In effetti, il panorama è cambiato notevolmente. Non mi soffermo a descrivere
il fenomeno del progressivo ridursi del numero di religiosi e religiose con la
conseguente chiusura di case, perché è sotto gli occhi di tutti. Davvero c'è da
chiedersi se nelle nostre chiese non si vada verso una vita religiosa con
presenze talmente ridotte da renderla di fatto sostanzialmente assente o
difficilmente avvertita. Come vivranno le chiese locali senza vita religiosa?
Anche se Lumen gentium 44 afferma che la vita religiosa appartiene fermamente o
inseparabilmente (inconcusse) alla vita e alla santità della chiesa, le
situazioni concrete delle chiese possono essere precarie, carenti di ciò che
rende la chiesa veramente e pienamente tale. Questa sarebbe un'esperienza nuova
per le nostre diocesi, non certo nella chiesa universale. Penso, per fare un
esempio, ai paesi sotto i regimi di tipo sovietico, in cui la vita religiosa era
ufficialmente scomparsa; ma penso anche alle chiese in cui molte comunità
cristiane sono abitualmente prive dell'Eucaristia domenicale. Queste non cessano
di essere chiese o comunità cristiane, ma in uno stato di penuria, di indigenza
ecclesiale o sacramentale, prive di elementi che le renderebbero chiese, per
così dire, più complete e più vitali. In ogni caso, si può ritenere che, senza
la vita religiosa o con una sua presenza assai ridotta, sarà più difficile
riconoscere che il Signore è colui al quale ci si può dedicare in totalità
mediante una sequela che investe tutta la persona e tutta l'esistenza, e dunque
potrà attenuarsi la percezione concreta, cioè riconosciuta in determinate
persone e nella loro storia, che si può davvero lasciare tutto per seguire Gesù.
Dico questo, da religioso, quasi con imbarazzo e con il timore di affermare
qualcosa di eccessivo rispetto alla reale testimonianza offerta da persone
consacrate, non sempre evangelicamente significative. Ma se manca chi segue il
Signore – per usare una formula consueta – "più da vicino", può succedere che il
Signore sia percepito più lontano dalla vita degli uomini.
La pratica della comunione, della collaborazione fra istituti religiosi, di
possibili fusioni o federazioni di istituti è attiva a livello locale? Le opere
che i religiosi abbandonano a chi passano?
La mia esperienza nella Congregazione vaticana per la vita consacrata mi fa dire
che alcuni tentativi di unione o collaborazione tra Istituti sono qua e là in
atto, ma ancora in maniera modesta. Bisognerebbe avere più coraggio e promuovere
iniziative nuove, anche perché vari Istituti hanno carismi abbastanza simili. Le
resistenze però non mancano e si spiegano con il fatto che i grandi numeri del
passato facevano sì che ogni Istituto si considerasse dotato di tutto; inoltre
il senso di appartenenza alla propria famiglia religiosa era coltivato in
maniera anche eccessiva. A livello locale qualcosa si muove, ma – mi pare – in
misura assai ridotta: di solito si chiude e si parte. Le opere abbandonate hanno
destini diversi: o semplicemente scompaiono, o vengono assunte, con fatica, da
altre istituzioni, talora anche dalla chiesa locale. In questo caso si
determinano a volte situazioni delicate, perché c'è chi ritiene che se i
religiosi o le religiose lasciano, i loro immobili vadano "naturalmente" alla
diocesi. Ma non è così, e talora ho dovuto assistere a sconcertanti tentativi di
"appropriazione" degli immobili lasciati dagli Istituti religiosi, dimenticando,
oltretutto, che l'assistenza alle numerosissime persone consacrate anziane ha
dei costi e che dell'otto per mille i religiosi e, soprattutto, le religiose non
beneficiano affatto.
