Si sente spesso dire che l’esigenza di «andare a confessarsi» è
«un’invenzione dei preti». Il motteggio popolare, il rifiuto eretto a principio
dal protestantesimo, la crescente disaffezione dalla pratica di questo
sacramento negli ultimi tempi, sembrerebbero accreditare la fondatezza di una
tale asserzione, non priva di una aperta ironia. Ma se c’è un sacramento che i
preti non hanno inventato è proprio questo! Ci aiuterà presto a comprenderlo
tutto ciò che ne dicono così chiaramente la Scrittura e il Cristo.
Ma si impone, prima di tutto, una costatazione. Mentre di fatto ci si confessa
assai meno e quasi nemmeno più in numerosi ambienti cristiani, i divani degli
psicanalisti traboccano invece di ogni genere di confessioni; oggi la
confessione dei torti si fa al grande pubblico attraverso i media; dappertutto
si ostenta un neo-moralismo denunciando in questo modo il rifiuto dei vecchi
tabù, i nuovi mali della società e dell’individuo: la colpevolezza si propala ai
quattro venti: i peccati di ogni genere, personali e collettivi, sono
continuamente confessati o vantati… Al punto che, questo nuovo mondo, sentendo
d’un tratto “il vecchio”, si trova come in un perpetuo stato di confessione e si
avverte che la libertà e la pace non crescono per questo tra i popoli e nei
cuori. Ci si potrebbe perciò, di rimando, senza ironia, ma senza giri di parole,
in nome della Verità (quella che non abbiamo, ma che Cristo ci dona), chiederci
il perché.
Si tratta di diventare una creatura nuova afferma l’apostolo Paolo (Gal 6,15).
Per fare questo, conoscendo il dramma del peccato nel cuore dell’uomo e nel
mondo, qualunque sia il nome con cui lo si chiami, che cosa è importante? Non è
forse importante anzitutto vederlo per rinunciarvi? Di confessarlo poi, allo
scopo di esserne liberati? E soprattutto di superarlo per rinascere alla Vita?
Ma, si dirà, tutto ciò non è così semplice. E sorgono nello spirito una ridda di
domande che non si possono eliminare in nome di un solo precetto evangelico.
Perché in effetti confessarsi? Chi ce lo chiede? Non è un attentato alla nostra
libertà? Un alimentare morboso di un sentimento sterile di colpevolezza? E
inoltre, in che modo la confessione dei nostri torti può farci crescere? Perché
manifestare all’esterno i nostri sbagli nascosti e perché doverlo fare ad un
altro? Perché davanti a un prete? In ogni modo Dio sa già tutto e questo non ci
cambia. E poi, si sa come fare, a quel ritmo procedere e a chi indirizzarsi?
Sono altrettante domande perfettamente accettabili e che si riducono a due
grandi interrogativi a cui si deve poter rispondere in tutta chiarezza. Perché
confessarsi e come farlo? Allo scopo di diventare una creatura nuova!
Perché confessarsi?
Ci sono quattro ragioni essenziali che ci inducono a confessare le nostre colpe:
la prima viene da Dio; la seconda dall’umanità; la terza da ciascuno di noi, e
la quarta da ciò che si può chiamare la grazia del sacramento.
– È Dio il primo a chiederci di confessarci. Posta così, l’affermazione può
sorprendere, ma è letteralmente vera. Inviando il suo Figlio sulla terra, il
Padre vuole lavare i peccati del mondo intero (Gv 3,16-17). Ed è necessario che
questo perdono possa manifestarsi, espandersi, essere accolto e condiviso. Il
Cristo, allora, ha parlato. I giorni della sua carne non sono durati che un
certo tempo, ma il perdono che è venuto a portarci è da sempre e per sempre. Chi
ascolta voi ascolta me, ha detto ai suoi apostoli (Lc 19,16). Ed egli dona loro
il potere di prolungare la sua opera redentrice: di rendere attuale la grazia di
questo perdono donato una volta per sempre (Eb 9,12; 7,27). Infatti la sua morte
è stata una morte al peccato una volta per tutte ( Rm 6,10).
Egli ha parlato, anzitutto, a Pietro con grande chiarezza: A te darò le chiavi
del regno dei cieli:Tutto ciò che legherai sulla terra sarà legato nei cieli (Mt
16,19). Ai discepoli, in seguito, come rappresentanti della comunità, dice molto
esplicitamente, al plurale questa volta: In verità io vi dico: tutto quello che
scioglierete sulla terra sarà sciolto in cielo (Mt 18,18).
