Il 26 giugno scorso, il duomo di Milano ha fatto da solenne cornice alla
beatificazione di padre Clemente Vismara. Insieme a lui, sono stati proclamati
beati anche don Serafino Morazzone, parroco esemplare nel Lecchese, confessore
di Alessandro Manzoni, e suor Enrichetta Alfieri, delle Suore della Carità di S.
Giovanna Antida Thouret, conosciuta come l’angelo del carcere milanese di San
Vittore.
Migliaia di fedeli hanno preso parte alla messa presieduta dal legato
pontificio, cardinale Angelo Amato, prefetto della Congregazione per le cause
dei santi, e dallo stesso arcivescovo di Milano, cardinale Dionigi Tettamanzi, e
la partecipazione di oltre 300 vescovi e sacerdoti. Era presente anche una
delegazione di vescovi, suore e sacerdoti provenienti dal Myanmar, insieme a
Joseph Tayasoe, e il giovane che nel 1998 ottenne il miracolo da p. Clemente,
dopo una caduta da un albero che gli procurò una grave frattura del cranio con
conseguente coma.
Intraprendente e santo
Clemente Vismara era un missionario del PIME (Pontificio Istituto Missioni
Esatere). Nativo di Agrate Brianza, trascorse 65 anni in Birmania, l'odierno
Myanmar, morendo a Mong Ping nel 1988 a 91 anni. Visse la sua missione nelle
foreste e nelle montagne della zona di Kengtung accogliendo orfani, lebbrosi,
vedove, introducendo nuove colture agricole e tecniche di sviluppo, facendo
nascere la Chiesa fra i non cristiani.
Dagli atti del processo di beatificazione emerge la stima profonda che tante
persone, anche di altre religioni, avevano per p. Clemente.
«Fin dall’inizio mi colpì questo prete, perché era un vero uomo di Dio». A
ricordare così padre Clemente è U Sai Lane, buddista, nato nel 1936 nel
villaggio di Nam Ho e grande amico del missionario brianzolo, nonostante la
differenza di fede. «Lo incontrai per la prima volta nel 1955, nel suo giro per
i villaggi dell’interno», racconta U Sai Lane. « Si era durante le feste per
l’inizio dell’anno cinese. Lo invitammo a fermarsi con noi ed egli accettò
volentieri. In quell’occasione, egli distribuì le medicine che aveva portato con
sé. Noi ci stupimmo che le desse così volentieri anche a noi buddisti… Ho visto
padre Vismara aiutare gli altri senza distinzione e avere una buona parola per
tutti, senza mai pretendere da nessuno che si facesse cattolico e senza fare
alcuna pressione in questo senso. Insegnava ad avere molto rispetto per
chiunque. Mio padre era oppiomane, eppure padre Vismara mi insegnò a onorarlo e
tenerlo vicino senza abbandonarlo, perché questo è il dovere di un figlio».
Sai Nang Sai Pok, musulmano, conobbe padre Clemente a 15 anni. «Mentre io
studiavo presso la missione – racconta – vedevo tanta gente che portava i
bambini a padre Vismara ed egli li accompagnava da suor Clementina e lei diceva
che non poteva più accoglierne, poiché non aveva più mezzi per mantenerli.
Allora padre Vismara diceva: “Non sono io che li ho cercati. È Dio che li manda.
E sarà Dio a provvedere loro”. E vedevo che il giorno dopo arrivava sempre un
sacco di riso. Lui faceva del bene e Dio lo benediceva».
