Oggi nella Chiesa si fa un gran parlare di tanti problemi e anche negli istituti religiosi l’attenzione è in gran parte rivolta alla crisi che essa sta attraversando e alle sfide che ne derivano sia dall’interno che dall’esterno. È quasi, invece, del tutto scomparso il discorso riguardante i poveri, gli ultimi, e soprattutto le persone con handicap.
Jean Vanier, fondatore della comunità dell’Arca , lo ha ricordato durante un ritiro diocesano predicato in Francia, a Lione. Prendendo come punto di partenza il testo della Prima lettera di Paolo ai Corinti, dove l’Apostolo, propone l’immagine del corpo umano come figura della Chiesa, ed enumera i diversi doni delle membra di questo corpo. L’Apostolo rileva che ognuno di questi doni è importante: il dono della sapienza, della scienza, delle guarigioni, della profezia o quello di fare dei miracoli. Ognuno di essi è una manifestazione dello Spirito. Ma poi parla anche di coloro che, apparentemente, non hanno alcun dono particolare: sono i deboli e i malati. E conclude affermando che fra tutti questi doni, la sola cosa che conta è l’amore.
In questo testo di Paolo, sottolinea Vanier, ci sono tre cose molto chiare: i deboli sono necessari e indispensabili nella Chiesa; la carità è necessaria e indispensabile per vivere cristianamente e, terzo, se un membro soffre tutto il corpo soffre.
Purtroppo, ha affermato, si ha l’impressione, che nella Chiesa si sia perso il senso del posto del debole. Osserva: «Non è un lusso della carità essere in relazione con i deboli, è il cuore stesso della Chiesa, secondo Paolo». E si domanda: «La Chiesa non ha forse perso anche la consapevolezza di essere un corpo: di aver bisogno gli uni degli altri, ciascuno con i suoi doni e le sue capacità?
Esistono certamente delle comunità cristiane che sono come “un corpo”, tuttavia a volte anche in esse i deboli non sempre hanno il giusto posto Si tende, infatti, a considerarli più come un peso da portare che non una fonte che rinfresca. Sorge allora una domanda: forse i cristiani sono stati influenzati dallo spirito di individualismo e di rivalità, così presente nella cultura delle nostre società?».
Nel nostro tempo, certuni pensano che le persone con un handicap siano un affare che riguarda lo stato e i professionisti, di cui perciò non ci si debba occupare. «Io, ha affermato Vanier, vorrei insistere sul fatto che le persone più povere e più deboli ci riguardano tutti; sono nostri fratelli e nostre sorelle in umanità e nel corpo di Cristo. Le loro grida e i loro bisogni possono suscitare una certa bontà nelle persone che vengono loro in aiuto. Ma esse aspirano a qualcosa di più: aspirano a una vera relazione che le aiuti a trovare fiducia in se stesse e a sollevarsi. È attraverso questa relazione che esse ci trasformano e trasformano la Chiesa in un luogo di compassione».

