, economico, sociale e religioso. La stessa religione diventa occasione di lotta e di conflitti, addirittura “in nome di Dio”. Questa conflittualità può degenerare in terrorismo internazionale. È la realtà di oggi: le diversità non sono più, come dovrebbero, ricchezze e potenzialità da far fiorire, ma minacce e barriere che ostacolano la convivenza e la collaborazione. I processi di crescita comune ne sono compromessi e i conflitti, anche politicamente conclusi, continuano a secernere i veleni delle rivalità e delle tensioni, mentre la stessa religione rischia di essere un fattore di divisione e di contrapposizione. C’è bisogno di paradigmi di convivenza, di processi di riconciliazione e di comunione che sia unità nelle diversità.
Giovanni Paolo II nell’esortazione Vita Consecrata chiede ai religiosi di offrire al mondo la testimonianza della loro vita comune, fatta di comunione e di partecipazione. In questo momento essa assume un’importanza nuova e inedita. Obbligati dalla riduzione del numero dei religiosi, i religiosi/e si trovano a vivere in comunità multiculturali, formate cioè da persone provenienti da diverse culture e nazionalità. Un dovere diventa così un kairos, un’opportunità che fa vivere il valore dell’universalità della Chiesa, della sua cattolicità aperta a tutti. Il mondo d’oggi ha bisogno di chi gli assicuri che è possibile far convivere le diversità nazionali, etniche e culturali. Per questo il papa «affida alle comunità di vita consacrata il particolare compito di far crescere la spiritualità della comunione prima di tutto al proprio interno e poi nella stessa comunità ecclesiale e oltre i suoi confini, aprendo o riaprendo costantemente il dialogo della carità, soprattutto dove il mondo di oggi è lacerato dall'odio etnico o da follie omicide» (51). Quando il papa scriveva queste parole, era da poco successo il genocidio del Rwanda, quando per un momento si credette che le etnie non avrebbero più potuto convivere in fraternità, solidarietà e reciproca intesa. Perciò il papa afferma che «le comunità di vita consacrata, nelle quali si incontrano come fratelli e sorelle persone di differenti età, lingue e culture, si pongono come segno di un dialogo sempre possibile e di una comunione capace di armonizzare le diversità» (ibid.). Le comunità, particolarmente quelle internazionali, «in quest'epoca caratterizzata dalla mondializzazione dei problemi e insieme dal ritorno degli idoli del nazionalismo» (Ibid.) sono una sfida alla qualità della vita consacrata e una speranza per il mondo. Nessuno può nascondersi la difficoltà connesse a queste comunità, ma esse sono una forte provocazione alla convivenza e una garanzia che essa è possibile. È evidente che esse devono essere sostenute da una spiritualità della comunione e della convivialità cristiana che trova la sua forza nella fraternità eucaristica e nella cattolicità della Chiesa.

