«Alle porte della tua casa, o Dio, i tuoi fedeli cantino di gioia»: l’antifona al Salmo 131 bene interpreta l’invito scaturito dalla recente settimana di formazione organizzata dalla Provincia italiana settentrionale dei dehoniani. Rispondere alla missione di annunciare il vangelo – essenziale alla Chiesa – nell’Europa post-moderna e post-cristiana ci colloca sulla soglia: abbandonare le sacrestie per affacciarsi verso il mondo, resistendo alla tentazione di perdersi nel vortice della modernità; dialogare con questo mondo, che ritiene di aver già superato il vangelo, non per lapidarlo con improperi e minacce, ma per dare fiato nuovo e parole nuove al canto della fede.
L’evangelizzazione nel contesto occidentale, ed europeo in particolare, ha da essere nuova, non tanto e non soltanto perché si richiede uno sforzo rinnovato nei contenuti e nel metodo, ma anzitutto perché sostanzialmente nuova e perfino inedita è la realtà alla quale ci rivolgiamo. La sfida proviene da una cultura della non credenza, la quale «tende a presentarsi come uno stato di equilibrio razionale e di maturità democratica» e ha inoltre la pretesa «di fare della non credenza la condizione dell’umano comune davanti a cui la credenza debba giustificarsi», come se «la fede costituisse il rifiuto della propria autonomia» (L. Prezzi).
«La nuova evangelizzazione – diceva p. Enzo Franchini 20 anni fa al convegno organizzato sul tema dalla nostra rivista insieme a Settimana – non consiste tanto in un nuovo sforzo di mobilitazione delle risorse missionarie, quanto nell’annuncio di contenuti “nuovi”», perché il messaggio cristiano «risente di tutte le deformazioni che gli si sono incrostate addosso nel passare attraverso successive inculturazioni». L’evangelizzazione sarà nuova nei contenuti se saprà essere nuovo – per conversione – il soggetto che la propone: la Chiesa, come popolo, come presenza civile, come singoli credenti, pastori e non.
«Per la Chiesa non si tratta soltanto di predicare il vangelo in fasce geografiche sempre più vaste o a popolazioni sempre più estese, ma anche di raggiungere e quasi sconvolgere mediante la forza del vangelo i criteri di giudizio, i valori determinanti, i punti di interesse, le linee di pensiero, le fonti ispiratrici e i modelli di vita dell’umanità, che sono in contrasto con la parola di Dio e col disegno della salvezza», precisava già nel 1975 la Evangelii nuntiandi al n. 19.
Sempre più eloquenti gli indici della crisi della fede e dell’appartenenza ecclesiale, tanto che, per la prossima generazione, il riferimento religioso cristiano non potrà più considerarsi scontato e nemmeno maggioritario. La tradizione pastorale – fuori questione la sua robusta generosità – scoraggia negli esiti: «A cosa è servita la tradizione cattolica secolare di queste terre se i miei interlocutori istituzionali si ispirano al paganesimo della Lega?», domandava un parroco del Veneto. Il vescovo di Erfurt parla di «una perdita di linguaggio» da parte dei credenti nostri contemporanei. «Non sono più nella condizione di esprimere con parole e segni religiosi certe esperienze umane fondamentali» (www.queriniana.it/blog/176).
Se nuova evangelizzazione significasse accrescere gli sforzi per ricuperare una Chiesa potente, per numero e per riconoscimento, vorremmo lavorare contro la storia e soprattutto contro il vangelo. Il momento è critico e dunque risveglia la capacità e la necessità di un giudizio.
Non siamo in grado di capire cosa Dio ci stia chiedendo e nemmeno ci è chiaro cosa chieda il mondo. E tuttavia abbiamo il dovere di individuare una risposta e percorrerla. Non si tratta di abbassare gli obiettivi, non si tratta di «andare incontro al mondo allargando le maglie» (Franchini), non si tratta di edulcorare la proposta, la quale resta esigente, anzitutto per chi la fa.
Detta in termini teologici, c’è una dialettica insopprimibile fra storia ed escatologia: ciò che rende sempre nuova l’evangelizzazione è la custodia e la proposta dello scarto escatologico, che la rende intrinsecamente proiettata in avanti. Senza l’evidenza di questo scarto, il nostro annuncio è inquinato alla sorgente, suona consolatorio o condannatorio, utopistico o rassegnato.