Non bisogna dimenticare che le persone con un handicap hanno alle loro spalle una lunga storia dolorosa. Nel corso delle varie epoche sono state disprezzate, derise, considerate dementi o esseri “non umani”, sono state nascoste in famiglia e in istituzioni spesso violente; sono state ritenute la vergogna della famiglia. Persone, insomma che provocano imbarazzo e perfino collera. Sono state spesso escluse anche dalle comunità cristiane. Si ha paura dei volti deformati. In ogni tempo, la voglia di abbandonarle e perfino di ucciderle è stata presente nel cuore dell’uomo. Oggi nella società se ne ha una tale paura che si è legalizzato l’aborto. Si è pronti a sopprimere dei bambini perché hanno un handicap.
Certamente nella Chiesa ci sono state delle figure meravigliose che si sono occupate di queste persone, lasciando un toccante esempio di carità. Per citarne alcune: san Giovanni Dio nel secolo XIV, il santo Cottolengo a Torino, e tanti altri. In Germania sono stati costruiti dei grandi centri per queste persone, come a Bethel, dove cinquemila religiose accolgono 12.000 persone affette da handicap.
Le religiose e i fratelli di questi centri sono visti dalla gente come individui meravigliosamente donati; ma spesso credono falsamente che le persone con un handicap abbiano bisogno più che altro di un aiuto materiale e fisico.
Non è così. Siamo ben lontani, ha detto Vanier, da una visione dei deboli come esseri “indispensabili alla Chiesa”, lontani da ciò che dice san Vincenzo de’ Paoli: «i poveri sono i nostri maestri» o da ciò che afferma il diacono Lorenzo: «i poveri sono la ricchezza della Chiesa». E siamo lontani anche da ciò che ha scritto Paolo: “Ma quello che è stolto per il mondo, Dio lo ha scelto per confondere i sapienti; quello che è debole per il mondo, Dio lo ha scelto per confondere i forti” (1 Cor 1,27). E Gesù ha affermato: "Ti rendo lode, o Padre, Signore del cielo e della terra, perché hai nascosto queste cose ai sapienti e ai dotti e le hai rivelate ai piccoli” (Lc 10,21).
Vanier commenta: «Non siamo forse davanti a un mistero in cui la persona con il suo corpo deformato e lo spirito impoverito diventa fonte di vita in forza del suo bisogno di amore?». E ricorda l’esempio di Francesco d’Assisi il quale nel suo testamento scrive che aveva una ripugnanza per i lebbrosi. Ma un giorno è stato condotto a occuparsi di loro. Dopo averlo fatto, una nuova dolcezza ha pervaso il suo cuore e il suo spirito. A partire di lì egli ha poi seguito il Signore.
Si può dire pertanto che «la persona che rifiutiamo diventa quella che si guarisce, ossia colei che scioglie e guarisce le nostre paure e i nostri blocchi. La pietra rigettata dai costruttori diventa così la testata d’angolo».

La storia eloquente di Paolina


Per capire i sentimenti che la persona con handicap prova nel cuore, e qual è il giusto atteggiamento da assumere nei suoi riguardi, Vanier ha raccontato la storia di Paolina, che era entrata all’Arca nel 1973. Era epilettica ed emiplegica. Quando vi giunse portava dentro di sé una grande violenza: la collera contro la famiglia, contro Dio e contro il suo stesso corpo. Ma non poteva restare in famiglia. Negli anni ’30, quando è nata non era facile tenere un bambino con handicap. Queste creature erano escluse dalla scuola, tenute nascoste in famiglia; erano una specie di vergogna. Paolina è cresciuta con la sensazione di essere una delusione per i suoi genitori; era considerata come diversa e senza valore, non aveva il diritto di essere qualcuno né aveva la parola per poter esprimere i suoi desideri. Le sue collere all’Arca erano come un grido che implorava: “lasciatemi vivere”. Tutto il suo essere lasciava trasparire la collera perché non aveva avuto l’occasione di essere se stessa, di fare delle scelte libere e di crescere come persona.
All’Arca, non si trattava di bloccare con la forza le sue violenze, ma di capire un po’ alla volta da dove queste reazioni avevano origine. In fondo, le sue grida erano del tutto giustificabili. Aveva il diritto di urlare contro tutte le ingiustizie che aveva subito.
Paolina, per trovare la pace interiore, per poter vivere e crescere aveva soprattutto bisogno di essere rispettata e considerata come una persona umana, importante. Aveva bisogno di passare dall’immagine negativa di sé, che la società le aveva proiettato addosso, a un’immagine positiva per considerarsi una persona che ha valore, e avere il diritto di vivere. Non si trattava soltanto di ascoltarla con rispetto; certo aveva bisogno anche di comprendere che c’erano delle regole da osservare nella comunità perché potesse sviluppare le sue capacità e i suoi doni. Aveva bisogno di trovare un posto positivo nella comunità e nella società.
La trasformazione “dal sentirsi brutta, non importante, senza valore” in un essere rispettato, ammirato e amato così com’è, con i suoi doni e le sue debolezze, richiede molto tempo, soprattutto quando il disprezzo è durato molti anni. La violenza di Paolina era un sistema di difesa, una protezione di fronte alle relazioni di disprezzo che aveva subito. La trasformazione è una realtà che avviene poco alla volta attraverso la fiducia negli altri e in se stessi.
L’Arca, ha spiegato Vanier, è un laboratorio di vita relazionale, una scuola di amore in cui l’importante non sono le guarigioni rapide, visibili sul piano fisico e psicologico. L’essenziale è l’accompagnamento delle persone che soffrono, un accompagnamento che le aiuti ad accettare le loro sofferenze e i loro limiti e a scopre la propria bellezza. Si impara allora non più a fuggire gli altri con i loro traumi, le loro sofferenze e i loro dolori, ma ad accettarle e vedere che queste sofferenze possono diventare una fonte di vita, di maturità, un cammino di umanizzazione.
Le persone che vengono accolte al’Arca non sono, nella loro maggioranza, capaci di una vera autonomia e di una integrazione sociale. Il loro handicap, soprattutto quando è molto grave, non può essere guarito, a differenza di altre forme di povertà. I poveri delle bidonvilles possono crescere, trovare un lavoro e un’abitazione migliore. Le persone con un handicap mentale hanno invece qualcosa di radicale inscritto nel loro corpo che impedisce loro un’integrazione perfetta nella società. Per vivere, esse hanno sempre bisogno di un accompagnamento e di amicizia. Paolina, ha affermato Vanier, è uno di questi esempi, fra i tanti.

