Il 16 luglio, a una settimana dalla proclamazione dell'indipendenza del Sud
Sudan, mons. Cesare Mazzolari, vescovo comboniano, è morto a Rumbek, mentre
celebrava la Messa con i suoi confratelli e con coloro che amava più di ogni
altra cosa, più di se stesso: i fratelli e le sorelle sud sudanesi.
Da trent’anni in Africa, con loro aveva scelto di vivere: coraggioso e
infaticabile, lottò contro l’oppressione e le ingiustizie, girò ogni angolo del
paese per portare parole di speranza, per aiutare la gente a ritrovare la
propria identità e dignità, a ricostruire un futuro di pace e di autonomia dopo
i lunghi anni di guerra civile. Un vero “padre” per il popolo sud sudanese e una
grande guida.
Un intero popolo con il suo pastore
Il 21 luglio nella cattedrale della Sacra Famiglia a Rumbek, capitale del nuovo
stato e sede arcivescovile, si sono celebrati i suoi funerali.
La spianata davanti alla cattedrale ha accolto la folla accorsa dalle varie
missioni della diocesi per salutare il proprio vescovo per l’ultima volta. Alla
processione di apertura della celebrazione una banda musicale locale, nata per
volontà di un padre salesiano sudcoreano, ha intonato “When the Saints go
marching in”, la marcia funebre jazz cara a Louis Armstrong che esprime il
desiderio del paradiso insieme a tutti i santi.
«Oggi è qui riunito tutto il Sud Sudan – ha detto durante l'omelia Paolo Lokudu
Loro, arcivescovo di Juba che ha presieduto la celebrazione –. Mons. Mazzolari è
stato un pastore per questa terra, ha sempre camminato a fianco degli oppressi,
incarnando pienamente nella sua vita il Vangelo di Gesù. È stato la ‹voce di
libertà del Sud Sudan›, ha sempre creduto nella possibilità dell'indipendenza,
anche quando la guerra civile imperversava con il suo strascico di morte e
distruzione. Mons. Mazzolari – ha proseguito – ha aperto il cammino verso
l'indipendenza del Sud Sudan e ora intercederà per noi presso Dio perché il
processo di formazione nazionale sia completo».
Il rito funebre si è concluso dopo quattro ore, ma la cattedrale di Rumbek ha
continuato a essere meta di numerose persone che hanno voluto recarsi alla tomba
del proprio Pastore. Il vescovo, per ragioni igieniche, era già stato sepolto il
lunedì all'interno della Cattedrale per rispettare il suo desiderio di restare
in Sud Sudan “in mezzo alla sua gente”. E la sua gente, interminabile fila di
donne e uomini, cattolici, protestanti, musulmani e animisti, è venuta per lui
da ogni angolo del Paese.
Una voce di speranza
Mons. Mazzolari era stato nominato per la Diocesi di Rumbek nel mezzo della
guerra civile che ha flagellato il Sudan per più di due decenni, provocando
oltre 2 milioni e mezzo di morti e costringendo milioni di persone ad
abbandonare case e villaggi. Poco dopo essere diventato Amministratore
apostolico di Rumbek nel 1990, riaprì centri missionari devastati dalla guerra,
aiutò a organizzare l'assistenza umanitaria per migliaia di rifugiati, negoziò
la libertà per tante persone ridotte in schiavitù e per i bambini-soldato.
Mentre Rumbek e la zona circostante si trovavano sotto continui bombardamenti
aerei, nel 1994 Mazzolari fu catturato e tenuto in ostaggio per 24 ore dai
guerriglieri dello SPLA (Esercito Sudanese di Liberazione Popolare), gruppo
armato indipendentista in lotta contro il Governo islamico.