4. L’opzione per i poveri e l’impegno per la giustizia


Il mondo della globalizzazione è caratterizzato dal trionfo della comunicazione e dalla caduta delle ideologie, ma anche da un’impressionante crescita della povertà: i poveri diventano sempre più poveri e i ricchi sempre più ricchi. Questo squilibrio strutturale del mondo attende da parte della Chiesa e della vita consacrata dei segni profetici che siano una provocazione ad andare controcorrente. Coloro che sono chiamati a essere testimoni delle beatitudini e profeti del Regno di Dio, non possono dimenticare questa realtà fatta di ingiustizia e di esclusione, di oppressione e di morte che caratterizza il nostro mondo. Da tempo ormai l’opzione per i poveri e l’impegno per la giustizia sono stati inseriti dai religiosi/e nell’identità e nella missione della vita consacrata e nella riflessione teologica. Ciononostante non sembra che sia sempre effettiva ed efficace. È ora di scegliere come vivere questa scelta nella missione propria di ogni istituto, come impegnarsi per promuovere la giustizia, a partire dall’identità propria dell’istituto, è urgente rivedere periodicamente lo stile di vita e l’uso dei beni.
Per contribuire all’edificazione di un mondo più giusto, bisogna decidersi di andare alle radici stesse delle strutture di peccato e creare quelle condizioni che fanno nascere e consolidare un mondo caratterizzato da un progresso o sviluppo che sia sostenibile e che permetta a tutti di vivere da fratelli. Dall’impegno per la giustizia dipende, per una gran parte, la credibilità dell’evangelizzazione e della vita consacrata.
In questi ultimi tempi ci è offerta un’opportunità chiara e non ambigua di assumere uno stile di vita secondo la verità della vita religiosa: è la crisi economica e finanziaria che oggi travaglia il mondo e fa soffrire le persone, le famiglie e le comunità. Come una cappa di piombo, questa crisi impedisce di vivere serenamente, ha ripercussioni pesanti nella maniera di vivere e impone, soprattutto ai più indifesi, sacrifici che non sono per sé necessari. Però nello stesso tempo questa crisi - come una grazia nascosta - potrebbe far riflettere sui valori dominanti nelle nostre società e suggerire, allo stesso tempo, un nuovo stile di relazioni improntate alla sobrietà. I religiosi/e si sono accorti di questa crisi, l’hanno accolta come occasione per solidarizzare con la gente che soffre, oppure non se ne sono neppure accorti, protetti come sono dal proprio istituto?
La sfida che ci viene oggi dal mondo dei poveri è di essere testimoni e promotori di “un mondo altro”, un mondo meno consumista e più sobrio, un mondo giusto e fraterno, promotori di solidarietà con i più poveri e sensibili alle esigenze di uno sviluppo sostenibile ed ecologicamente orientato. Benedetto XVI nella sua enciclica Caritas in veritate ha tracciato questo cammino per tutta la Chiesa. Troverà i religiosi in prima linea? Questa è la sfida e questa è anche l’attesa del mondo di oggi. La crisi attuale, che si aggiunge agli squilibri del mondo, che persistono da troppo tempo, e li aggrava, ci interpella nella nostra fede in Dio Padre di tutti e difensore dei poveri e, ancor più, nell’impegno ad essere “segni” profetici del Regno e di quell’uomo nuovo che tutti sentono necessario per un mondo nuovo. Forse è il tempo di tradurre il progetto di Gesù “evangelizare pauperibus misit me” (cf. Lc 4,18) in scelte che ci riportino a vivere accanto ai poveri e agli esclusi, aprendo il cuore e tutte le dimensioni della vita e alle domande che essa suscita, a lavorare con loro per uscire dalla povertà senza cadere nella logica del potere e dell’avere che è all’origine della crisi e della povertà. Se possiamo essere fieri del fatto che spesso sono i religiosi/e coloro che assumono le sfide dell’accoglienza dei profughi che sbarcano sulle nostre coste, della difesa delle donne e dei bambini, della lotta alla prostituzione, malgrado le difficoltà e le minacce alla loro stessa vita, dobbiamo tuttavia ricordare che queste sfide dovrebbero coinvolgere di più le comunità religiose. Il comportamento di religiosi/e profetici sono una delle parole più chiare e potenti che la Chiesa sta pronunciando. Non solo trasmettono un messaggio di solidarietà e di generosità, ma scuotono le comunità cristiane e danno speranza al mondo e a coloro che lottano per un mondo diverso.

5. Rivedere l’ubicazione delle nostre opere


La nuova realtà della vita religiosa richiede che le nostre presenze siano ridimensionate e riqualificate. È urgente rivedere dove collocarsi e come essere presenti nel mondo di oggi. Questo esige un discernimento difficile nel quale non possiamo lasciarci guidare da una strategia che punti solo a salvare la continuità dell’Istituto o dell’opera e neppure (ancora meno) la crescita numerica o geografica dell’Istituto. Il primo criterio di discernimento dovrebbe essere l’identità carismatica dell’Istituto in un dato contesto concreto. Con libertà, sapienza e audacia bisognerà poi adeguare le presenze e la loro modalità alle esigenze del contesto umano e sociale. Questa è la sfida attuale: coniugare il carisma con la promozione del Regno e con le attese del mondo. Questo è il cammino da prendere perché la missione sia autentica e credibile.
Il carisma della vita consacrata ha in sé una dimensione profetica (v. Vita consecrata n. 84), che si esprime nel vivere fedelmente la consacrazione e nel donarsi generosamente alla missione. La propositio 24 del Sinodo del 2008 sulla Parola di Dio ricordando che i religiosi sono chiamati «a essere esegesi vivente della Parola e a farla continuamente parlare alla Chiesa e al mondo», afferma che essi si collocano «sulle frontiere geografiche e culturali della missione». In realtà è giusto ed è benefico per la missione che i religiosi si trovino non là dove è facile evangelizzare e dove tutto concorre al bene dell’istituto. Mons. Pierre Claverie, il vescovo d’Orano, ucciso in Algeria nel 1996, diceva che oggi i religiosi si trovano sempre più a vivere “sulle linee di frattura” della storia, in una posizione molto scomoda e in un tempo molto complesso, di difficile interpretazione, ma che è anche un kairós carico di speranza per la vita del mondo, e, aggiungiamo noi, anche per il futuro della vita consacrata. La loro presenza e la stessa collocazione delle comunità religiose è una sfida al mondo di oggi. Di qui l’importanza di scegliere con cura dove andare e come entrtare in quei luoghi nuovi dell’evangelizzazione, che Papa Woytiła chiamava “i nuovi areopaghi” (Redemptoris missio 37c).
Per scegliere la collocazione nel mondo, i religiosi/e non dovrebbero lasciarsi condurre dal criterio della continuità della presenza, né dal bene dell’istituto e neppure dalle richieste della Chiesa soltanto, che pure hanno un loro valore, ma dall’ispirazione carismatica del proprio istituto, in fedeltà dinamica al percorso spirituale del Fondatore o della Fondatrice, che l’ha voluto al servizio del Regno di Dio: dove li collocherebbe oggi se vivesse nell’epoca della globalizzazione? Un altro elemento da non dimenticare in questo discernimento, deve essere la volontà di articolare la propria presenza missionaria con gli altri secondo un’ecclesiologia di comunione e in linea con i principi di complementarietà e di reciprocità che permettono una crescita armoniosa di tutta la comunità cristiana.

