Di fronte alle problematiche affettive del clero, che ultimamente sono tornate alla ribalta sulle pagine della stampa, emerge con sempre maggiore chiarezza il bisogno di riscoprire il servizio pastorale come dedizione oblativa che affonda le sue radici nell’amore di Cristo. Questa riscoperta fa parte di un processo di crescita che coinvolge anche la vita consacrata, e che può essere rafforzato da proposte formative e curative che aiutino a realizzare le finalità vocazionali nelle dinamiche interpersonali che i religiosi e le religiose vivono nel quotidiano della loro esistenza. Tale cammino è possibile solo se è radicato nei vissuti e nelle problematiche concrete che emergono lungo la vita.
Quando il papa dice «faremo tutto il possibile per assicurare che questo non si ripeta in futuro» , riferendosi agli scandali sessuali che hanno afflitto la , indica che è tempo di dare priorità assoluta a un rinnovamento vigilante e consapevole verso se stessi e il proprio modo di rapportarsi agli altri, per custodire e vivificare la propria identità di fede nel servizio a Dio e ai fratelli.
Anche la vita consacrata si propone di fare tutto il possibile per tenere viva questa identità di servizio autentico nelle diverse attività pastorali in cui è coinvolta, dove ognuno è chiamato a farsi carico della fedeltà al carisma originario e della propria crescita umano-spirituale, riscoprendo continuamente che «occorre confidare in Dio come se tutto dipendesse da Lui e, al tempo stesso, impegnarsi generosamente come se tutto dipendesse da noi» .

Oltre un rinnovamento di facciata

Per realizzare tale lavoro di rinnovamento servono interventi qualificati sia nel campo della fede, necessari per rivitalizzare la radicalità dell’affezione comune a Cristo, e sia nel campo della maturazione umana, dove ognuno valorizza il proprio ruolo educativo per rispondere con coerenza alla chiamata ricevuta, anche quando emergono problematiche psico-affettive che possono destabilizzare la propria struttura di personalità.
Ciò richiede un’attenzione tutta speciale ai reali bisogni delle persone nei diversi ambiti di azione, per arrivare a dare risposte adeguate che siano integrate nel percorso di maturazione del singolo e dell’istituzione di appartenenza. Senza questa attenzione, tipica di una formazione permanente incarnata, si rischia di accorgersi dei problemi… solo a fatto compiuto, quando cioè gli eventi diventano abnormi e ingestibili. In questi casi non resta che rincorrere le diverse emergenze per cercare di tamponare gli agiti, con interventi riparativi o censori che sono l’estrema soluzione, l’unica possibile quando i comportamenti si rivelano come “un’infame emergenza non ancora superata”, o come “una condizione di schizofrenia esistenziale”, secondo le espressioni usate dallo stesso cardinale Angelo Bagnasco .
Assieme alla necessità di debellare questi episodi estremi di patologia, la preoccupazione pastorale della Chiesa è incentrata soprattutto sulla ricerca di un metodo educativo capace di attivare una prevenzione costruttiva e propositiva, che faccia emergere continuamente «l’unità tra autoevangelizzazione e testimonianza, tra rinnovamento interiore e ardore apostolico, tra essere e agire» .
Per questo scopo occorre far uso di una ragione profonda, che aiuti a riconoscere il clima di poca chiarezza e di superficialità che a volte pervade lo stile di vita delle persone, e che col tempo logora la dignità della propria vocazione. «Solo esaminando con attenzione i molti elementi che diedero origine alla presente crisi è possibile intraprendere una chiara diagnosi delle sue cause e trovare rimedi efficaci» . Questo appello è molto più che un semplice incoraggiamento di circostanza. Esso è piuttosto un’esortazione a voltare pagina, perché dalle ritrovate certezze possa sgorgare un vero cammino di purificazione e di guarigione che aiuti a dire “basta” alle situazioni di ambiguità effettiva, ma soprattutto che possa ri-orientare l’intera comunità ecclesiale verso la dignità del servizio a cui è chiamata.