Straordinario nell'ordinario
Anche un suo confratello racconta: «Vismara era straordinario nell'ordinario. A
ottant’anni aveva lo stesso entusiasmo per la sua vocazione di prete e
missionario, sereno e gioioso, generoso con tutti, fiducioso nella Provvidenza,
un uomo di Dio pur nelle tragiche situazioni in cui è vissuto. Aveva una visione
avventurosa e poetica della vocazione missionaria. La sua fiducia nella
Provvidenza era proverbiale. Non faceva bilanci, né preventivi, non contava mai
i soldi che aveva. In un paese in cui la maggioranza della gente in alcuni mesi
dell’anno soffre la fame, p. Clemente dava da mangiare a tutti, non rimandava
mai nessuno a mani vuote. I confratelli del Pime e le suore di Maria Bambina lo
rimproveravano di prendere troppi bambini, vecchi, lebbrosi, handicappati,
vedove, squilibrati. Clemente diceva sempre: “Oggi abbiamo mangiato tutti,
domani il Signore provvederà". Si fidava della Provvidenza, ma scriveva ai
benefattori di mezzo mondo per avere aiuti e collaborava con articoli a varie
riviste. Le sue serate le spendeva scrivendo al lume di candela lettere e
articoli (sono state raccolte più di 2000 lettere e 600 articoli).
L’ho visitato in Birmania nel 1983, a 86 anni era ancora parroco a Mongping.
Volevo intervistarlo sulle sue avventure e mi diceva: “Lascia perdere il mio
passato che ho già raccontato tante volte. Parliamo del mio futuro” e mi parlava
dei villaggi da visitare, delle scuole e cappelle da costruire, delle richieste
di conversioni che gli venivano da varie parti. È morto a 91 anni senza mai
essere invecchiato».
Amore e avventura
Clemente nasce il 6 settembre 1897 ad Agrate Brianza, nell'attuale provincia di
Monza. Coi cinque fratelli rimane presto orfano: la mamma muore quando lui ha
cinque anni e il padre tre anni dopo. Sono le famiglie dei parenti, fra i quali
due zii sacerdoti, a prendersi cura di lui. Studia al collegio Villoresi di
Monza e a sedici anni entra in seminario. Della sua adolescenza ci sono ricordi
scritti da lui: «Ero un alunno discolo, irrequieto, capo banda nelle monellerie.
Ogni tanto volevano mandarmi via dal seminario perché ne combinavo qualcuna».
Non un allievo modello, insomma, anzi, un ragazzo fin troppo sveglio, reattivo,
forse allergico alle dure regole della vita di seminario. Poi anche nella vita
del giovane Clemente irrompe la Grande Guerra; nel 1915, chiamato alle armi, si
dimostra un soldato valoroso, ma nello stesso tempo dentro di lui si fa strada
un'idea fondamentale per il suo futuro: durante i tre anni di guerra passati al
fronte come sergente maggiore «ho visto tante di quelle sofferenze e di quelle
cose sbagliate, che la mia vita ha preso un indirizzo preciso. Ho capito che
solo per Dio vale la pena di spendere la vita. La vita è fatta per esplodere,
per andare più lontano. La vita è bella quando la si dona».
Nel 1920 entra nell'Istituto delle missioni estere di Milano, che nel 1926
diventerà l'attuale Pontificio Istituto Missioni Estere (PIME). Tre anni dopo è
ordinato sacerdote e in agosto parte per la Birmania, raggiunta dopo un viaggio
di due mesi. Dopo un breve periodo di ambientamento, è pronto per addentrarsi
nella foresta tropicale e raggiungere Kengtung dopo due settimane di viaggio a
cavallo. Nel 1924 raggiunge lo sperduto villaggio di Monglin ai confini tra
Laos, Cina e Thailandia. È nel cosiddetto “triangolo dell’oppio”, in una regione
montuosa e forestale tormentata da guerriglie tribali, contrabbandieri d’oppio,
briganti, fra popolazioni che vivono in condizioni disumane e soffrono la fame.
P. Clemente vive in un capannone di fango e di paglia e scrive: “Qui è peggio di
quando ero in trincea sull’Adamello, ma questa guerra l’ho voluta io e con
l’aiuto di Dio debbo combatterla sino alla fine”.
Una missione lunga una vita
La vita nella foresta birmana è durissima: povertà, carestie, malattie mettono a
dura prova chiunque, in particolare i confratelli missionari di padre Vismara.
