La biografia di Conforti recentemente (pubblicata da Angelo Manfredi, con
tutti i crismi di un lavoro propriamente scientifico, ci restituisce la figura
del vescovo e missionario in tutta la sua complessità e profondità. In
particolare, tale lavoro ci consente di cogliere in piena luce quel duplice,
complementare apporto alla vita della Chiesa che costituisce una caratteristica
peculiare di Conforti. Egli si è mostrato pienamente fedele sia alla Chiesa
locale di cui è stato figlio e pastore, sia alla Chiesa universale alla quale ha
donato una nuova congregazione di missionari ad gentes. Non si tratta, peraltro,
di due orientamenti che procedono in parallelo, come due binari l'uno affiancato
all'altro, bensì di due dimensioni tra loro variamente collegate e intrecciate.
Chiesa locale e Chiesa universale
Nativo della Bassa parmense, dove vide la luce nel 1865, Conforti passò dalla
propria famiglia di origine al seminario della sua città, dunque con il
desiderio preminente di porsi a servizio di quella Chiesa locale, come prete
diocesano. E tuttavia, la conoscenza, attraverso una biografia illustrata, della
grande figura di S. Francesco Saverio, maturò ben presto in lui l'apertura a un
orizzonte più ampio.
Diventato prete, nel 1888, Conforti rimase in seminario come vicerettore, anche
per i limiti della salute che avevano messo a rischio la sua stessa ordinazione
sacerdotale. Cominciava, intanto, a prendere forma più precisa e determinata il
suo "disegno missionario": se esso non poteva prospettarsi ragionevolmente come
diretta azione apostolica – appunto per lo stato precario della sua salute –
eccolo delinearsi come possibile impegno per la formazione dei missionari.
Peraltro, il vescovo di Parma in quegli anni, Andrea Miotti, non riconobbe l'
opportunità di quell'orientamento; fu il suo successore, Francesco Magani, ad
accogliere positivamente e a sostenere il desiderio missionario di Conforti,
concretizzatosi nella fondazione di un seminario emiliano per le missioni
estere, in particolare per l'Asia. Conforti poté così avviare la sua iniziativa
che, di lì a qualche anno, diventerà una vera e propria congregazione religiosa,
quella dei missionari saveriani, religiosi a tutti gli effetti, mediante la
professione di tre voti tradizionali (castità, povertà, obbedienza) e di un
quarto voto particolare, per l'impegno nella "conversione degli infedeli".
Nel frattempo, Conforti, non ancora trentenne, venne scelto dal nuovo vescovo di
Parma come vicario generale. In quegli stessi anni, allo scadere del secolo,
partivano per la Cina i primi due saveriani, anche se questa prima spedizione
subirà una prematura conclusione. Ecco, comunque, avviati i due orientamenti di
vita di Conforti, con anni di intensissimo impegno, da lui vissuti facendo
quotidianamente la spola tra la casa di formazione dei futuri missionari e
l'ufficio in curia.
Separazioni e ricongiunzioni
Il promettente avvio dell'uno e dell'altro orientamento venne bruscamente
interrotto nel 1902 dalla inaspettata (e, probabilmente; inopportuna) nomina
dell'ancor giovane sacerdote ad arcivescovo di Ravenna. Leone XIII lo aveva
destinato a quella prestigiosa ma assai difficile Chiesa, certo contando sulle
doti di equilibrio e di mediazione da lui mostrate nel ruolo di vicario
generale. Di fatto, Conforti finì con il trovarsi, ad un tempo, fortemente
isolato all'interno della sua nuova diocesi – soprattutto a motivo della
intricata situazione locale e delle forti divisioni fra il clero – e lontano
dalla sua fondazione, rimasta in quel di Parma. Erano venuti a dividersi, per
lui, quei due "amori" che avevano caratterizzato, fino a quel momento, la sua
vita. Tutto questo pesò a tal punto sul suo animo da aggravare le sue già
precarie condizioni di salute e provocargli un'acuta sofferenza interiore, con
un senso di "impotenza" tale da portarlo alle dimissioni dalla sede ravennate,
dopo solo venti mesi di episcopato. Il pur mesto ritorno a Parma fu, a questo
punto, un fatto provvidenziale, in quanto permise al giovane vescovo di
stabilizzare la propria fondazione, così da ottenerne il riconoscimento
pontificio e far ripartire la missione dei primi saveriani verso la Cina.
