UNA DOMANDA UN PO’ PROVOCATORIA
LA VC PUÒ
CAMBIARE SE STESSA?
La vita consacrata è in grado di cambiare se stessa? Posta così la domanda può
suonare “radicale”, e lo è per il fatto che dalla risposta che diamo dipende
l’esserci o meno nel futuro.
La domanda da cui partire è: perché cambiare? Perché a trovarsi fuori sono
soprattutto coloro che hanno continuato a fare ciò che sempre hanno fatto. Da
qui la conseguenza che molti degli antichi carismi – mentre ne sorgono,
vigorosi, dei nuovi - faticano a proiettarsi nel futuro. A tale situazione si è
arrivati dopo una fase di lunga pace che ha portato molte energie a diventare
routine e a investire la vita nelle «risposte» conosciute più che nelle
“domande”. Non è stata soltanto una situazione di inerzia ma anche ideologica.
Nel Sillabo del 1864 Pio IX aveva condannato come un errore il fatto che il
«papa – e quindi i fedeli – possano riconciliarsi con il progresso, il
liberalismo e la civiltà più recente». Da qui l’immagine corrente di una Chiesa
contraria alla libertà e alle nuove acquisizioni di pensiero e conquiste
umanistiche e scientifiche. Da qui, anche, l’immagine di VC per la quale
“fedeltà” significa essere riproduttori, nel modo più preciso possibile di quei
modelli di conoscenza e di vita ereditati dal passato. Non sorprende allora se
nella VR la “memoria”, a motivo della lettura tormentata dell’attualità
religiosa, diventa “nostalgia”. Cambiare dunque perché fuori contesto si è
confinati a quell’insignificanza propria delle presenze rarefatte e dei mondi a
sé. Gli affanni evolutivi di questi decenni non hanno portato a itinerari
rifondativi, e così si è arrivati a vivere un periodo di ripiegamento, di scarsa
e timida testimonianza evangelica, nonostante l’imponenza delle strutture e la
molteplicità delle iniziative.
Che cos’è cambiato
o sta per cambiare
È cambiata, o sta cambiando, l’epoca. Quella moderna sta vivendo la sua fase
conclusiva. Non stupisce quindi che l’umanità – scrive M.Guzzi – stia
ridisegnando con immensa fatica i lineamenti della propria identità. Siamo
entrati in una fase di straordinaria sperimentazione antropologica, stiamo
edificando una nuova figura di umanità e noi cristiani dovremmo trovarci sulle
frontiere di questa avventura non nelle retrovie a difendere castelli di sabbia
o scene di un teatro irrimediabilmente passato di moda .
È cambiata la persona. Si è passati dall’essere “sudditi” a “concittadini” per
cui oggi l’uomo accosta la fede cristiana spogliata dalle strutture di pensiero
e di potere proprie di un tempo. Per la VC si tratta di riequilibrare un pensare
ancora sbilanciato sul versante strutturale-gerarchico, per fare spazio a un
evangelico, personale, senso della libertà: libertà di arrendersi alla
incessante novità di Dio in ordine a un progetto d’insieme (comunità) che supera
gli orizzonti individuali senza prescindere dall’obbedienza alla coscienza.
È cambiato il modo di intendere la vocazione. Ora questo termine non va a
indicare soltanto, come una volta, le forme di speciale consacrazione, ma viene
a dire la “chiamata”, rivolta a tutti, a diventare figli di Dio. La modalità di
pervenire a questa “identità filiale” è molto varia e particolare per ognuno.
Dio dunque non impone una strada, ne offre molte, dona quello per cui ognuno,
nella sua attesa e nella sua ricerca, porta la predisposizione» . Il fatto che
accettare tale proposta piaccia costituisce un riconoscimento esistenziale
dell’iniziativa di Dio che ci viene incontro, perché lo spirito di Dio iscrive
qui la propria chiamata. Allora scoprire la propria vocazione significa scoprire
attraverso la fede quello per cui uno è fatto, quello che è destinato a divenire
.
È cambiato il modo di concepire la Vita religiosa. La gran parte dei
religiosi/e, per formazione è figlia del tempo in cui l’immagine classica della
VC era prevalentemente quella della rinuncia che implicava una radicale
spoliazione di sé . Sulla scia della morale agostiniana a partire dalla fine del
medioevo la VC si era concentrata sullo stretto legame del tema della salvezza
con quello della rinuncia e del sacrificio. Oggi questi schemi teologici non
hanno più la forza di raccogliere la sfida delle stagioni che mutano. Le forme
attuali di VC, nel sentire di molti e in particolare dei giovani, sono costruite
sulla chiesa preconciliare non su quella “Popolo di Dio”, per cui, la VC,
privata di vari elementi un tempo promozionali quali la plausibilità, la
promozione sociale ed economica, non incuriosisce più.