Verso un’epoca post-coloniale e post-moderna

Nell’analisi di Gianni Colzani, l’Occidente ha perso la sua spinta e ha rinunciato a realizzare «una sintesi tra la scienza e l’animo religioso della persona ... giungendo al punto di perdere o svendere tutto quel substrato religioso che il cristianesimo aveva costruito». Secondo il teologo indiano A. Pieris più volte citato da Colzani, «la vita cristiana è oggi segnata da divisioni profonde al punto che la liturgia non genera una spiritualità e questa non dà vita ad un impegno sociale e storico dei credenti».
Un rinnovato impulso potrà venire dalle chiese dell’Asia e del sud del mondo, «impegnate in un profondo dialogo con il loro mondo»; quanto «possono dare come esempio, metodologia e contenuti a tutti i cristiani»? È però necessario che come Chiesa ci si lasci interpellare dalle istanze e provocare dalle esperienze di queste comunità, che troppo spesso percepiscono una diffidenza sospettosa nei loro confronti da parte delle loro Chiese-madri d’Europa.
Nuova evangelizzazione in un’Europa post-moderna significa confrontarsi con il tramonto del mito razionalista di una storia lineare e protesa al meglio. Significa confrontarsi con la frammentarietà: è tramontato il grande sole che illumina tutti dall’alto, e ciascuno dovrà arrangiarsi con la propria piccola lanterna, per quanto simile condizione abbia messo ancor più allo scoperto il bisogno di mistero.
Per una nuova evangelizzazione c’è bisogno di una teologia nuova, indissolubilmente legata alla spiritualità; le risposte valide universalmente –nel nostro contesto semplicemente elusive – se valide per il singolo in contesto.
In questo contesto culturale, la teologia non si rivolge soltanto alle comunità cristiane, ma ricupera il senso originario del termine che, nel mondo greco, rimandava a un pubblico dibattito sul ruolo degli dei nella società. È l’intento della public theology, che vuole essere significativa per tutti, al di là del contenuto specifico delle singole religioni.

Alcune figure

L’ospite è la prima figura proposta a interpretare la relazione fra il credente e il mondo, nonché fra Dio e l’umanità, Dio e il singolo credente. Dio passa davanti alla tenda di Abramo e diviene suo ospite per l’esplicita sua insistenza. Gesù è il viandante che, dopo aver conversato con i due di Emmaus, fa per andare oltre ma viene riconosciuto in seguito all’insistenza dei due a farsi loro ospite, lì sulla soglia della loro casa e sulla soglia della sera.
In entrambi i casi, l’ospite viene invitato e accolto senza conoscerne l’identità. Si lascia all’ospite di essere quello che è e di rivelarsi se vuole. Quando è stato chiesto a Dio il suo nome, si è presentato come colui che non si lascia definire e comunque con un’identità che risiede sempre nel futuro: Io sono colui che sarò, Io sono colui che vorrò essere.
L’ospite si invita e lo si accetta senza pretendere di definirlo ed esponendosi al rischio delle sue esigenze. È il rischio che ha affrontato Dio stesso, chiedendo di essere nostro ospite in Gesù; è il rischio al quale dobbiamo essere disposti noi se chiediamo di essere ospiti del mondo.
La seconda figura riassuntiva è quella della creatività/misericordia. Creativo è ciò che rende possibile la vera novità: qualcosa non c’era e viene creato, è nuovo. Il perdono è azione creatrice perché ricava un futuro di bene da un passato di male. Una cultura come la nostra, che si nega il perdono ed esibisce la maschera dell’impeccabilità («non ho niente di cui pentirmi; non devo chiedere scusa a nessuno»), si sterilizza da sola. La misericordia rinuncia a definire l’altro in forza del suo passato, sottrae la relazione a un destino fatalista per aprirla al futuro: il perdono è liberazione per entrambi. Prima di ogni sua motivazione evangelica, è già prediligere il mistero al fatalismo.
La Chiesa non è la societas perfecta che nega il proprio errore e condanna quello altrui, ma piuttosto la continua creazione di uno spazio di ospitalità, di una terra promessa (cieli nuovi e terra nuova) nella quale abbia stabile dimora la misericordia.
 