Nominato Vescovo di Rumbek nel 1999, continuò a lottare contro gli effetti della
violenza diffusa, proseguiti anche dopo il periodo del cessate il fuoco del
2003-2004, quando migliaia di rifugiati giungevano dal Darfur. Una settimana
prima della morte aveva guidato il rito per l’indipendenza del Sud Sudan,
divenuto il 54o stato africano, pronunciando un forte messaggio di speranza per
il futuro del popolo che amava. In mezzo alla sua gente Mazzolari condivise
coraggiosamente le conseguenze della guerra e della povertà, e fu segno di
straordinaria speranza di pace. A tutti chiedeva l'impegno a «non dimenticare
perché la gente del Sud Sudan ha bisogno di una pace giusta nel rispetto dei
diritti umani». Lavorare quotidianamente nella diocesi non significava solo
sfamare e aiutare il popolo sudanese ad uscire da una condizione di povertà
totale, ma creare i presupposti per mantenere la pace, firmata il 9 gennaio
2005.
Per non disperdere la propria opera, mons. Mazzolari fondò l’associazione CESAR
(Coordinamento Enti Solidali a Rumbek), una onlus italiana nata per dare
risonanza alla drammatica situazione vissuta dalle popolazioni sudanesi,
organizzando numerosi interventi di informazione e sensibilizzazione su tutto il
territorio nazionale. Tuttora l'associazione promuove, in ogni sua forma, lo
sviluppo sociale, culturale ed economico della diocesi, con particolare
riferimento a progetti per l‘educazione, l'istruzione, la salute, la giustizia,
la pace e l'evangelizzazione. CESAR favorisce inoltre il coordinamento di tutti
quegli enti e quei gruppi di appoggio orientati a promuovere attività di
cooperazione allo sviluppo, in favore delle popolazioni del Sud Sudan.
Ideale missionario a undici anni
Cesare Mazzolari era nato il 9 febbraio 1937 a Concesio (Brescia), in una
famiglia profondamente religiosa, amica di casa Montini, e allietata dal dono di
altri tre fratelli e due sorelle. Cesare cominciò a esprimere i suoi ideali
missionari a undici anni. Entrò così giovanissimo nell’Istituto dei Comboniani e
il 17 marzo 1962 fu ordinato sacerdote. Presto andò negli Stati Uniti, dove, a
Cincinnati, operò fra i neri e i messicani che lavoravano nelle miniere. Nel
1981 si trasferì in Sudan: prima nella diocesi di Tombura-Yambio, poi
nell’arcidiocesi di Juba, nell’area centro-meridionale. Nel 1990 fu nominato
amministratore apostolico della diocesi di Rumbek, estesa quanto la Lombardia e
il Triveneto e abitata da 3 milioni di persone.
Nel 1991 aprì la missione di Yirol, la prima di una lunga serie: alcune missioni
furono poi abbandonate sotto l’incalzare della guerra. Tuttavia “l’infaticabile
uomo di Dio” non si arrese mai. Costruì un ospedale in mezzo alla foresta di
Mapourdit che attualmente offre aiuti per la salute e cure a 300 mila persone
per un territorio di centinaia di chilometri. Istituì la prima scuola superiore
sotto forma di collegio, per ragazze di tutto il Sudan e garantì istruzione e
formazione a 50 mila giovani. Con l’aiuto della onlus CESAR diede vita ad altri
due progetti: una nuova cattedrale a Rumbek, per sostituire quella già colpita
dai bombardamenti e ormai troppo piccola, e il primo istituto magistrale per
formare gli insegnanti del nuovo Sud Sudan. Mazzolari era convinto che qui
servivano scuole e Vangelo, libri e preghiere, cultura e catechismo.