È cambiato il senso di varie parole. Evangelizzare, ad esempio, non significa
porre l’uomo a servizio di certi ordinamenti religiosi, ma porre la religione al
servizio dell’uomo secondo il dire del Maestro: il sabato è fatto per l’uomo e
non l’uomo per il sabato. La parola “futuro”, che nella VC allude alla
prospettiva di investire per sempre la vita, se un tempo voleva dire voglia,
coraggio, speranza, oggi suggerisce paura. Gli stessi linguaggi usati da molti
religiosi per dire la fede corrono il rischio, per il modo con cui sono detti,
di non essere sentiti in riferimento alle vicende del mondo o comunque vengono
percepiti stantii e ripetuti.
È cambiato l’interesse per i servizi prestati da enti religiosi. Le nostre
attività sono sorte come risposte inedite in periodo di penuria di queste. Ora
non è più così: i bisogni cui rispondiamo sono stati assunti dallo stato e da
questo appaltati a migliaia di enti del privato-sociale per il fatto che sono
diventati “diritti soggettivi”.
È cambiato il modo di “sentire” l’istituzione. Oggi, più di ieri, sia l’identità
che l’unità di un gruppo non sono dati da un elemento istituzionale o da un
sistema di norme, ma da un senso di appartenenza che passa attraverso i rapporti
con persone concrete: è in questa pienezza di relazione anche umana che passa la
salvezza dell’uomo storico. Se le misure amministrative non tengono più è anche
perché si sono allentati i rapporti primari. Non stupisce allora che «la
marginalità dell’interesse – scrive p. Pierluigi Nava – circa i temi quali
regole/diritto proprio, istituzione/organizzazione, autorità/potere,
processi/procedure, metodi e metodologie … e via dicendo sono lasciati ai soli
addetti ai lavori con ricadute minime a livello di formazione di Istituto» .
Nell’attuale società le pratiche di futuro sono da ricercare entro una domanda
antropologica che porta a ritrovare forza ricombinando in modo creativo e
responsabile il principio di fraternità, la quale per essere vera e
comprensibile deve farsi carico di una nuova uguaglianza e una nuova libertà.
Una fraternità “non-mediata”, non agita solo attraverso processi istituzionali,
una fraternità non di “figli” ma di “eguali”. Allora vita da fratelli significa
sentire e trattare l’altro/a alla pari con empatia, quella che Edith Stein
definiva l’atto che sta alla base di tutte le forme attraverso le quali ci
accostiamo ad una altro. Non si sta assieme per farsi dei meriti o per rendere
maggiormente produttivo il lavoro apostolico ma per arrivare ad amare e sentirsi
amati. Questo dire non allude ad avere le coccole, significa sentire di avere un
significato per gli altri e viceversa sentire che gli altri hanno un significato
per me. È l’amore che fa vivere la fedeltà alla vocazione non l’istituzione.
Se queste le cause,
quali le conseguenze
Le conseguenze si possono cogliere nelle storia di questi ultimi decenni. Negli
anni ’50 – quando l’età media è attorno ai quarant’anni – la parola-progetto era
«aprire opere». Negli anni ’70 le attività incominciano a soffrire il paradosso
espresso nel dire di un direttore d’istituto: «in comunità siamo in 20, ma per
l’attività me ne mancano tre pur avendone tre in più». Dopo qualche anno la
parola-progetto diventa chiudere opere; progetto che per sembrare meno
impattante viene detto “ridimensionamento”. Attorno agli anni ’90 si sente il
bisogno di case di riposo ma scarseggia il personale religioso per la
conduzione. L’età media diventa sempre più dominante. Non passano molti anni che
le case di riposo incominciano ad avere liste d’attesa. Negli anni 2005 si fanno
sempre più evidenti i condizionamenti dell’età; ora si preferisce chiamare le
case di riposo case di soggiorno tanto si fa breve la permanenza. Nel 2010 il
direttore (non lo stesso) di quell’opera di 20 confratelli di cui si è detto
sopra, interpellato disse: in comunità il numero di confratelli è lo stesso di
una volta, ma per condurre l’opera come un tempo me ne mancano 17, pur avendone
17 in più i quali ora passano dall’essere stati “cuore” dell’opera, all’essere
“a parte” della stessa. Le attività in qualche modo procedono ma, in numero
crescente con il 90% di dipendenti la cui collaborazione, per i più, è una
esperienza parziale, relegata alle cose da farsi o al tempo lavorativo e non
scelta di una solidarietà che attraversa la vita, frutto di un particolare
carisma capace di dare un “di più” di senso a ciò che si fa e a ciò che si è.