La sera stessa della sua risurrezione, infine, il primo e l’ottavo giorno della
settimana che diventa il giorno del Signore, egli annuncia solennemente agli
apostoli riuniti che saluta con un duplice shalom, soffiando su di loro:
Ricevete lo Spirito Santo. A coloro cui perdonerete i peccati, saranno
perdonati; a coloro a cui non perdonerete no saranno perdonati (Gv 20,19-23).
Perciò, la volontà del Figlio di Dio sulla terra è chiaramente manifestata. Se
si vuol credere ai testi evangelici, allora è ben difficile negarlo in nome del
dato rivelato.
Mettendo in pratica questi precetti del Signore, gli apostoli parleranno nel
medesimo senso. Giacomo, estendendo questa condivisione del perdono giunge a
dire: Confessate perciò i vostri peccati gli uni agli altri e pregate gli uni
per gli altri per essere guariti (Gc 5,16). Giovanni lo ricorda ancor più
fondamentalmente: Se diciamo di essere senza peccato, inganniamo noi stessi e la
verità non è in noi. Se confessiamo i nostri peccati, egli è fedele e giusto
tanto da perdonarci i peccati e purificarci da ogni iniquità. Se diciamo di non
avere peccato, facciamo di lui un bugiardo e la sua parola non è in noi (1Gv
1,8-10).
E Paolo invitando esplicitamente gli apostoli di Cristo a esercitare il
ministero e a trasmettere la parola di riconciliazione, dice molto chiaramente:
Tutto questo però viene da Dio, che ci ha riconciliati con sé mediante Cristo e
ha affidato a noi il ministero della riconciliazione. Era Dio infatti che
riconciliava a sé il mondo in Cristo, non imputando agli uomini le loro colpe e
affidando a noi la parola della riconciliazione. E conclude, Noi, dunque, siamo
ambasciatori: per mezzo nostro è Dio stesso che esorta. Vi supplichiamo in nome
di Cristo: lasciatevi riconciliare con Dio (2 Cor 5,18-20).
Davanti alla chiarezza, alla forza e al valore di questi testi è molto difficile
affermare che il Nuovo Testamento, sia evangelico che apostolico, non
istituisca, propriamente parlando la pratica di un perdono domandato e ricevuto,
dato e condiviso, come Gesù stesso per primo ha praticato e voluto.
Del resto si può notare che questa realtà non è un’istituzione radicalmente
nuova, apparsa solamente con la predicazione del rabbi Gesù. Tutto l’Antico
Testamento ce ne prepara già e ci introduce ad essa. Si ricordi per esempio il
rito significativo, che bisogna comprendere bene, del “capro espiatorio” che
traduce questo senso innato del peccato tanto pesante e collettivo e la volontà
ferma avvertita da tutto il popolo di liberarsene (Lv 16, 5-10).
E ciò che i salmi proclamano quando cantano: Beato l'uomo a cui è tolta la colpa
e coperto il peccato (Sal 32,1) deducendone, questa volta sul piano strettamente
personale: Ti ho fatto conoscere il mio peccato, non ho coperto la mia colpa. Ho
detto: Confesserò al Signore le mie iniquità"e tu hai tolto la mia colpa e il
mio peccato (32,5).
O ancora il famoso salmo Miserere con degli accenti che trascendono le età:
Pietà di me, o Dio, nel tuo amore;nella tua grande misericordia cancella la mia
iniquità. Lavami tutto dalla mia colpa, dal mio peccato rendimi puro (Sal
51,3-4. E non dimentichiamo che Davide, il grande re Davide, prima di pregare
così si era letteralmente “confessato” davanti a Natan dicendo: Ho peccato
contro il Signore!". Natan rispose a Davide: "Il Signore ha rimosso il tuo
peccato: tu non morirai (2 Sam 12,13).
E che dire di tutte le esortazioni dei profeti che invitano alla conversione (Gn
3) e alla correzione fraterna del colpevole e del malvagio (Ez 3,16-21); alla
contrizione del cuore nuovo (Ez 36,26); al ritorno del peccatore poiché Dio Non
vuole la sua morte, ma che si converta e viva (Ez 18,23.31; 33,11): al
pentimento di tutto il popolo convocato in una grande assemblea penitenziale. (Gl
2) e persino di tutta la terra.. Il vero Dio è un Dio misericordioso e pietoso,
lento all'ira e ricco di amore e di fedeltà (Es 34,6); quanto dista l'oriente
dall'occidente,così egli allontana da noi le nostre colpe (Sal 103,12).