Un amore che guarisce anche chi lo dona

Ma è interessante notare anche la trasformazione che avviene in coloro che assistono queste persone. Paolina li ha aiutati a sviluppare in se stesse un vero amore, fatto di umiltà, di saggezza, di bontà, di servizio e di competenza.
Questi esempio, riguardanti il posto delle persone con un handicap, mostrano che, se si cerca di rispondere al loro grido per una relazione affettiva autentica, ha sottolineato ancora J. Vanier, si viene trasformati. Se la Chiesa ascolta il grido del povero per una relazione autentica (e non tanto per offrirgli dei beni materiali o aiutarlo a integrarsi nella società, a vivere in maniera autonoma e a lavorare nelle imprese), diventa una Chiesa di compassione.
Vanier, ha insistito a lungo su questo aspetto, cioè sul cambiamento che avviene progressivamente in coloro che assistono persone con handicap. Maturano in esse sentimenti di compassione e nello stesso tempo di indignazione di fronte alle ingiustizie che queste persone hanno sofferto. Prendono coscienza di essere personalmente dei privilegiati in un mondo come il nostro diviso in due: i benestanti da una parte e gli esclusi dall’altra. Certuni scoprono anche la gioia e il privilegio di vivere una relazione di fiducia e di una certa intimità con una persona della comunità. Comprendono di essere amati non per la loro abilità di servire servizio o i loro diplomi, ma per se stesse, nel loro essere profondo. Per alcune è una vera rivoluzione gioiosa poter dire: “Mi sento amato”.
L’amore che lega gli uni agli altri nella comunità dell’Arca, ha concluso J. Vanier, fa sì che questo diventi segno di compassione e di perdono. Non è forse questo il ruolo che possono svolgere i deboli nella Chiesa, per fare di essa il luogo di compassione e di perdono per eccellenza? La missione dei cristiani non è forse quella di rivelare il Dio di compassione, di bontà e di perdono? Non si deve forse dire che l’essenziale del Vangelo è contenuto nelle parole di Gesù: quando invita a diventare come fanciulli: siate compassionevoli come il Padre mio è compassionevole; non giudicate per non essere giudicati; non condannate e non sarete condannati; perdonate e sarete perdonati. La compassione è il cuore della Chiesa ed è anche la fonte della salvezza personale. Gesù nel Vangelo di Matteo dice:”Venite benedetti del Padre mio: Quand’ero in prigione siete venuti a visitarmi. Quand’ero nudo, mi avete vestito”: I giusti, allora, pieni di stupore si domandano dove lo hanno visto. Ed ecco la risposta: “tutto ciò che avete fatto al più piccolo dei miei, l’avete fatto a me”.
La lezione che si impara all’Arca servendo gli ultimi, ma che ha valore per tutta la Chiesa, è proprio questa: si tratta di un cammino di crescita umana e spirituale, di un cammino lungo, fatto di umiltà e di servizio in cui ciascuno deve liberarsi dei propri bisogni, dalla pretesa di aver ragione, di sentirsi superiore, deve lasciar cadere i propri pregiudizi, gli egoismi e i propri blocchi. Bisogna che impariamo ad amare l’altro, così com’è, vedendo in lui una presenza e un dono di Dio.