6. collaborazione intercongregazionale e missione condivisa


Gli obiettivi della missione, in questo tempo di globalizzazione, che è tempo di sinergia, stanno suggerendo alla missione uno stile di collaborazione tra le congregazioni, che tutti sentono auspicabile, ma finora poco praticato. La complessità delle situazioni e la complementarietà dei saperi trasforma in necessità ciò che fino a poco tempo fa era solo una possibilità astratta. Il personale dei nostri istituti sta diminuendo in modo drastico in alcune zone del mondo e, d’altra parte, i processi di globalizzazione ci portano a sfide alle quali è difficile rispondere in modo significativo da parte dei singoli Istituti. È ovunque e per tutti il tempo dell’interdisciplinarietà, lo è anche per la vita consacrata e apostolica. Qualche esempio: l’accoglienza e la cura degli extracomunitari, l’animazione missionaria delle chiese locali, l’impegno per la giustizia ecc. In questi e altri campi sembra ormai ineludibile intraprendere in modo più decisivo il cammino dell’intercongregazionalità. I forum di riflessione congiunta e gli spazi di collaborazione tra gli Istituti religiosi che sono stati messi in piedi in questi ultimi anni, hanno prodotto frutti abbondanti. Non sarebbe l’ora di fare un ulteriore passo e affrontare una nuova tappa nella collaborazione intercongregazionale, progettando iniziative di evangelizzazione in risposta alle molteplici sfide del mondo d’oggi?
È chiaro che ciò domanderà che i carismi dei singoli istituti, pur rimanendo distinti, entrino in dialogo per rispondere agli obiettivi complessi: dove è necessaria insieme la scuola e il centro sanitario, la competenza artigianale e l’imprenditorialità, la competenza psicologica e quella spirituale, la formazione intellettuale e spirituale sarà bene per tutti cercare di mettere assieme le persone competenti, anche se fanno parte di istituti distinti. È altrettanto chiaro che bisognerà non solo unire le forze, ma anche coordinarle con nuovi modelli di organizzazione comunitaria e di governo, che si dovranno elaborare elementi comuni da introdurre nei processi di formazione iniziale e continua che preparino le persone a questo tipo di esperienza condivisa. Sarà soprattutto importante e urgente superare ogni forma di campanilismo legato al passato per far crescere nella comunione coloro che partecipano allo stesso progetto e, contemporaneamente, assicurare che ciascuno non venga meno all’identità propria della famiglia religiosa cui ha dato il nome.
Sono delle sfide nuove suscettibili di arricchire il patrimonio spirituale di ciascun istituto e la vita consacrata in generale che richiedono una carica missionaria che non potrà che essere benefica per ogni istituto. E se queste sfide esigeranno chiarezza nell’elaborazione dei progetti, costringeranno anche a fare un serio discernimento sulle opere di ogni istituto e a pensare più responsabilmente alla nostra maniera di essere missionari in questo tempo segnato dai rapidi cambiamenti, ma carico anche di nuove promesse per il futuro.