La tappa di formazione successiva al noviziato – quella del cosiddetto juniorato – è importante perché è quella in cui si consolida la verità della vocazione, si prova e si purifica ciò che è iniziato come un idealismo generoso nel cuore e in definitiva in cui si irrobustisce la consistenza del religioso e della religiosa. Ma è anche una tappa vulnerabile per le sfide istituzionali e formative che si devono affrontare, e anche per la difficoltà personale di riuscire a integrare tutte le dimensioni antropologiche e spirituali che entrano in gioco.
Lo fa notare il padre gesuita spagnolo Luis María Dominguez, formatore della Compagnia di Gesù a Salamanca, in un articolo della rivista spagnola Vida religiosa, dedicato a questo argomento.
Con un’analisi acuta, frutto anche della sua esperienza, Il padre descrive i “rischi” a cui giovani professi vanno incontro e che sono chiamati a superare. Bisogna tenere presente, osserva, che in ciascuno di noi si mescolano i valori spirituali – per esempio quelli inerenti alla vocazione – con quelli naturali, in maniera cosciente oppure no. Si crea così una inevitabile tensione tra l’io ideale e quello reale che condiziona parecchio la nostra condotta. E ciò succede (forse specialmente) nella tappa dello juniorato. «Pertanto, osserva p. Domínguez, lo junior o la juniora, una volta usciti dal tunnel del noviziato e meno soggetti al giogo dell’istituzione formativa (o, in altri casi, dal nido accogliente) sono soliti sentire che quei dinamismi non tanto spirituali tornano a riemergere con nuova forza nella loro vita quotidiana. E così appaiono i rischi che ora vengono descritti».

Svuotamento degli ideali


Col termine “rischi” si intendono dei modelli di comportamento meno maturi che non favoriscono una crescita formativa. Si tratta di alcune dinamiche esistenziali più o meno frequenti.
Il primo di questi, negli anni successivi al noviziato, è lo svuotamento degli ideali iniziali, il regresso al realismo plateale dopo l’entusiasmo del noviziato, e l’adattamento alle circostanze di vita e ai tempi che corrono. È un relativizzarsi delle convinzioni che si avevano al noviziato, un minore sforzo nelle opere virtuose, e a volte quasi eroiche, della tappa precedente. C’è anche una costatazione statistica di questo fenomeno, che del resto emerge anche dall’osservazione quotidiana: due o tre anni dopo i primi voti, la maggioranza degli e delle juniores tende ad abbassarsi secondo due variabili. La prima è che i loro ideali sono ora meno alti rispetto all’inizio del noviziato; aspirano a cose meno spirituali, meno elevate. Per esempio, essi non desiderano tanto donare la propria vita a Cristo, ma a occuparsi di Cristo; non parlano tanto di offrirsi per missioni lontane e difficili, ma pensano che attorno a sé c’è molto da fare, e così per altri aspetti.
La seconda variabile di discesa verso il basso è che i loro comportamenti sono meno virtuosi rispetto all’inizio del noviziato. Per esempio, non si sacrificano tanto per gli altri, non pregano molto e non compiono il loro lavoro con tanta abnegazione, non sono molto generosi o impegnati come all’inizio del noviziato, mentre i loro rapporti con la famiglia sono meno distaccati e più coltivati.
Perché questo processo costituisce un rischio? – si domanda p. Domínguez. Perché una vita consacrata senza ideali non si sostiene; e anche perché senza ideali il motore antropologico non si muove, la motivazione non si attiva e la persona non si sente spinta dal meglio di se stessa. In questo modo la persona è frenata nella sua crescita, diventa pigra invece di camminare, si adegua alla figura di questo mondo anziché configurarsi all’ideale di Cristo.
Come si può spiegare questa situazione? Certamente, sottolinea p. Domínguez durante il noviziato esiste un cambiamento reale di ideali (che si elevano) e di comportamenti virtuosi (che migliorano); ma questo cambiamento nella dimensione spirituale cosciente non è accompagnato nello stesso periodo da un cambiamento più profondo nella dimensione della conoscenza di sé e delle motivazioni profonde. Questa dimensione più profonda e durevole che costituisce il fondamento che non cambia, a medio termine trascina verso il basso la dimensione spirituale che era cresciuta. Il cambiamento cosciente e volontario dell’io ideale avvenuto al noviziato non è accompagnato dal cambiamento dell’io attuale, ma resta più latente e involontario: i valori vocazionali non acquistano consistenza e a medio e lungo termine si sgretolano come la casa costruita sulla sabbia, con delle conseguenze, per esempio, sui voti di castità, povertà e obbedienza.