Oggi nel 2011 la statistica del Nord-est, riporta la chiusura in 5 anni di circa
250 opere a cui vanno ulteriormente aggiunte altre 180 attività appaltate.
A questo punto per la VC, la vera questione non è solo come annunciare il
vangelo ma bensì cosa dice a noi, in questa situazione, il Vangelo oggi. Rimane
certamente attuale il dire: sulla tua parola getterò le reti, consapevoli però
che “parola sua” sono anche – e oggi più di ieri – i segni dei tempi, parola non
compresa o troppo a lungo inascoltata. Di fronte a un mare in tempesta – il
riferimento è al naufragio di Paolo, Atti 27 – dobbiamo, come l’Apostolo,
lasciare le “cose inutili” perché nella VC c’è qualcosa di troppo che si è
accumulato.
E se le difficoltà
fossero un’opportunità?
Le crisi aprono sempre possibilità e opportunità. Come avvenne al tempo e dopo
la rivoluzione francese. Nell’intenzione degli autori doveva fiaccare anche la
vita consacrata, ma in realtà attraverso la brusca interruzione della secolare
continuità della vita monastico-claustrale, la vita religiosa femminile, in modo
nuovo rifiorì attraverso le congregazioni apostoliche. Altrettanto avvenne «con
la crisi dovuta alle leggi di soppressione del regno sabaudo estese fra il 1866
e il 1873 a tutta la penisola: dalla chiusura di 527 case femminili sorsero
successivamente centinaia di nuovi Istituti, aprendo inoltre alle religiose,
inedite possibilità di realizzazione» … «il successo delle congregazioni nella
loro fase iniziale si deve al fatto che esse offrivano alle donne uno spazio
autonomo non solo per la vita religiosa ma anche per l’affermazione delle
capacità individuali: le suore delle congregazioni infatti avevano l’opportunità
di imparare una professione (insegnante o infermiera), di viaggiare e di “far
carriera” all’interno dell’istituzione, possibilità che non erano ancora aperte
alle donne nella società laica. La spinta all’istruzione, dapprima osteggiata
dalla Chiesa, portò in quel tempo le suore all’avanguardia dell’istruzione
femminile italiana» .
Come dare vita a pratiche
di futuro desiderabile?
«L’unico tuziorismo che ci è permesso è il tuziorismo del rischio» . Non si
riuscirà a cambiare l’esistente ma potrà far rinascere qualcosa attraverso nuovi
polloni. Abbiamo allora urgente bisogno di nuove visioni, o di un diverso punto
di vista da cui guardare le cose. Senza queste si perde ogni prospettiva ogni
tensione progettuale. È necessario però, fare uno sforzo di comprensione,
ascoltare il respiro inedito dell’umano, estrarre quell’intelligenza di futuro
nascosta in tante sperimentazioni. Servono comunità e Chiesa capaci di stare
nell’inquietudine dell’incontro con il nuovo e il diverso per raccoglierne
valore e promessa; in grado di soffermarsi nello spaesamento sorto dalla crisi
dei propri fondamenti e per ridire nell’oggi l’essenziale .
Cosa dovremmo inventare in una situazione ultima come quella che stiamo
attraversando? Continuare ad accontentarsi semplicemente di guarnire il presente
con piccoli interventi e molti discorsi che sono un miscuglio consolatorio,
fatto di guizzi attraverso cui appagarsi? O continuare a scommettere sui noti
strumenti amministrativi e di governo che in regime di nuova cultura non hanno
sortito cambiamento?
Riporto qui un’idea di K.Rhaner, perito conciliare al quale il Vaticano II° deve
riconoscenza. Nel suo libro Società umana e Chiesa di domani scrive: «Dato che
già una volta mi è stato richiesto un sogno su un papa del futuro, mi è di nuovo
capitato di sognare». E il finto sogno ebbe per oggetto una lettera da lui
scritta a un immaginario amico: «Caro Peppino, in quest’ epoca dobbiamo fare di
più in fatto di futurologia ecclesiale» e a questo fine «non convocherò un
concilio ecumenico … preferirei convocare un gruppo di teologi, sociologi,
futurologi e storici intelligenti. Esso dovrebbe cercare di formulare con
competenza reale, con coraggio e con una certa fantasia creativa, come debbano
procedere le cose nella Chiesa, nella misura in cui è appunto possibile
pianificare una cosa del genere» .
Il sogno immaginario si colloca negli anni ’70; oggi dopo quarant’anni che sogno
farebbe nei panni di un padre/madre generale?