Come una Chiesa locale può recuperare i doni spirituali che i religiosi
testimoniano al momento in cui la loro presenza si restringe o scompare? –la
missio ad gentes e la dimensione missionaria; – il discernimento dei carismi che
appaiono nel popolo di Dio; –l'esperienza reale di vita fraterna; – la
condivisione delle grandi vie della spiritualità?
Non è un recupero facile. Realisticamente, talune esperienze importanti per la
vita cristiana si conoscono solo quando si vedono incarnate in persone concrete.
Per esempio nella mia diocesi, oltre ad alcuni sacerdoti fidei donum, vi è
ancora un grande numero di missionari e missionarie appartenenti a Istituti
religiosi. Quando queste persone sostano in famiglia per un tempo di vacanza, vi
è un contatto diretto della gente con l'esperienza della missione; ma i numeri,
ancora una volta, sono in calo e il rischio di una minor attenzione verso la
missione ad gentes è reale. Si esige perciò una attiva animazione missionaria,
per evitare che la chiesa locale si chiuda in se stessa e non sappia guardare
oltre i suoi confini. Si deve anche coltivare la memoria di figure missionarie
significative, che spesso hanno lasciato tracce profonde nelle parrocchie di
origine. Lo stesso si dica per altri apporti propri della vita consacrata. La
stessa vita fraterna, anche se non molto visibile perché praticata in spazi e
relazioni "interne", è ricchezza di vita evangelica che si avvale di una
esperienza secolare; essa può nutrire la comunità ecclesiale. Perdere esperienze
concrete di fraternità religiose, dove persone vivono insieme nel nome di Gesù
senza essersi scelte, può determinare un "calo di evangelicità" per tutta la
chiesa. Per fortuna si diffondono esperienze di comunità presbiterali, anche se
va riconosciuto che, pur costituendo esperienze interessanti e promettenti, non
hanno la densità fraterna della vita religiosa. Vita consecrata 45 afferma che
«per presentare all'umanità di oggi il suo vero volto, la chiesa ha urgente
bisogno di simili comunità fraterne, le quali con la loro stessa esistenza
costituiscono un contributo alla nuova evangelizzazione, poiché mostrano in modo
concreto i frutti del "comandamento nuovo"». Il venir meno delle comunità
religiose dovrebbe spingere a cercare di inventare altre forme di convivenza
fraterna ispirata al vangelo, magari con gruppi sensibili a questa dimensione.
La chiesa ha bisogno di questa esemplarità, perché la comunione la si comprende
solo se la si vede e la si vive. Certo, sono stili di vita che non si
improvvisano.
Come è nata e quali sono stati i risultati della Dichiarazione di intenti
firmata dai vescovi del Triveneto e dai superiori maggiori nel 2010 ?
Questo documento ha radici lontane, perché ha già avuto una sua prima
formulazione all'inizio degli anni '90. Recentemente è stato meglio messo a
punto. Si tratta di un esempio interessante di rapporto tra vescovi e religiosi
ispirato alla comune volontà di servire le chiese, pur nel rispetto delle
competenze che il Codice attribuisce ai vescovi e ai superiori maggiori. La
Dichiarazione mostra che, istituendo momenti di dialogo e di reciproca
attenzione alle legittime esigenze delle diocesi e degli Istituti, si possono
superare antagonismi o logiche di parte, nocivi a una vita di chiesa ispirata ai
valori irrinunciabili della comunione, della testimonianza e della missione.
Insomma, la Dichiarazione è un semplice tentativo di istituzionalizzare il
dialogo, e suona quasi strano il fatto che sia apparsa come un'iniziativa
piuttosto singolare.
Come reagire una chiesa locale davanti alle nuovo presenze comunitarie o
davanti alle nuove fondazioni?