Per quanto poco le nostre colpe siano umilmente riconosciute e francamente
confessate, esse saranno calpestate dal Signore, e gettate in fondo al mare (Mi
7,9).
Un pastore protestante felicemente convertito a questa meraviglia del perdono
dei peccati trasmessa da Dio, commentava: “E sulla riva del mare egli pone un
cartello con questa scritta “Divieto di pesca”. In effetti è proprio di questo
che si tratta. Infatti un peccatore così perdonato davanti a Dio e agli uomini
non è solo de-colpevolizzato, è liberato e ricostruito.
A conclusione di questo primo punto, si impone una verità. Dio vuole veramente
darci la gioia del perdono. Egli chiede che sappiamo domandarlo e riceverlo,
donarlo e condividerlo. Egli sa troppo bene quanto il peccato pesi nel cuore
dell’uomo, per non volere a tutti i costi togliercelo e liberarci. La domanda e
l’accettazione del perdono sono dunque chiaramente una istituzione divina. E ciò
risponde in maniera eloquente al perché della confessione.
– Ma è anche l’umanità che ci invita alla domanda di perdono. L’uomo di tutti i
tempi e di tutti i luoghi avverte, a questo riguardo, come una necessità vitale.
Quella della riconciliazione. La vita è fatta così e il cuore dell’uomo è
plasmato in modo da dover ricorrere instancabilmente al perdono. Dimenticanza
del passato, presentazione delle scuse, gesti di riconciliazione, trattati di
pace… tutta la strada degli uomini è necessariamente seminata di domande di
perdono.
C’è nell’essere umano come un sentimento nativo, tanto profondo quanto
universale, ossia che “i nostri atti ci seguono”. Non possiamo dimenticare.
«L’occhio era nella tomba e guardava Caino», scrive il poeta. Quanto la Legge
esige è scritto nei loro cuori, come risulta dalla testimonianza della loro
coscienza , precisa l’apostolo (Rm 2,15) Il senso di ciò che “bene” o “male” è
inscritto in modo talmente forte nell’umanità da provarne continuamente un
sentimento di pace o di colpevolezza, a seconda che ciascuno si allontani oppure
no dal retto cammino.
Al di là di questo sentimento, sorge più ancora il desiderio di cancellare i
torti, di riparare gli sbagli, di ricostruire la pace. In una parola, di farsi
perdonare il proprio peccato. Qui, all’inquietudine di Caino succede lo sgomento
di Amleto. Bisogna poter togliere, dimenticare, annientare ogni traccia del male
commesso. Non solo per non essere presi o disistimati o condannati, ma più
ancora per custodire la propria anima in pace.
Più profondamente ancora, c’è il desiderio di riconciliarsi in qualche maniera
con la divinità. Tutte le religioni sono testimoni di questo slancio del cuore
umano nei riguardi di questa Realtà trascendente davanti alla quale ci si deve
incessantemente risituare. Le folle che si immergono nelle acque del Gange
possono essere al riguardo una immagine eloquente. In mille modi ognuno fa
questo o portando un amuleto, erigendo una stele, invocando il cielo, accendendo
un cero o toccando ferro. Al di là di tutti questi timori e paure. Superstizioni
e implorazioni, non c’è forse come un ricordo viscerale di una rottura o un
sentimento di carenza in rapporto a una separazione? E anche su questo piano che
si pone anche la domanda di perdono.
Diciamo per finire, in rapporto all’insieme della condizione umana che, senza
perdoni effettivi, tutta la vita nella società diventerebbe presto impossibile.
Noi siamo tutti feriti e tutti feritori. Siamo tutti persone offese e che
offendono… Chi romperà questo cerchio delle incomprensioni, delle indifferenze,
degli affronti se non la condivisione incessante del perdono?
Al di là di ciò che Dio per primo domanda agli uomini che egli ama, e essi si
amino, vi è il fatto che l’umanità tutta intera, da parte sua, avverte come un
bisogno vitale. Alla “lotta per la vita”, per la sopravvivenza, non può
rispondere che il perdono. Se si vuole che l’uomo non sia troppo “un lupo per
l’altro” bisogna che ogni giorno la grazia del perdono aiuti tutti a coabitare,
come delle pecore e come degli agnelli. Secondo quanto Cristo ha già detto (Mt
10,16; Lc 10,3).
