In due casi almeno è difficile e rischioso scrivere: quando l’argomento preso in considerazione è già stato ampiamente trattato (si corre il rischio di ripetere e dire cose scontate) e quando l’argomento è del tutto nuovo e inesplorato (è necessario documentarsi scrupolosamente, avere sguardo critico, provare ciò che si afferma).
Mettersi a scrivere del significato e dell’importanza del silenzio rientra nel primo caso; aggiungo anche un’annotazione, che accentua la perplessità di chi scrive, riportata all’inizio di un pregevole libretto recentemente pubblicato e dedicato a questo tema: «del silenzio bisognerebbe “tacere” più che “parlare”» .
Mi limiterò, dunque, a richiamare alcune considerazioni e spunti pratici, attingendo a quel ricco patrimonio di riflessione e di sapienza che nel corso dei secoli si è andato realizzando sul tema del silenzio.

Il silenzio significati e condizioni

È facile immaginare che vi sono diversi tipi di silenzio, alcuni dei quali sono senz’altro da apprezzare, mentre altri hanno una valenza negativa. «Il silenzio – scrive Chialà – è una realtà ambigua» : può essere espressione di attenzione e concentrazione, ma anche di mutismo e rifiuto; può metacomunicare vicinanza intensa e affettuosa, ma anche aggressività mascherata; può essere un mezzo per recuperare intima forza vitale, ma anche forma di difesa e fortezza protettiva.
Nella riflessione che segue farò riferimento a quel tipo di silenzio che rappresenta un’esperienza positiva e necessaria per una sana igiene mentale e per un recupero dell’anima, a salvaguardia di una vita interiore autentica. A proposito di esso, Guardini scrive che «essere padroni del proprio silenzio è una virtù» : occorre impararlo e richiede impegno.
Silenzio significa tacere, solitudine, quiete, attesa, pace; può essere favorito dal trovarsi in luoghi appartati e tranquilli, spesso richiede di ritirarsi e fuggire dai luoghi dove si svolge la vita quotidiana. Una cosa, però, sono le condizioni esteriori che favoriscono il silenzio e altra cosa è il silenzio interiore dell’anima. Ancora Guardini fa questa annotazione: «Dobbiamo darci da fare. Dobbiamo difenderci contro l’ininterrotto fiume di chiacchiere che percorre il mondo, difenderci come uno che ha il petto oppresso e cerca di assicurarsi il respiro. Altrimenti qualcosa inaridisce in noi. Ma il chiasso esteriore è soltanto una metà, e forse neppure quella più difficile da superare. L’altra metà è quella interiore: il caos dei pensieri, il groviglio dei desideri, le inquietudini e le angosce dello spirito, il peso delle depressioni, il muro delle ottusità, e tutte le altre cose che si ammucchiano nel nostro mondo intimo come detriti sopra una sorgente occlusa» .
Soffermiamoci allora su alcuni aspetti riguardanti il silenzio.