La fuga in avanti


Un altro rischio è la fuga in avanti, ossia verso lo spiritualismo, verso il rifugio spirituale in alcuni fondamenti lontani dal mondo. O, secondo un’altra modalità, una forte identificazione con figure significative che incarnano un ruolo molto chiaro (pastorale, religioso, istituzionale) che offre sicurezza, identità e progetti a chi non li ha.
In che consiste questo rischio? Nel fermarsi allo stereotipo, a un cliché, al dominio del super io, per usare il linguaggio freudiano; forse col pericolo aggiunto di disprezzare coloro che non sono tanto fedeli. Lo spiritualismo suole essere disincarnato, non considera le dimensioni antropologiche della natura umana, crede di superare le forze psichiche più problematiche con il controllo della repressione, l’isolamento e una ingenua sublimazione. Ma ogni vita cristiana deve prendere in considerazione le motivazioni e intenzioni profonde.
Nel caso della identificazione con un ruolo religioso forte si tratta di una posizione “posticcia” perché rafforza il proprio io ideale con un’impalcatura esterna, ma non si costruisce l’identità con una struttura forte interiore, perché si cerca al di fuori (in personaggi, istituzioni, immagini, funzioni o riti precisi) una sicurezza che non si possiede dentro di sé. In altre parole, non si internalizza una identità profonda da cui sorgano poi i comportamenti o le funzioni…

Una consegna dimezzata

Un altro rischio è quello di una generosità che si esaurisce nella dedizione agli altri: consiste nel farsi in quattro per tutti, spendere il proprio tempo per gli altri, fare agli altri più bene che a se stessi. L’oggetto di questa predilezione apostolica e affettiva può essere molto vario, per esempio, la propria comunità o qualche membro più debole della medesima. Altre volte può riguardare l’apostolato: la catechesi, il gruppo di giovani, un movimento ecclesiale in cui si è impegnati, un progetto sociale, una causa di qualsiasi genere, ecc.
In queste situazioni l’accento è posto sull’aspetto affettivo, dal momento che c’è molto coinvolgimento emotivo in questa dedizione che dal di fuori è percepita come un po’ indiscreta. Ad essa possono mischiarsi anche elementi ideologici che giustificano e fondano questa dedizione davanti a se stessi, ai superiori o alla comunità.
Costituisce un rischio perché non è discreta (è priva di discernimento), troppo mossa da un impulso emotivo anziché da una scelta ponderata dal punto di vista razionale e spirituale… Ed è un rischio vivere in base a un sentimento vicario e non a un sentimento propriamente personale; di sentire con gli altri, ma senza percepire i livelli emozionali profondi che si portano nel proprio cuore.
Inoltre, può anche generare ansia, insoddisfazione e, in definitiva, frustrazione perché l’affetto in questione non cerca direttamente la gloria di Dio e il bene del prossimo, ma cerca senza saperlo di soddisfare qualche vuoto personale. Alla base ci può essere una mancanza di affetto di cui il giovane e la giovane credono di non aver bisogno, ma che in realtà cercano dove pensano di poterlo trovare.

Rischio di ritagliarsi un proprio progetto

Un altro rischio, secondo p. Domínguez. sta nel ritagliarsi un progetto personale soddisfacente. Può riguardare il piano accademico attraverso determinati studi o il raggiungimento di certi gradi (master, dottorato), oppure l’impegno in un progetto apostolico del tutto personale, in un centro pastorale o sociale o in un’opera educativa. Il problema si pone per il fatto che si tratta di un progetto proprio che la persona fa suo, anche se può trattarsi di un’attività che fa del bene ed è bene svolta e apprezzata.
Il rischio qui sta nel personalismo, nel dominio della gestione del lavoro e delle persone implicate (collaboratori o destinatari), oppure nel pericolo dell’individualismo.
Senza dubbio è del tutto naturale il desiderio di realizzare un progetto significativo. Ma il religioso ha rinunciato al proprio progetto per legare la sua vita unicamente a quello di Cristo e della Chiesa, attraverso la sua congregazione. Questo guardare al proprio progetto può avere come conseguenza lo spegnimento degli ideali evangelici i quali perdono la loro forza di motivazione per dedicarsi a un progetto in cui il proprio io sembra scomparire.
Un’altra spiegazione è il bisogno difensivo del successo, del trionfo, della realizzazione nel campo professionale; il ruolo sociale risulta così più importante per la propria autostima che non per ciò che Dio e la sua missione chiedono. È un successo che cerca di compensare altre deficienze, come alla difficoltà a far fronte all’irrilevanza sociale, alla critica altrui o a una fragile identità personale, umana e vocazionale. Anche se non è sempre così.