– Al di qua di quanto Dio domanda e a quanto l’umanità invita, vi è ciò che
ognuno di noi avverte nel più profondo del suo essere, indipendentemente da ogni
religione imparata e di ogni educazione ricevuta. Noi sentiamo ben presto che un
peccato non è veramente perdonato se non quando è confessato. Abbiamo bisogno di
gesti e di passi da compiere. Le abluzioni rituali dell’ebreo credente e del
musulmano praticante partono da questa costatazione. La stessa psicanalisi si
compiace di costatare – al punto da abusarne – che “la confessione libera”.
Quando il male commesso è detto, è come estirpato. Quando lo sbaglio commesso è
esplicitamente denunciato, è esorcizzato.
Nonostante ogni ripugnanza, del tutto comprensibile, che possiamo avere a
confessare i nostri torti, c’è nel più profondo del nostro cuore il segreto
desiderio di poter continuamente liberarcene. E questo desiderio non ha nulla di
malsano. Traduce al contrario una delicatezza d’animo e una lodevole
preoccupazione della nostra coscienza. Noi siamo prigionieri dei perdoni che non
abbiamo dato. Restiamo appesantiti dagli sbagli che non abbiamo sciolto. Perché
del resto appesantirci continuamente o rimanere prigionieri di ciò che pesa su
di noi o marcisce in noi? Il cuore leggero è puro. L’anima in pace è lavata. Lo
spirito libero è perdonato. Dopo la confessione si è contenti!
Ognuno di noi può fare allora questa esperienza: fugare le tenebre del male ci
fa salire alla luce. Riconoscere lealmente i nostri torti ci fa avanzare nella
verità. Piegarci umilmente nel riconoscimento delle nostre mancanze, ci rialza e
ci fa crescere. Confessare per amore tutti i nostri peccati ci radica ancor di
più in questo amore. Una volta compreso questo, come fare a meno di una grazia
così accordata, privarsi di ciò che diventa allora letteralmente un “sacramento
di riconciliazione?”.
La volontà di Dio è di renderci felici. Ma il male imperversa dappertutto, in
noi e attorno a noi e ci rende spesso infelici. Ora, la causa di tutto il male
ha un nome: è il peccato (Rm 5,12). Quanto è allora utile, giusto e cosa buona
denunciarlo! Se ci viene offerto un aiuto del tutto speciale per eliminarlo come
non utilizzarlo il più possibile? Siccome il male è fra tutti i mali quello che
meno si può tollerare, poiché è la radice e all’inizio di tutti gli altri,
allora non si può non amare il sacramento attraverso il quale esso può essere
continuamente tolto.
– Per diventare una creatura nuova.
Al termine di questa ricerca di motivazioni sul perché del perdono, appare
infine il problema di fondo: è per divenire una creatura nuova che è stato
istituito questo gesto, voluto da Dio, invocato dall’uomo, desiderato nel più
profondo del cuore. Questo gesto sacramentale del perdono.
Perché in effetti confessarsi e farlo così come è richiesto?
Perché, facendolo, siamo innanzitutto riconciliati. Il peccato ci divide. Ci
tiene lontani da Dio, ci separa dagli altri, ci divide in noi stessi. L’atto di
riconciliazione ci unifica. Compiendolo davanti ad un altro che rappresenta il
Tutt’Altro, e tutti gli altri davanti al quale dobbiamo uscire da noi stessi, ci
ritroviamo come rimessi alla presenza di tutti coloro da cui il peccato ci
teneva separati: Dio, gli uomini e il nostro cuore.
Perché ugualmente, questo gesto ci riporta alla luce e alla vita. Il peccato è
tenebra, dice l’apostolo Giovanni, e conduce alla morte, precisa l’apostolo
Paolo. Confessarci vuol dire denunciarlo, bruciarlo, annientarlo. Una volta che
il male è così guarito alla radice, eccoci resi ipso facto e ex opere operato,
vale a dire seduta stante e in virtù del sacramento, a un sovrappiù di grazia e
di chiarezza. Siamo letteralmente rivivificati. Ci eravamo smarriti ed eccoci
arrivati. Andavamo errando nel buio ed eccoci riportati nella luce. Questo mio
figlio era morto ed è tornato in vita, era perduto ed è stato ritrovato. Èè
veramente da far festa (Lc 15,24).
Meglio ancora, il sacramento della riconciliazione ci mette in comunione
fraterna ed ecclesiale. Ci reintroduce incessantemente nella Casa del Padre e
nella famiglia dei fratelli. L’unità, lo sappiamo, è tanto più forte, quando è
ritrovata. La carità tanto più vera, quando è riaffermata. Non ci si ama che
perdonandoci. Non solamente sette volte, ma settanta volte sette (Mt 18,22).