Tacere
Silenzio significa anzitutto tacere, ridurre e controllare la comunicazione verbale. Tacere non è naturalmente cosa da preferirsi sempre e comunque, come ricorda l’autore sacro: “C’è un tempo per tacere e un tempo per parlare” (Qo 3,7). È noto quanto nella Bibbia si sottolinei l’importanza di saper vigilare sul proprio parlare. Basti questa citazione di s. Giacomo: “Se uno non manca nel parlare, è un uomo perfetto, capace di tenere a freno anche tutto il corpo”( Gc 3,2). Il tacere al quale faccio riferimento nasce da motivazioni valide e da una disciplina interiore.
In tanti nel corso dei secoli si sono diffusi sull’importanza dell’imparare a tacere . Il giovinetto A.G. Roncalli (il futuro Giovanni XXIII) ogni volta che entrava nella casa canonica del suo parroco di Sotto il Monte posava il suo sguardo su un’iscrizione, incorniciata e appesa alla parete, le cui parole gli si dicevano essere di s. Bernardo e che non si cancellarono più dalla sua mente. Vi si leggeva tra l’altro:
“Non credere a tutto ciò che senti;
non giudicare tutto ciò che vedi…;
non dire tutto ciò che sai.
Prega, leggi, fuggi, taci, sta in pace” .
C’è dunque un tacere che nasce dal controllo di quell’impulso così diffuso a dare giudizi e a pronunciarci su situazioni, cose e persone per le quali non abbiamo competenza o comunque circa le quali semplicemente non è necessario che ci pronunciamo.
C’è un tacere che frena la tendenza all’esibizionismo, al chiacchierare superficiale e al pettegolezzo, alla volontà di imporre agli altri le nostre convinzioni se non anche la nostra volontà, al bisogno compulsivo di rimediare a una nostra ferita narcisistica (ad esempio, un rimprovero aspro o uno sfogo aggressivo per riaffermare il nostro valore e non apparire deboli).
C’è un tacere che nasce dal controllo dell’ansia e dalla capacità di resistere sotto la tensione (causata, ad esempio, dalle preoccupazioni della vita o da problemi personali), come pure dal bisogno più o meno inconscio di cercare continuamente comprensione e ascolto da parte degli altri (qualcuno ha dato questo suggerimento un po’ cinico, ma da non trascurare: «Non raccontare i tuoi guai alla gente: all’ottanta per cento non interessano e l’altro venti per cento gode che tu li abbia»). O. Wilde annota con il suo stile tagliente che «a volte è meglio tacere e sembrare stupidi anziché aprire bocca e togliere ogni dubbio».
L’Imitazione di Cristo dà questo suggerimento: “Procurati un luogo appartato, ama di stare solo con te stesso, non andar cercando di chiacchierare con nessuno; effondi, invece, la tua devota preghiera a Dio per conservare compunzione d’animo e purezza di coscienza” .
C’è anche un tacere di fronte alle sofferenze altrui: è un silenzio che nasce dalla consapevolezza dell’inutilità, in certe situazioni tragiche e disperate, di ogni parola umana e dalla volontà di evitare il rischio di dire parole che servono a chi le pronuncia e non a chi le ascolta.
Due immagini (o “icone”, come s’usa dire oggi) tornano alla mente mentre si fa l’elogio del tacere. Una è quella di Cristo che, come attesta il Vangelo, di fronte all’incalzare dei suoi accusatori e all’ingiusta condanna non risponde nulla, tace (Cf: Mt 26,63; 27,14; Mc 15,5; Lc 23,9.): un tacere che, come sottolineano gli evangelisti, desta grande meraviglia. È il silenzio, misterioso, dell’innocente oppresso.
L’altra immagine è quella di p. Cristoforo il quale, recatosi nel palazzo di don Rodrigo per motivi di carità e di giustizia e trovandosi suo malgrado nel bel mezzo delle vacue discussioni che animavano il pranzo a palazzo, provocato in modo insolente e canzonatorio dai commensali rimane in un dignitoso silenzio, come annota con fine ironia Manzoni: «Che si poteva mai rispondere a ragionamenti dedotti da una sapienza così antica e sempre nuova? Niente: e così fece il nostro frate» . È il silenzio dell’umile e della persona saggia – se è vero il proverbio cinese secondo il quale: “il saggio tace, l’intelligente ascolta, lo stolto discute”.

Solitudine
La solitudine è spesso condizione importante, se non necessaria, per vivere il silenzio. «Un’espressione tipica della solitudine è lo stato di silenzio. Solitudine e silenzio si rincorrono. La solitudine aspira al silenzio, il silenzio conduce alla solitudine. Chi non è solitario non può essere silenzioso e viceversa» . È dunque importante riuscire a vivere momenti di solitudine, ma ciò suppone una certa stabilità interiore e (dura) disciplina; anche le esperienze famigliari e sociali attraverso le quali siamo passati hanno il loro peso. Lo psicologo Castellazzi afferma che «l’esperienza della solitudine implica sempre la presenza di una persona: la madre interiorizzata… Sperimentare la capacità di essere soli, prima in presenza della madre e in un secondo momento in sua assenza, è una premessa per essere in grado, inizialmente da bambino e poi da adulto, di entrare piacevolmente in relazione con il proprio mondo interiore e di gestirlo senza dover rendere conto al mondo esterno del proprio stato d’animo. La capacità di essere soli si rivela il vero contenitore della nostra esistenza» . Per apprezzare la solitudine è necessario darsi del tempo, rallentare il ritmo della propria esistenza (la lentezza educa la sensibilità e permette di gustare il sapore della vita), stabilire priorità, programmare con intelligenza le proprie attività. È necessario anche «trovare e avere l’umiltà, il coraggio di riposare» .
Come per il silenzio, anche della solitudine si deve dire che essa ha due volti: può essere fonte di pace, ma anche motivo di tormento e angoscia; occasione per attingere alla profondità del proprio essere, ma anche terreno favorevole alla tentazione. Alcuni sono piuttosto portati per temperamento personale a stare soli; per altri ciò può essere una fatica, che si deve imparare a sopportare per goderne progressivamente i frutti. È noto un pensiero di Pascal, che scrive: «Quando mi sono messo, talvolta, a considerare le varie agitazioni degli uomini e i pericoli e le pene cui si espongono… ho scoperto che tutta l’infelicità degli uomini deriva da una sola causa: dal non saper restarsene tranquilli in una camera» .
Essere soli vuol dire qualcosa di più che non avere nessuno presso di sé: significa essere chiusi in una propria pienezza: chi è solo si riconquista, “torna in sé”. Il biografo di s. Benedetto elogia la capacità di solitudine del santo: “secum vivebat” (viveva stando con se stesso). Solitudine non è certamente selvatichezza o abbandono, così come silenzio non è semplicemente stare muti. Noi abbiamo bisogno certamente degli altri, ma non dobbiamo correre dietro al gregge. La solitudine fa tutt’uno con lo stare in società, come il silenzio con il discorso. L’amore, la parola buona, il gesto soccorrevole, la capacità di entrare in contatto profondo con le persone possono nascere solo dall’intima profondità del cuore, il quale può essere ascoltato e conosciuto soltanto nella solitudine e nel silenzio.