Amore per un popolo oppresso
Era urgente per mons. Mazzolari affrontare anche la piaga della schiavitù,
l’“infame traffico” che già Daniele Comboni denunciava a metà Ottocento e che
oggi ha Khartoum come centro di smistamento da parte dei bagghar, i razziatori
islamici che scendono al sud a caccia di carne umana, e l’Arabia Saudita e il
mercato arabo come destinazione finale. All’inizio della sua missione Mazzolari
pagò di tasca propria per liberare 150 schiavi. Poi capì che così finanziava un
mercato chiuso, un circolo vizioso di tristi conseguenze. E allora incominciò ad
accogliere giovani finiti nelle mani dei trafficanti, restituendo loro un futuro
insperato. Suzanne Jambo era una ragazza schiava di Rumbek; il vescovo la
accolse nelle sue scuole, poi la inviò a Kitale, in Kenya dove, durante la
guerra, era stata aperta la Bakhita School, intitolata alla santa sudanese.
Suzanne poi si è laureata alla Catholic University of Eastern Africa di Nairobi;
a Oxford è diventata avvocato. Oggi governa le pubbliche relazioni del nascente
stato sud-sudanese. «Il vescovo mi ha letteralmente salvata» dice.
Mazzolari amò fortemente il popolo del Sud Sudan e donò tutto se stesso per
riportarlo alla sua dignità. Un popolo a sud del Nilo, formato da tante tribù di
cui i dinka nuér, schilluk sono le più numerose. Un popolo segnato da grosse
ingiustizie e gravi differenze sociali. Nella società nilotica la donna ha un
valore inferiore alla mucca, unità-base della ricchezza umana e sociale: i
pastori dinka misurano tutto con l’unità-mucca. Un matrimonio viene calcolato
dunque in vacche, perché una giovane vale 20 bestie se è normale, ma ne vale 40
se è bella, o 60 se è bellissima. Ma se è istruita, il prezzo crolla
vorticosamente. I ricchi possidenti ritengono che una ragazza che sappia leggere
e scrivere, che abbia coscienza di sé, sia solo fonte di guai. Mons. Mazzolari
si è battuto instancabilmente in difesa dell’emancipazione della donna
Più con i fatti che con le parole
«Il mondo non conosce la guerra che abbiamo subito – disse il vescovo in una
recente intervista. Da voi in occidente se scoppia una bomba in un mercato o in
una stazione dite che è terrorismo. Giusto. E da noi? Gli Antonov di Khartoum
che bombardavano le scuole, le chiese, gli ospedali … Non era terrorismo anche
quello? Non per altro Al Bashir è ricercato dal Tribunale internazionale dell’Aja
per crimini di guerra in Darfur, altro buco nero del Sudan». Negli anni Ottanta,
mons.Mazzolari denunciò la mala operazione delle forze dello SPLA. In quegli
anni di carestia il World Food Program inviava carichi di aiuti per via aerea.
«Ma dopo indagini dirette abbiamo dimostrato che solo il dieci per cento di
quegli aiuti alimentari arrivava alla gente. Il resto se lo intascavano i capi
dei guerriglieri ribelli dello SPLA, che poi lo rivendevano ai capi tribù».
Accusa di lesa maestà che costò a Mazzolari il titolo di “persona non grata”:
per novanta giorni fu espulso dal Paese. Riabilitato dal governo di Nairobi, il
vescovo missionario continuò a vivere con coraggio e grande fede in mezzo al suo
popolo. Recentemente, in un incontro, aveva detto: “Ho imparato che Dio fa a
modo suo. Egli sa trarre una riga dritta da una riga storta. La Chiesa non è
un’agenzia o una società umana, ma una famiglia animata da Dio e che è mantenuta
come corpo di Cristo. Pur in mezzo a tutte le avversità e pur barcollando,
Cristo è al timone della Chiesa”.
Parole di speranza e di fiducia che rendono ancora vivo e presente nel suo Sud
Sudan mons. Mazzolari, nonostante la sua morte abbia lasciato un vuoto grande
nel momento forse più delicato, quello in cui – spente le luci sul primo giorno
del nuovo Stato, con le cerimonie, le bandiere, le parole ufficiali – la sfida
di costruire il paese inizia con tutto il suo carico di serietà e
responsabilità.