Quindi, di riconciliazione in riconciliazione si costruisce veramente tutto un
mistero di comunione (Col 3,12.15).
È chiaro pertanto che per questo si ha bisogno di un aiuto tutto particolare, di
un sostegno tutto speciale che altro non è che la grazia sacramentale. Il più
importante sta proprio in quella che noi chiamiamo la “confessione”. Essa non
solo ci libera del peso delle nostre colpe e non ci riconcilia semplicemente con
tutto un mondo di separazione. La confessione ci arricchisce, è un vero
“sacramento”. Ci è data così e significata una grazia tutta speciale. Noi
portiamo la miseria irrisoria dei nostri peccati. Dio, per l’intermediario della
sua Chiesa (Mt 16,18-19) ci dona di riflesso un torrente di pace, uno slancio di
vita, una pienezza di gioia. Se conoscessimo la grazia di questo sacramento di
riconciliazione, non lasceremmo mai di venire regolarmente ad attingere alla sua
sorgente di Vita.
È questo che fa sgorgare in noi lo zampillo del fonte battesimale (Gv 4,14). È
questo che ci dona di scoprire il vero volto del Padre: è Lui che provoca la
gioia degli angeli del cielo (Lc 15,7.10). È attraverso di esso che noi siamo
poco alla volta risanati, educati, rafforzati e ricostruiti. Quale fortuna poter
così continuamente alleggerirsi! Quale forza poter dire che non si sarà mai
perduti né disperati! Per quanto in basso l’uomo possa cadere, Dio è sceso
ancora più in basso di lui per poter sempre rialzarlo (Fil 2,7-8). Si può cadere
più in basso di se stessi, ma non si cade mai più in basso di Dio.
Non diciamo più pertanto che “tutto sommato confessiamo sempre gli stessi
peccati”; e “ad ogni modo non cambiamo”. Ciò non è vero! Forse restiamo sempre
gli stessi, ma siamo trasformati. Senza cambiare, siamo rinnovati. Sì, si tratta
di diventare una creatura nuova (Gal 6,15). Solo i peccatori diventano dei
santi. Poco alla volta, passo dopo passo, le distanze si riducono, i ritardi
sono ricuperati, le deviazioni si raddrizzano. Ecco perché questo sacramento è
ripetitivo. Come l’Eucaristia. Insensibilmente eccoci guariti, purificati,
liberati, edificati in edificio spirituale per diventare ciò che siamo: stirpe
eletta, sacerdozio regale, nazione santa, popolo che Dio si è acquistato (1 Pt
2,5.9). Poco alla volta l’anima è abbellita, il cuore rinnovato, lo spirito
illuminato dal di dentro. Anche il corpo è trasfigurato, lasciando trasparire
sul volto la luce della grazia e la pace di Dio, nella calma del contegno.
Poco alla volta arriva il giorno in cui si pecca di meno. Meno di frequente e
meno gravemente. E non si potrà più farlo seriamente, volontariamente, con
cattiveria. Il peccato cede il passo alla perfezione. Ci si riconosce sempre
peccatori, “poveri peccatori” ma così sicuri dell’amore infinito di Dio e della
sua misericordia! Si impara sempre meglio a rimanere in lui perché egli vuole
tanto rimanere in noi (Gv 6,56). Non vivo più io, ma Cristo vive in me (Gal
2,20) osa scrivere l’apostolo Paolo il quale si riconosce come il primo dei
peccatori (1 Tm 1,15). Poiché è vero: Chiunque rimane in lui non pecca (1 Gv
3,6). Il perdono mille volte ricevuto ha finito per ancorarlo nella Vita di Dio.
Come confessarsi?
Una cosa è capire perché è bene ricevere il sacramento del perdono, un’altra è
sapere come fare. Andiamo dal più fondamentale al più formale, dallo spirituale
al materiale.
Con quale disposizione dell’animo?
Anzitutto è importante agire in pieno libertà. A prescindere dall’obbligo che la
Chiesa impone di «confessarci almeno una volta all’anno», tanto essa è convinta
del bene che ne possiamo ricavare, noi ci confessiamo come vogliamo, quando lo
desideriamo e da chi vogliamo. Ciò non riguarda né marito, né sposo, né
genitori, ne figli, né superiori religiosi, né amici intimi. Qui la cosa
riguarda solo la santa libertà dei figli di Dio per il cuore a cuore più intimo
con lui. Nel foro interno. Esige perciò da parte del confessore, il segreto più
assoluto che si possa custodire sulla terra, al punto che egli dovrebbe
scegliere di morire piuttosto che tradirlo.