Ben sei di questi moriranno nel giro di pochi anni, nonostante la loro giovane
età, chi di malaria, chi di tifo, chi di broncopolmonite. Clemente resiste ai
disagi più duri, la sua tempra eccezionale lo porterà a vivere per ben 65 anni
nelle missioni da lui create in Birmania. Infaticabile, visita i villaggi
raggiungibili a cavallo o con la zattera lungo i fiumi, costruisce scuole,
orfanotrofi, piccoli ospedali e chiese con l'aiuto di poche, laboriosissime
suore che lo raggiungono nel 1931, inviate dalla congregazione delle suore di
Maria Bambina. Insegna alle popolazioni locali a coltivare le risaie e a
irrigarle; porta nuove coltivazioni, il frumento, il granoturco, il baco da
seta, la verdura (carote, cipolle, insalata – “il padre mangia l’erba” diceva la
gente). Insegna a fare i mattoni e la calce per le case, a diventare falegnami e
meccanici.
Scriveva ad Agrate: «Qui sono a 120 chilometri da Kengtung, se voglio vedere un
altro cristiano debbo guardarmi allo specchio». Inizialmente vive con tre orfani
in un capannone di fango e paglia. Il suo apostolato è di girare i villaggi a
cavallo, piantare la sua tenda e farsi conoscere: porta medicine, toglie i denti
che fanno male. Fa il contadino, l’allevatore, il sarto, il barbiere, il
boscaiolo. Porta l’Ostia consacrata nei villaggi più sperduti, superando
montagne e fiumi. Si adatta al clima, ai pericoli, al cibo, riso e salsa
piccante; la carne se la procura con battute di caccia. Porta a Monglin orfani e
bambini abbandonati per educarli. In seguito fonda un orfanotrofio e vive con
250 orfani e orfane. Per questo oggi la chiesa di Birmania lo invoca come il
“Santo dei bambini”.
Già nel 1983, dopo 60 anni di vita in Birmania, i vescovi locali lo avevano
proclamato “Patriarca della Birmania”.
Una vacanza in 65 anni
Solo in un'occasione p. Vismara lascerà la foresta birmana: nel 1957 farà
rientro in Italia, dopo aver subìto la prigionia nei campi di detenzione
giapponesi e inglesi durante la seconda guerra mondiale. Quella del 1957 sarà
l'unica "vacanza" della sua vita, divisa tra cure mediche, conferenze e
soprattutto un mese di esercizi spirituali (commenta nel suo diario:
«Trentaquattro anni di vita solitaria, senza direzione speciale alcuna,
confessione quattro o cinque volte l'anno, ho sempre fatto quello che ho voluto
io... mi è necessario proprio fare un gran bucato di almeno un mese! »).
Al termine di quell'anno il "richiamo della foresta" diventa troppo forte e p.
Clemente torna in Birmania. Deve rientrare nel villaggio di Mongping, dove nel
1955 lo aveva fatto trasferire il suo superiore per far crescere una nuova
missione. Lì padre Vismara, all'età di 58 anni, era ripartito da capo, mettendo
ancora una volta tutto se stesso, sempre sereno e sorridente. Aveva aperto un
orfanotrofio, una scuola, una chiesa, la casa per le suore.
Le tragiche vicende che accompagnano lo Stato della Birmania (tuttora sotto un
duro regime militare) raggiungono l'apice negli anni Sessanta con un colpo di
Stato ad opera dell'esercito. Partono le confische di scuole e ospedali, e i
missionari arrivati dopo la seconda guerra mondiale vengono espulsi. Padre
Clemente rimane al suo posto, nella sua missione, sempre più solo. Sarà così
fino all'ultimo dei suoi giorni, il 15 giugno 1988, quando muore nel villaggio
di Mongping, circondato dai suoi orfani. Muore sereno e felice di aver dato
tutto quello che aveva per Gesù e per ogni suo prossimo.
Lascia alla sua morte un centinaio di villaggi cattolici, cinque nuovi sacerdoti
e 14 suore e poi una schiera di meccanici, falegnami, tecnici di costruzioni,
infermiere, insegnanti, professionisti, autorità civili e militari. Già alla sua
morte lo veneravano e lo pregavano come un santo.