Pochi anni dopo, alla morte di mons. Magani, Conforti divenne vescovo della sua
stessa diocesi di origine: ciò gli permise di ricomporre nuovamente il suo
duplice servizio alla Chiesa locale e alla Chiesa universale. Per quanto
riguarda il primo aspetto del suo ministero, egli si comportò, sostanzialmente,
secondo il tradizionale modello di vescovo delineato fin dal concilio di Trento,
alla metà del Cinquecento, pur senza mancare di corrispondere anche alle nuove
esigenze dei tempi, soprattutto in ambito sociale, con iniziative nel campo
dell'impegno laicale e con una particolare attenzione al clero, numericamente
carente e spesso in situazioni problematiche. Sul "fronte" della missione in
Cina, poi, Conforti si trovò coinvolto in un contesto sociale e politico
tutt'altro che tranquillo (sono gli anni della rivoluzione che portò alla
proclamazione della repubblica, nel 1912); per di più, le difficoltà interne al
giovane istituto missionario furono tali da convincere il fondatore a recarsi
personalmente in Cina, nel 1928, in modo da ricucire alcune divisioni interne e
ridurre il distacco con la Casa Madre. Fu un viaggio che contribuì soprattutto a
rafforzare il valore di quella sua vocazione missionaria che, da una decina
d'anni, egli aveva iniziato ad esprimere anche in altro modo, assumendo per
primo, nel 1918, la presidenza dell'Unione Missionaria del Clero.
Tale iniziativa era nata da un'intuizione di padre Paolo Manna: occorreva
coinvolgere più intensamente e costantemente i preti diocesani nell'impegno
dell'animazione missionaria tra i fedeli. Era un'idea che corrispondeva
perfettamente a quel legame stretto fra pastorale "ordinaria" e apertura
missionaria che Conforti per primo aveva attuato nel suo ministero.
Una profezia per la Chiesa
Sulla base dei fatti ricordati, possiamo dire che Conforti realizzò, nella sua
stessa persona, una sorta di laboratorio di quella nuova idea di missione come
"cooperazione tra le Chiese" che avrebbe avuto riconoscimento ufficiale solo con
Pio XII (nella Fidei donum del 1957, per l'invio di clero diocesano soprattutto
in Africa), quindi con il Vaticano II. Più in generale, tale disponibilità del
vescovo di Parma ad aprire la Chiesa locale sull'universale viene a collocarsi,
significativamente, dentro quel lungo itinerario della Chiesa contemporanea che
matura sempre più quale Chiesa propriamente universale, sia per estensione
geografica sia per una nuova consapevolezza di sé. Non si deve poi dimenticare
come il coinvolgimento sempre più ampio delle diverse componenti ecclesiali –
preti e vescovi oltre ai religiosi; laici e Chiese locali – abbia• costituito
una caratteristica tipica della fase contemporanea della missione. Conforti,
pertanto, interpreta e fa crescere una sensibilità diffusa nella Chiesa del suo
tempo e tradotta, fin dalla prima metà dell'Ottocento, in diverse istituzioni,
quali l'Opera per la propagazione della fede, l'Opera missionaria della Santa
Infanzia, l'Opera di San Pietro apostolo per il clero indigeno. Ora, nel
cogliere ed assumere la crescente sensibilità missionaria, Conforti esprime
quello che è proprio un tipico comportamento episcopale: farsi interprete e
strumento di sintesi delle ricchezze diffuse dallo Spirito nel Corpo della
Chiesa.
La croce come sintesi suprema
Sono due tensioni complementari, quelle ricordate, che Conforti tiene insieme
con grande fatica e sacrificio, proprio anche nei momenti in cui esse sembrano
escludersi l'una con l'altra. Come poteva pensare alla missione un giovane
seminarista malaticcio a cui era stata perfino rinviata l'Ordinazione, appunto
per le sue condizioni di salute? Come poteva pensare di reggere la guida di una
famiglia missionaria destinata al difficile terreno asiatico chi non era stato
in grado di sostenere la pur com-plessa situazione di Ravenna? Conforti,
tuttavia, non si rassegna ai fallimenti, se mai ne trae motivo di revisione e di
correzione per i suoi progetti; insomma, ne coglie la fecondità nascosta. Si
intuisce qui la radice ultima di queste due dimensioni costanti della vita di
Conforti. Ed è la centralità di Cristo crocifisso, nella sua tensione
universale. Una universalità lapidariamente espressa nello stesso motto
episcopale scelto da Conforti, traendolo da un passo di Paolo (In omnibus
Christus: Col 3, 11), e idealmente identificata in quel Crocifisso di una chiesa
di Parma che lo aveva attirato fin da ragazzo e che egli aveva poi voluto
portare con sé, in vescovado. Ecco il motivo profondo per cui tale sintesi aveva
sempre avuto, in Conforti, il sapore della sofferenza e il profumo della carità;
insomma, i requisiti essenziali della santità.