– In secondo luogo, è importante farlo nella verità. La verità che consiste nel
dire ciò che è, e nient’altro che ciò che è, alla luce della propria coscienza,
per esserne liberati. È fatto obbligo di confessare ciò che è grave, perché non
si può rimanere a lungo con ciò che ci separa gravemente dagli altri e da Dio. È
lasciata qui la possibilità di mettere l’accento su questo o quel punto che si
vorrebbe più particolarmente correggere o di insistere durante un tempo
privilegiato – come la quaresima o l’avvento – su un determinato difetto
dominante. Senza falsa paura e senza piccolo calcolo; si è veri. E questa verità
ci conduce alla libertà (Gv 8,32).
– è importante fare tutto con sobrietà. In maniera semplice, umile. Il Signore
qui non si aspetta né discorsi né mostra di sé. Non si è qui pere scusarsi, ma
per accusarsi. E nemmeno si è qui per abbattersi e per giudicarsi. Figlioli…
davanti a lui rassicureremo il nostro cuore, qualunque cosa esso ci rimproveri.
Dio è più grande del nostro cuore e conosce ogni cosa (1 Gv 3,18.20). Il
confessionale non è un tribunale ma il luogo dell’incontro con l’Amore
Misericordioso. Non si tratta quindi di confessare in maniera diretta o
indiscreta gli altri, o per rimanere irrigiditi nella propria colpevolezza
personale. Anche se i vostri peccati fossero come scarlatto diventeranno bianchi
come neve. Se fossero rossi come porpora, diventeranno come lana (Is 1,18).
In quale stato d’animo?
– Qui, come del resto dappertutto, è anzitutto per mezzo della fede che siamo
salvati. Come dice la parola, “la confessione” confessa anzitutto la nostra fede
dell’Amore di Dio. Noi andiamo a Lui perché siamo sicuri della sua misericordia
e della sua onnipotenza. Noi abbiamo conosciuto e creduto l'amore che Dio ha in
noi (1 Gv 4,16). Ecco quello che bisogna anzitutto confessare. Vedendo la loro
fede, Gesù disse al paralitico: Coraggio, figlio, ti sono perdonati i peccati".
Ed egli è guarito. "Chi è costui che perdona anche i peccati?". Ma egli disse
alla donna: "La tua fede ti ha salvata; va' in pace!” (Lc 7,49-50). È dunque con
la fede che si ha che si portano a Dio tutti i propri peccati ed è per la fede
che ne siamo liberati.
– È inoltre nella speranza che si va verso di lui, e se dalle profondità in cui
ci hanno immerse le nostre colpe gridiamo a lui, siamo sicuri che presso di lui
è il perdono e l’anima mia attende il Signore più che sentinelle l’aurora (Sal
130,1-6). La speranza non delude. In essa infatti abbiamo come un'àncora sicura
e salda per la nostra vita (Eb 6,18-19) e ogni giorno essa può ricondurci a Dio.
Con il salmista dobbiamo ripetercelo di continuo: Mi consumo nell'attesa della
tua salvezza, spero nella tua parola (Sal 119,81). Peguy ha meravigliosamente
detto in quale Atrio di vita ci introduce la seconda virtù.
La terza virtù è la più bella, la più utile anche per la domanda di perdono: è
quella dell’amore. È infatti solo per amore che possiamo dire: Mi alzerò e andrò
da mio Padre (Lc 15,18). È solo con l’amore che uno avanza verso la Chiesa sua
Madre per ricevere dalle sue mani il perdono del Signore. Più si ama e più ci si
scusa. Più si ama e più ci si accusa. Il test del nostro amore a Dio sta nella
frequenza delle nostre domande di perdono. Come si fa tra sposi, tra fratelli,
tra amici. Infatti allora la carità copre la moltitudine dei peccati (Gc 5,20; 1
Pt 4,8).
Come per la peccatrice perdonata, l’amore sentito porta alla domanda di perdono;
e il perdono conduce a un sovrappiù di amore vissuto. Per questo io ti dico:
sono perdonati i suoi molti peccati, perché ha molto amato. Invece colui al
quale si perdona poco, ama poco (Lc 7,47). Come dobbiamo perciò amare questo
sacramento del perdono che ci invita a camminare nella carità, nel modo in cui
anche Cristo ci ha amato e ha dato se stesso per noi (Ef 5,2). Proprio per il
perdono dei nostri peccati (Mt 26,28).
