Ci sembra importante continuare a dare spazio alle riflessioni scaturite in seguito alla messa a tema della identità e specificità della vita consacrata apostolica (cf, lo Speciale di “Testimoni” n. 5/2011 con gli interventi dello specifico Seminario teologico organizzato congiuntamente tra USG e UISG dal 7 al 12 febbraio 2011). La coscienza, scaturita in quella prima occasione di incontro, è stata quella di ribadire la chiamata di religiose/i a essere testimoni che condividono un’esperienza vissuta appassionatamente. I punti forti di quelle riflessioni sono stati sinterizzati da fr. Mauro Jöhri, ministro generale dei cappuccini, e presentati ai superiori generali durante la Assemblea semestrale USG-UISG del maggio scorso. L’idea centrale di quel Seminario è stata che la “vita comune” come era praticata fino a un passato non molto lontano oggi è del tutto insufficiente: è necessario passare alla “comunione di vita”, quale esigenza di una testimonianza evangelica convincente e condizione indispensabile per l’efficacia della missione.

La comunione alla base di tutto!

Ribadendo la consapevolezza di trovarci ancora in ricerca di una nuova “figura” della VR, fr. Jöhri ha ricordato alcune affermazioni inequivocabili circa il nucleo centrale e irrinunciabile della VR stessa.
«Mary Maher, per esempio, ha affermato lapidariamente: “La vita religiosa consiste nell’essere afferrati dal Dio vivente. Perché Dio ci ha amato per primo noi rispondiamo con amore, dando tutta la nostra vita per ascoltare fedelmente e per rispondere a lui. Diventiamo religiosi perché egli ha preso possesso di noi in un modo così misterioso e affascinante che non possiamo fare altro che rispondere con tutta la nostra vita. Se mettiamo al primo posto qualcosa di diverso da questo, non stiamo parlando di vita religiosa. La vita religiosa apostolica consiste principalmente nell’essere chiamati, attirati, attratti dal Dio vivente per seguire Gesù Cristo in una comunità di discepoli che sono inviati nel mondo per servire e operare nel suo nome”.
Sandra Schneiders a sua volta ha sottolineato: “La vita religiosa apostolica è radicalmente costituita dalla consacrazione totale e permanente del religioso a Dio, effettuata ed espressa tramite la professione perpetua vissuta in comunità e nella missione”».
Da qui, sottolinea il ministro generale, nasce la consapevolezza che la prima testimonianza evangelica che la persona consacrata è chiamata ad offrire è l’esperienza di Dio. Ma si tratta di una testimonianza di membri che fanno parte di una reale comunità di discepoli. Questo aspetto è ritornato sovente in seno al seminario ed è stato tematizzato in primo luogo come esigenza di vivere la comunione: «José Maria Arnaiz ha affermato lapidariamente: “La comunione è tutto!”. Ed è stato lui ad aggiungere che in questo preciso momento della storia abbiamo più bisogno di comunione che non di missione, perché dove c’è comunione c’è vita. Anzi siamo chiamati a fare della comunione il contenuto stesso della missione…. Nello stesso tempo la comunione deve ispirare e permeare tutte le nostre relazioni e portarci ad andare incontro all’umanità coscienti che ci inoltriamo in quel mondo che Dio ha tanto amato, da dare il suo Figlio unigenito perché questi avesse la vita e la vita in pienezza».

In un mondo amato da Dio

Siamo chiamati a realizzare la comunione all’interno di un mondo amato da Dio ma anche segnato da fenomeni altamente contraddittori. Grazie alla globalizzazione ci si rende conto che tutto è interconnesso, per cui l’umanità è chiamata ad affrontare il problema di risolvere in maniera positiva il pluralismo, l’indifferenza, l’altro. Fr. Jöhri ha citato ancora M. Maher: “Oggi ciò avviene in primo luogo tramite la violenza, l’ostilità e il desiderio di esclusione. Come religiosi vorremmo vedere il mondo come una comunità interconnessa, dove tutto e tutti sono in relazione. Tuttavia non possiamo negare il fatto per cui il mondo di oggi è frammentato dalla sua diversità, dai conflitti tra i diversi gruppi etnici e nazionalità, le diverse culture, religioni e filosofie di vita. L’incapacità di affrontare la differenza se non in modo ostile e violento sta distruggendo le famiglie, le culture, le società, e indubbiamente, il pianeta stesso”.
«Viviamo in un mondo che ha compiuto passi da gigante quando si tratta di mettere mano alla materia e manipolarla. Difatti siamo in grado di registrare un’infinità di dati su di un chip dalle dimensioni infinitamente minuscole e di intervenire sulla struttura delle cellule per modificarne il codice genetico. Non passa giorno che non venga immesso sul mercato un nuovo prodotto tecnologico più performante di quelli precedenti. Ma con tutto ciò non si può affermare che sia cresciuta di pari passo la capacità di costruire un mondo di pace, di progredire verso un’equa distribuzione dei beni disponibili, di creare condizioni che garantiscano sicurezza e sviluppo per tutti in ugual maniera. In questo senso è chiaro che viviamo in un mondo segnato dalla differenza, e che questa non è facile da assumere nemmeno in seno alla Chiesa e ai nostri ordini e congregazioni».
Questo scenario richiede una scelta di campo radicale: siamo chiamati a mettere al centro l’impegno della e per la comunione, dono proveniente trinitario e segno profetico di cui il mondo ha maggiormente bisogno.