Ci sono senza dubbio presenze nuove pregevoli, frutto di intuizioni attente
all'oggi della chiesa o capaci di valorizzare nel presente patrimoni spirituali
che la vita religiosa ha accumulato nei secoli: esse manifestano la creatività
inesauribile dello Spirito e possono aiutare anche le istituzioni che hanno una
lunga storia a trovare vie di rinnovamento. Credo però che il discernimento (del
vescovo, della Santa Sede) debba essere molto avveduto. Alcune nuove presenze
comunitarie sembrano nascere sull' onda di fenomeni religiosi problematici, che
non sempre attingono alle fonti genuine della spiritualità cristiana; altre
paiono usare forme di "proselitismo" poco rispettose della libertà interiore
persone, con stili di leadership discutibili quanto a rispetto delle coscienze.
Anche la mia esperienza presso il Dicastero per la vita consacrata mi rende
convinto che è necessario un esercizio rigoroso del discernimento al momento
della nascita di nuove comunità; il dover intervenire dopo è assai problematico
e produce sofferenze che si sarebbero potute evitare. Io ritengo che accogliere
o meno una nuova presenza di persone consacrate in una chiesa locale sia una
scelta di grande responsabilità, che non può essere guidata solo da criteri di
necessità o utilità pastorale. Una comunità di persone consacrate deve offrire
una testimonianza di vita evangelica, una esemplarità sul piano della preghiera,
della carità, dello spirito fraterno, della sobrietà, della maturità umana e
spirituale: deve essere vangelo vissuto e deve mostrare capacità di inserimento
positivo nel tessuto ecclesiale.
Dallo «stato di perfezione» della tradizione alla «santità del credente» del
Vaticano II: come alimentare la radicalità del Vangelo nel popolo di Dio nel
momento in cui la vita religiosa e consacrata perde di visibilità?
Agli evangelicamente "piccoli" saranno sempre rivelati i misteri del Regno (cf.
Mt Il,25), a qualunque categoria ecclesiale essi appartengano. La santità, che
si concentra nella carità, è strada aperta davanti a tutti. Alcune situazioni
matrimoniali o familiari (ho visto in qualche casa un'assistenza amorevolissima,
per anni, a malati cronici), alcuni impegni di laici missionari, un certo
volontariato sistematico e generosissimo, forme di grande dedizione agli altri
in tanti ambiti della vita, costituiscono spesso delle autentiche scelte
radicali, anche se non istituzionalizzate o visibili come la vita religiosa. Del
resto i religiosi sanno bene che l' ''eccellenza oggettiva" del loro status
ecclesiale, sempre ribadita dal magistero, può essere clamorosamente sconfessata
da una quotidianità mediocre o incoerente. È vero, tuttavia, che il venir meno
della vita religiosa potrebbe ridurre l'esperienza della radicalità, intesa nel
senso di una scelta per il Signore totale e definitiva, quale è appunto quella
delle persone consacrate. Bisogna allora aiutare a superare una concezione
superficiale della fede, ridotta a scelta provvisoria e frammentaria, limitata
al "finché ci provo gusto".
In sostanza, tutte queste domande pongono un difficile interrogativo: come
trovare qualcosa che "rimpiazzi" la vita religiosa, là dove essa viene meno? Il
quesito ci trova impreparati; le risposte esigono riflessione, anche se verrebbe
spontaneo dire che, alla fine, l'importante è che ci siano dei "veri cristiani",
siano essi laici, religiosi o membri del clero. In realtà la chiesa ha bisogno
delle varie vocazioni e, anzi, deve farsi luogo in cui le chiamate del Signore
risuonino con nitidezza. E tuttavia dobbiamo accettare di vivere in chiese
"impoverite" (anche di clero, anche di sposi cristiani, anche di educazione
cristiana, anche di missionari, ecc.), senza sterili lamenti e nostalgie, ma con
una tenace volontà di essere cristiani qui e ora, nel nostro tempo e nelle
nostre chiese, comunque. Ma anche con la certezza che Qualcuno ci cammina
accanto, come ai due discepoli di Emmaus. Della sua presenza non saremo mai
privati o "impoveriti", e Lui continuerà a suscitare nuovi discepoli desiderosi
di seguirlo, magari in forme a cui noi non sappiamo ancora pensare.