Con un cuore contrito
Qui sta il segreto di un gesto di liberazione fra tutti, che molti non giungono
a capire o si rifiutano di accettare. È importante comprenderlo bene. Tanto più
che il sacramento del perdono corrisponde in questo campo a tre grandi
esperienze umane. Tre esperienze che possono essere perfino di ostacolo se non
sono ben comprese; oppure, al contrario, diventare altrettanti passaggi
liberatori se sono vissuti alla luce della fede.
Il primo ostacolo da superare, iscritto nel cuore si ogni psicologia umana, è
quello del senso di colpa. Esso si traduce nell’uomo, dopo la caduta, in un
senso di disagio, di vergogna, nell’idea che ciò ci diminuisce, nella voglia di
tacere o di nascondersi. È chiaro che ciò non può durevolmente né far sbocciare
né liberare la propria coscienza.
Il secondo ostacolo è il senso di impotenza. L’uomo peccatore o colpevole si
sente afferrato e prigioniero. Non sa come uscirne. Di fronte al passato, rimane
la traccia della colpa; di fronte al presente la percezione che vi si tornerà
ancora; di fronte al futuro, il sentimento che vi si ritornerà sempre. È un
vicolo cieco. E l’uomo da solo non può liberarsene.
Il terzo ostacolo sta nel senso di interferenza. Il peccatore non è mai solo sul
suo terreno. Gli altri ci spingono, interferiscono o si interpongono. Ci vedono,
ci sospettano, ci giudicano, ci accusano. Restiamo tutti solidali. Come pertanto
ritrovare il cammino di una vera libertà interiore in un mondo in cui si rimane
solidali?
Bisogna riconoscerlo: umanamente non è offerta nessuna soluzione. A che scopo
discolparsi, se non ci si sente anche perdonati? A che scopo a cercare di uscire
dal vicolo cieco, se è per ricadere in una nuova chiusura?. A che scopo
liberarsi dagli altri se è poi per poi chiudermi ancor di più in me stesso?
Alla luce della fede, al contrario tutto si illumina. Sul piano cristiano tutto
si libera. La colpa prende un nome: peccato. Il vicolo cieco trova un’uscita. il
perdono e gli altri non sono più un disturbo: essi invitano alla
riconciliazione. Per mezzo della grazia del cuore contrito, vivendo il
sacramento, tutto può essere cancellato, liberato e persino santificato. Davanti
a Dio, agli altri e a se stessi, la comunione viene ristabilita, la vita
rinasce, la pace ritorna, nel nome del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo.
Vivere il superamento
Una volta riconosciuto il peccato, il perdono desiderato e la riconciliazione
ricercata, che cosa bisogna fare? Bisogna andare oltre, al di là
dell’atteggiamento psico-affettivo e del moralismo riparatore, fino al livello
dove scaturisce la vera sorgente della Vita e che si pone sul piano teologale.
Rimanere sul piano psico-affettivo non risolverebbe in effetti granché.
Confessarsi è qualcosa di più di discolparsi, sgranando i proprio peccati. È
molto di più che placare un Dio adirato, un ambiente ostile, rimediare a un
rimorso provato o una tristezza avvertita con una domanda di perdono. È qualcosa
di più che ricostruire dei ponti o cancellare un giudizio che ci riguarda, con
un atto di riconciliazione. Il cuore contrito si pone a un livello più profondo
di quello della psicologia ferita o dell’affettività lacerata.
Ma non basterebbe nemmeno rimanere sul piano morale. Bisogna procedere oltre. Il
peccato non è soltanto una lordura da lavare, un peso da togliere, uno sbaglio
da disseppellire dal tumulo della legge infranta. Il perdono non mira soltanto a
placare il Signore, al mettere termine alle nostre difficoltà o al ritorno a una
buona intesa con l’altro. La riconciliazione non si pone semplicemente sul piano
delle scuse, del ritrovarsi o dell’atto riparatore. Tutto ciò è valido ma ancora
insufficiente: colui che vive in profondità il sacramento del perdono mira a
qualcosa di più.