Uno stile di vita più semplice e fraterno

Per essere questo segno, ha continuato fr. Jöhri, le nostre comunità devono assumere uno stile di vita più semplice e stare vicine alla gente. Solo così la loro testimonianza si purificherà e diventerà comprensibile. Perciò le nostre comunità hanno bisogno di annunciare l’azione di Dio che riconcilia e rende fratelli e denunciare le divisioni e le oppressioni. Questo esige uno stile di vita fraterna più aperta e un continuo esercizio di discernimento comunitario nella preghiera per conservare l’identità di una testimonianza evangelizzatrice radicata nell’esperienza di Dio nella storia e in una visione di fede della storia stessa.
«Da qui nasce l’esigenza di passare dalla vita comune alla comunione di vita. Può sembrare solo un gioco di parole, ma non lo è. La vita comune rischiava di essere intesa e vissuta alla stregua di tutta una serie di atti, come la preghiera, i pasti, il lavoro manuale, che i vari membri della stessa ponevano simultaneamente mantenendo tra di loro un’equidistanza pressoché perfetta ed evitando di confrontarsi e, se necessario, di scontrarsi sulle questioni vitali della vita comunitaria. Qualcuno ha affermato che non è raro incontrare comunità dove i religiosi partecipano alla stessa Eucaristia e poi non si parlano. All’interno di un tale modello di vita religiosa ciò che contava era l’osservanza delle regole e non certo l’incontro reale tra le persone. Da qui l’esigenza di cogliere i segni di comunione che già esistono in seno a una comunità e di favorirne la crescita».
È importante incontrarsi e mettere in atto strutture di partecipazione. Vanno poi preparate le persone in grado di promuovere la comunione e la ricerca comunitaria della volontà di Dio. «Ciò è possibile unicamente se sono disposte ad accogliere l’altro anche in ciò che lo rende diverso da me. Significa mettere al centro la persona più che la struttura, moltiplicando gli spazi d’incontro e di dialogo come pure tutto quanto favorisce la comunione. In questo senso la vita fraterna potrà diventare l’antidoto nei confronti di un mondo in cui regna la lotta dell’uno contro l’altro».

La sfida che viene dalle nuove comunità


All’interno di un tale progetto di vita fraterna, secondo il responsabile dei cappuccini, un posto preminente dovrà essere assegnato alla capacità di accogliersi l’un altro con le proprie ricchezze e i propri limiti. Qui non è questione di età, perché ci può essere benissimo il confratello anziano ben più capace di accoglienza e di ascolto che non un giovane. «Qualcuno durante il seminario ha affermato che laddove si pratica ascolto e ospitalità la VR avrà certamente un futuro. In questo contesto diventa interessante gettare uno sguardo alle nuove forme di vita comunitaria che rappresentano una notevole sfida per i nostri istituti di vecchia data. Sr. Vera Bombonatto ci ha fatto notare che queste crescono perché i nuovi membri si sentono protagonisti della nuova comunità, senza discriminazioni di sesso, di razza o di condizione sociale. Creano tra di loro vincoli d’amicizia, di famiglia, di reciproco sostegno».
La credibilità dell’evangelizzazione è dimostrata dal modo di vivere la fraternità. Non c’è nulla che possa giustificare una fraternità mediocre, disimpegnata e superficiale. Il rinnovamento è possibile anche in seno agli ordini e alle congregazioni di antica data: è il caso dove un gruppo di membri si riunisce senza altre pretese se non quella di tentare di vivere secondo la Regola del proprio istituto, insistendo in particolar modo sulla condivisione, sul dialogo e la collaborazione a tutto campo. «La convivenza deve avere la priorità sull’efficienza. In questo senso è importante curare in particolar modo la vita di preghiera, incontrarsi frequentemente per dei capitoli spirituali, tenere settimanalmente la “lectio divina” coinvolgendo anche la gente da fuori. Quando una Fraternità è serenamente libera, perché radicata in Dio e negli altri, diventa liberante e pacificante anche per coloro che l’avvicinano».
Occorre anche tener presenti altre realtà ancora che vengono a toccare la vita fraterna e la sua effettiva capacità di mettersi in cammino con altri. Deve essere possibile che persone di culture e nazioni diverse vivano in comunione e solidarietà, in pace e armonia. L’ideale è la “interculturalità” che permette ai membri provenienti da varie culture di interagire tra loro e di arricchirsi reciprocamente. Una genuina comunità interculturale è solitamente caratterizzata da alcuni elementi come il riconoscimento delle altre culture, permettendo per esempio alle culture minoritarie di essere visibili nella comunità; il rispetto delle differenze culturali, evitando qualsiasi tentativo di livellare le differenze culturali assorbendo quelle minoritarie in quella dominante; la promozione di una sana interazione tra le culture, cercando di creare un clima in cui ogni cultura si lascia trasformare o arricchire dagli altri.
«Uno dei partecipanti al seminario, ha concluso fr. Jöhri, ci ha parlato del singolare compito che una volta gli era stato affidato di salire sul tetto di una casa per rimuovere un nido di cicogna! Ci ha raccontato quale fu il suo stupore al momento in cui poté contemplare da vicino quel nido. Era composto di rami vari ma anche di una quantità di oggetti di nessun valore, come stracci o barattoli di latta usati e schiacciati, di coca cola! Cose di poco conto, eppure intrecciate in maniera tale da poter accogliere la vita! Un lavoro compiuto indubbiamente con un certo savoir faire e con molto amore. Non di meno la vita fraterna si costruisce con tanti gesti piccoli e grandi, essa è un ambito dove tutto quanto merita di essere valorizzato, purché alla base e come dimensione continua non venga mai meno l’amore!».