La cura della vita interiore, oggi
Non è sufficiente e non si dura a lungo se ci si limita soltanto a bloccare l’impulso a parlare e a chiacchierare, né basta sforzarsi di stare semplicemente da soli: bisogna imparare il silenzio interiore, bisogna nutrire lo spirito, è necessario alimentare le sorgenti dove affondano le radici del nostro essere. In una parola: occorre curare e arricchire la vita interiore: «Finché non si sarà ritrovata l’interiorità, non si sarà ritrovato nulla» .
Non si può trattare in questa sede il tema così vasto della vita interiore: mi limito quindi a qualche spunto di riflessione prendendo in considerazione alcuni aspetti della cultura contemporanea che più hanno attinenza con il tema che stiamo considerando e mi rifaccio per questo ad un pregevole lavoro di M. Lacroix .
Egli presenta come caratteristica della cultura contemporanea il culto dell’emozione e ne descrive alcune manifestazioni. Sottolinea tra l’altro che oggi c’è una preferenza per le emozioni forti a detrimento delle emozioni calme. La nostra epoca ama l’eccesso. La nostra vita affettiva soffre di uno squilibrio dovuto a un eccesso di “emozioni-shock” e a un deficit di “emozioni-contemplazione”. «Siamo spesso spinti ad abbandonare le emozioni contemplative. Gli affetti disordinati prevalgono sul raccoglimento. Il veleno dell’intemperanza rode la nostra interiorità... “Sempre più eccitazione, agitazione, furore”, questa è la parola d’ordine della nostra epoca» .
Un altro aspetto della crisi della sensibilità contemporanea è l’oblìo del naturale. «L’emozione-shock va di pari passo con l’artificialismo... L’emozione-contemplazione si accontenta dello sguardo di un bambino, del frusciare del vento tra gli alberi, del canto di un uccello, dello sciabordìo di un fiume, di una poesia, di un quadro. Ma per l’appassionato di sensazioni forti, questi oggetti sono privi di fascino» . Diventa più difficile emozionarci per delle cose semplici; dimentichiamo che “piccolo è bello”. Siamo freneticamente alla ricerca continua di nuovi contatti “virtuali”, di immagini e informazioni che i nuovi mezzi informatici mettono generosamente a nostra disposizione; siamo vittime di una specie di bulimia per le immagini digitali, le trasmissioni televisive. La nostra sensibilità diventa tecnodipendente, rischiamo di diventare indisponibili per la bellezza del mondo ed è meno facile fremere davanti a ciò che è naturale.
Di fronte a quell’eccesso di stimoli, di scelte, di informazioni che caratterizza la nostra epoca, appare senz’altro opportuno il richiamo di Benedetto XVI, il quale afferma che «come esiste un inquinamento atmosferico, che avvelena l’ambiente e gli esseri viventi, così esiste un inquinamento del cuore e dello spirito, che mortifica ed avvelena l’esistenza spirituale» .
La vita interiore è nutrita dalla disponibilità alla contemplazione e deve essere rifornita dall’esterno. L’anima si costruisce grazie alle bellezze che si incontrano attorno a noi. «Le persone che emanano interiorità devono il loro tesoro interiore alle impressioni ricevute dall’esterno. Per una, sarà un sentimento d’estasi provato davanti a un quadro; per un’altra, l’ammirazione sentita davanti a un paesaggio, una gioia condivisa con un bambino, una conversazione con un essere amato, un momento di raccoglimento nel corso di una cerimonia religiosa... La vita interiore si forma mediante l’accumulazione dei ricordi d’istanti in cui si è data accoglienza al mondo» . Fa parte di questo stile di vita anche la cura della lettura: i libri ci sostengono nella solitudine e ci evitano di essere un peso a noi stessi.
Torna, dunque, attuale il richiamo che l’ascetica dei secoli passati ricordava spesso: la custodia dei sensi. «Viviamo in una società in cui ogni spazio, ogni momento sembra debba essere riempito da iniziative, da attività, da suoni; spesso non c’è il tempo neppure per ascoltare e per dialogare… Non abbiamo paura di fare silenzio fuori e dentro di noi» .
E infine un semplice accenno a un binomio – silenzio e preghiera – continuamente richiamato nei testi della pietà cristiana. Lo sottolinea anche Benedetto XVI: «La vera preghiera richiede disciplina: richiede di trovare dei momenti di silenzio ogni giorno. Spesso ciò significa attendere che il Signore parli. Anche fra le occupazioni e lo stress della nostra vita quotidiana abbiamo bisogno di dare spazio al silenzio, perché è nel silenzio che troviamo Dio, ed è nel silenzio che scopriamo chi siamo veramente» .
Silenzio, solitudine, quiete: sono altrettante vie per penetrare in quella profondità che chiamiamo anima e sono premesse perché l’incontro umano si faccia comunicazione profonda, condivisione di vita, sensibilità e delicatezza.