Testimoni e testimonianze

La sorgente della vera novità è lo Spirito, il quale soffia dove vuole. Penoso ogni nostro tentativo di spingerlo dentro le condotte forzate della canonicità. Bisogna domandarsi che cosa sta dicendo lo Spirito attraverso la vita degli uomini, attraverso il frumento di vangelo che cresce insieme alla zizzania, a volte senza che i protagonisti sappiano dare parole religiose alla loro esperienza.
Colzani invitava a non scartare sbrigativamente né la saggezza popolare che insegna «a vivere bene, a vivere insieme, a vivere con i limiti e con le speranze proprie di ogni vita», né lo spontaneismo intercettato dai movimenti carismatici, ortodossi e non. «I gruppi carismatici, anche cattolici, sono una sorta di movimento dal basso che prende sul serio la cultura popolare: per questo valorizzano la tradizione orale, la leadership laica e l’attiva partecipazione di tutti». La loro forza di attrazione è la «promessa di un’immediata esperienza di Dio e il vivo legame tra i membri di comunità che praticano uno spontaneo ecumenismo». Non si potrà parlare di nuova evangelizzazione senza «ridefinire il contenuto e il senso dell’esperienza religiosa, ... coltivare la sete della preghiera e la fame della Parola, la partecipazione attiva alla celebrazione eucaristica, la docilità ai carismi e la promozione della giustizia e della pace». È questa «la meta di un nuovo cristianesimo dove il cuore e i sentimenti, il linguaggio poetico e simbolico sia altrettanto importane dell’intelletto e del linguaggio analitico e razionale».
Luigi Accattoli, nella sua testimonianza ragionata, ha insistito sulla necessità che la comunità dei credenti tutta, compresa la sua componente istituzionale, riconosca e valorizzi i «fatti di Vangelo» vissuti anche al di fuori dei suoi perimetri ufficiali. A questo obiettivo Accattoli sta dedicando da anni la sua professionalità di giornalista: raccontare «le testimonianze cristiane più radicali e disinteressate, direttamente ispirate alle beatitudini e all’esempio di Gesù: la fede pagata con la vita, ogni forma di misericordia, la povertà scelta o accolta, la sofferenza redenta dalla grazia, l’amore senza motivo e quello per i nemici, l’accettazione della morte nella speranza della risurrezione. ... Alcuni di questi fatti – o segni – costituiscono un dono dello Spirito alla nostra epoca: erano cioè parzialmente o anche totalmente sconosciuti alle generazioni che ci hanno preceduto». Sono questi fatti di Vangelo a mostrare la più forte capacità di convincimento, molto di più delle sole verità concettuali; vanno riconosciuti come veri luoghi teologici, anche quando – spesso – presentano un’immagine dei cristiani diversa da quella divulgata sulla scena pubblica.
Ai religiosi è riconosciuta nella Chiesa l’identità di testimoni. Per loro, per la Chiesa, per il mondo è fondamentale che questa vocazione venga vissuta assecondando lo Spirito, il quale fa nuove tutte le cose, ma mai senza di noi. Non ci può essere evangelizzazione nuova senza la novità della vita, che fortunatamente non siamo noi a darci.