Un attivismo dispersivo

Un ulteriore rischio di questa tappa della vita è quello dell’attivismo dispersivo. Vive così colui che è dappertutto, ma non approfondisce niente, colui che va qua e là attraverso i compiti propri di un giovane religioso (studiare, vivere in comunità, esercitare qualche apostolato, uscire con gli amici ecc.), ma vive tutte queste realtà in una serie di sequenze slegate tra di loro, senza approfondire le relazioni, senza che si impegni nella preghiera, incapace di stare semplicemente con se stesso. Vive distratto. L’accento in queste situazioni è posto sulla molteplicità degli oggetti di attenzione, sull’attrattiva di molte cose interessanti. Egli sembra cadere nella tentazione di sapere tutto, di sperimentare tutto, di provare tutto, ma col desiderio di ritenere tutto, non solo quello che realmente è valido.
Questa atteggiamento costituisce un rischio perché in una situazione del genere manca una gerarchia di valori, non si selezionano le opzioni prioritarie, non si coglie il posto che ha ogni cosa nell’insieme, non c’è un “per che cosa” che sia chiaro. Una persona del genere non integra, ma accumula. Ma l’accumulo quantitativo si può assimilare solo fino al punto di saturazione, a partire dal quale per crescere la cosa unicamente necessaria è il cambiamento qualitativo che questa persona non attua.
Ci possono essere varie spiegazioni a questo attivismo dispersivo. Una è l’incapacità di selezionare, di scegliere ciò che è meglio, di optare fra varie opinioni, non avendo una gerarchia di valori internalizzata che si metta in atto nelle situazioni concrete… Ci può essere anche la frustrazione di chi vuole soddisfare molteplici bisogni senza una dinamica motivazionale predominante e più o meno stabile.
Queste situazioni manifestano una eccessiva ansia personale che, se è molto prolungata e ripetuta, e associata a una costante instabilità, può riflettere una certa fragilità psichica. Questo avviene anche quando riflette l’incapacità a gestire la diversità, quando non si percepisce un’idea stabile e non contraddittoria a riguardo di ciò che si vuole essere e fare, quando non appaiono chiare le finalità di questa vita, i propositi personali. Se queste dinamiche sono molto marcate e prolungate potrebbero essere segno di una vera disorganizzazione psichica.

Il rischio dello scoraggiamento

L’ultimo rischio da segnalare è lo scoraggiamento in questa lotta antropologica che è tutta la vita spirituale, scoraggiamento che può giungere fino all’abbandono della vocazione, senza un discernimento sufficiente, oppure senza nessuna conferma ecclesiale. Può avvenire per molte cause immediate, come la stanchezza verso la comunità o il progetto comune, per il desiderio di autonomia di fronte al controllo della comunità e dei superiori; per cercare un rifugio affettivo nella relazione di coppia (forse idealizzata) di fronte a un affetto oblativo e universale più austero.
Bisogna avere molto rispetto per coloro che prendono queste decisioni, ma l’arrendersi di fronte alla difficoltà non sembra una opzione umanamente molto valida, perché manca un vero discernimento.
Nel cammino formativo, conclude p. Domínguez è necessario avere un accompagnamento se si vuole che l’autoinganno non abbia a distorcere la percezione delle cose e perché il discernimento spirituale a due confermi le mozioni spirituali. Durante la tappa dello juniorato è frequente che le attrattive e le motivazioni naturali si risveglino con una forza maggiore rispetto a quelle vocazionali che erano predominanti in noviziato. Per questo con l’aiuto degli altri si possono scongiurare i rischi segnalati e purificare la persona e la vocazione per una risposta concreta e feconda, consistente e perseverante, al servizio di Dio e del suo popolo.