La verità ultima conduce a porre il cuore contrito sul piano teologate. Qui si
trova l’atteggiamento giusto e totale. Il peccato è visto per ciò che è
essenzialmente: una rottura nel piano di Dio. Esso reclama qualcosa di più di
una discolpa o di una restaurazione: una vera rinascita (Gv 3,3-8), un
rinnovamento nello Spirito Santo (Tt 3,5). Il perdono è ricevuto con tutto ciò
che comporta: una grazia sacramentale che promana direttamente dalla croce
redentrice e trasmessa attraverso il canale della santa Chiesa. È bendi più che
il frutto di un atto di umiltà e di riparazione. Esso esiste prima ancora di
essere chiesto. È eternamente presente nel cuore di Dio che è Misericordia. È
dato prima ancora di essere implorato, offerto prima di essere domandato, prima
di essere cercato. Sempre primo (1 Gv 4,19). È pura gratuità (1 Cor 4,7). La
riconciliazione è vissuta per ciò che essa è anzitutto: opera della tenerezza e
misericordia del nostro Dio (Lc 1,78). Il frutto diretto del cuore amante di
Cristo il quale ha istituito proprio per questo un ministero e una parola di
riconciliazione (2 Cor 5,18-19). La pace che viene allora così donata non è come
quella che dà il mondo. È la vera pace: quella che egli ci ha lasciato e donato
(Gv 14,27). La pace di Dio (Col 3,15). Il frutto tutto particolare dello Spirito
(Gal 5,22). La pace di Dio, che supera ogni intelligenza, custodirà i vostri
cuori e le vostre menti in Cristo Gesù (Fil 4,7).
Sulla strada della perfezione
Si entra allora pari pari nel mistero della Salvezza. Si sfocia davvero in una
autentica comunione fraterna. Si giunge effettivamente alla restaurazione nel
nostro essere più profondo che diventa cammino di perfezione.
Il piano psico-affettivo è superato: non siamo più noi a giudicarci, ma Dio che
ci accoglie nel suo amore senza l’ombra di un’accusa o di una condanna (Gv 3,17;
12, 47). Il livello morale è trasceso: ci poniamo non più come debitori davanti
a un Signore debitore, ma come figli di Dio diventati eredi chiamati alla
condivisione di un divino (Rm 8,17).
Nella verità dell’atto sacramentale, sorretti dalla luce della fede,
riconfortati dalla speranza, mossi dallo slancio del puro amore, entriamo nel
Regno della grazia. Qui tutto è grazia. Etiam peccata. Nonostante i propri alti
e bassi, i ritardi, le viltà, gli sbandamenti, la nostra vita diventa un cammino
ascensionale. La salvezza già donata scaturisce in noi nel più profondo e ci
attira verso l’alto (Gv 6,44.65; 12,32).
Si vede sicuramente il proprio peccato, tutto il proprio peccato, ma non ci si
scoraggia più perché Dio l’ha perdonato e non esiste più. Un semplice
balbettamento di verità, mormorato con la bocca di bambini e di lattanti (Sal
8,3), è sufficiente per strappare a Dio torrenti di grazia e ciò che Gesù stesso
chiama fiumi d’acqua viva (Gv 7,38). Il perdono pro fluisce a fiotti. Dove
abbondò il peccato, sovrabbondò la grazia (Rm 5,20).
La confessione stessa passa in secondo luogo. Sul piano psicologico essa era
dolorosa e laboriosa. Sul piano morale restava essenziale ed esigente. Sul piano
teologale è data in piena gratuità. Fammi ritornare e io ritornerò (Ger 31,18).
Come per il figlio prodigo, egli si alza con uno slancio di amore filiale ed è
tutto finito. Presto, portate qui il vestito più bello e fateglielo indossare,
mettetegli l'anello al dito e i sandali ai piedi. E cominciarono a far festa (Lc
15,22-24). Scorrono le lacrime, poi vengono I i baci, e si sciolgono i capelli (Lc
7,44-46)!. La fede ha salvato tutto. L’amore ha tutto riacquistato. Le tenebre
fuggono, entra le Luce. La forza ci viene dal cielo. Esso è riaperto. È il
trionfo della debolezza. Mi vanterò quindi ben volentieri delle mie debolezze,
perché dimori in me la potenza di Cristo (2 Cor 12,19). Felice colpa che ci ha
meritato un tale Redentore!
Si va da una confessione all’altra, da un perdono domandato a un perdono sempre
ricevuto; da una riconciliazione rinnovata a una riconciliazione incessantemente
accresciuta. La santità non è che un cammino a forza di passi falsi. Ma nessuno
di essi ci arresta. Poco alla volta eccoci rinnovati mediante una trasformazione
spirituale del nostro cuore (Ef 4,23) e rivestiti dell’uomo nuovo, che si
rinnova per una piena conoscenza, ad immagine di Colui che lo ha creato (Col
3,10). Da piccole pasque a piccole pasque, di giorno in giorno e per pura
grazia, siamo ricolmi di tutta la pienezza di Dio. Divinizzati per mezzo del suo
perdono.