Alle radici del cambiamento

A leggere i recenti interventi del magistero sulle situazioni difficili vissute in questi ultimi tempi, si nota la ferma volontà della e della vita consacrata a puntare verso un rinnovamento operativo che spinga a riappropriarsi di un metodo educativo che rinsaldi la chiarezza della missione evangelizzatrice. La programmazione di questo cambiamento, però, non può essere qualcosa di episodico o frammentato, che lascia le cose inalterate, né può limitarsi a dei semplici aggiustamenti strutturali o a qualche commissione indagatrice in più.
Deve invece tener conto delle attuali esigenze di vita che emergono nell’intero processo di maturazione delle persone, sia nella formazione di base che in quella permanente. «La cosa più tragica, confidava il rettore di un Seminario Maggiore, è che a volte nella formazione si naviga a vista, seguendo un po’ la logica del… si fa quel che si può. Spesso, i tanti documenti scritti non rispondono più ai bisogni educativi dei giovani e alle loro problematiche, e sfortunatamente non si intravedono nuove proposte in cantiere». A guardare i fatti, però, non è più possibile limitarsi a “fare quel che si può”, perché il contentarsi della mediocrità nel processo di maturazione equivale a rinunciare alla responsabilità educativa che qualifica ogni risposta vocazionale, e che sollecita una speciale attenzione ai segni dei tempi presenti nei diversi ambiti operativi: nel servizio pastorale, nella testimonianza di vita, nel modo di stare con la gente, nel modo di costruire le fraternità sacerdotali, nel modo di vivere in comunità.
Il Vangelo insegna invece una logica di chiarezza decisionale, che di per sé non ha nulla di super-eroico, ma corrisponde al coraggio di chi si affida con libertà e responsabilità nelle mani di Dio, per farsi modellare dalla grazia del suo Spirito.
Questo comporta il saper conciliare permanentemente la meta della santità che caratterizza ogni ambito della vita consacrata, con l’attenzione alle situazioni, ai problemi, alle difficoltà, ai ritmi diversificati del cammino di crescita. «Ciò esige una sapiente elasticità, che non significa affatto compromesso né sui valori né sull’impegno cosciente e libero, ma amore vero e rispetto sincero» .
Inquadrare la grave urgenza di formazione continuativa in questo bisogno di rinnovamento che parte dai valori condivisi, vuol dire riconoscere che la questione educativa non è un fatto scontato, o qualcosa che si aggiusta col tempo, ma è un processo di coinvolgimento lento e costante, di cui se ne avverte il bisogno soprattutto quando affiorano condizioni di malessere e di crisi che, se si protraggono, rischiano di svuotare di senso la propria identità profonda. Eppure, sono proprio questi momenti di conflittualità e di crisi che possono far riemergere nella persona quell’aspirazione esistenziale verso la propria unità interiore, quel senso di fedeltà che aiuta a integrare le parti fragili di sé, rafforzando le sue abilità di discernimento e la sua capacità di effettuare scelte che la orientino verso obiettivi comuni.

Il caos calmo di un’affettività inquieta


Uno dei punti di verifica del processo di maturazione di un individuo è la qualità delle relazioni che instaura. Entrando in contatto con gli altri egli rafforza il suo stile relazionale e le sue competenze sociali, ma fa anche risaltare il grado di integrazione e di equilibrio che ha raggiunto nella sfera affettivo-sessuale. Canalizzando questa vitalità in uno stile relazionale autentico, egli partecipa a un progetto di vita che lo rende disponibile agli altri, ma anche capace di discernere le forze e le situazioni conflittuali e difficili, per poterle armonizzare con un ideale di vita che esige una coerenza di fondo tra il dire e il fare. È proprio in questo processo di auto-trascendenza, aperto a un rapporto rispettoso della propria e dell’altrui identità, che la persona sviluppa e rafforza la sua capacità di donazione e di amore, perché «in essa si esprime non solo l’esigenza di riconoscimento dell’unicità dell’altro ma anche la necessità di riscoprire l’unicità del proprio Io» . Questa apertura all’arricchimento reciproco pone le basi per un sano investimento psico-affettivo, realizzabile nei diversi contesti di dedizione dove i consacrati possono testimoniare la forza trasformante del Vangelo, quella forza che spinge a un amore oblativo verso tutti, sull’esempio di Cristo buon Pastore.
Integrare la vitalità affettiva e sessuale nel proprio stile di vita vuol dire riscoprirne la reale la potenzialità “oblativa”, che si traduce in capacita di donazione e di amore altruistico assunto come dono e, allo stesso tempo, come compito da realizzare nei rapporti con gli altri. «Quando questa capacità si realizza in misura adeguata, la persona diviene idonea a stabilire contatti spontanei, a dominarsi emozionalmente e a impegnarsi seriamente. L’aspetto oblativo della sessualità comporta il sentimento di essere “l’uno per l’altro”» .
In tale relazionalità autentica, gli individui manifestano i segni della loro adesione a una vita comune che va oltre i rapporti specifici e diventa “principio educativo” per un amore più grande, che permette di vedere nel volto del fratello il volto di Cristo . Ciò significa che il loro stile relazionale, pur basato su qualità umane, sarà intriso di una comunione capace di trascendere il “qui e ora” delle dinamiche interpersonali, poiché li apre a una consapevolezza più ampia, che comprende il rapporto con Colui che dà senso a ogni sforzo umano.
Questa spiritualità di comunione, immersa com’è nella storia evolutiva di ciascuno, diventa un programma di vita che esige una continua integrazione delle diverse dimensioni relazionali che entrano a far parte non solo del loro lavoro pratico di dedizione, ma della loro stessa identità di consacrati. Infatti, è nelle dinamiche interpersonali che essi possono armonizzare i loro legami altruistici con quell’unità di fondo col Cristo che caratterizza la loro vocazione e la loro missione evangelizzatrice.
Al contempo è nel modo di vivere i rapporti con gli altri che imparano a riconoscere le distorsioni affettive, quando mettono al centro i propri interessi autoreferenziali, stabilendo relazioni confusive e affettivamente inadeguate che non rispondono alla logica del Vangelo. La poca consapevolezza di questi bisogni affettivi distorti, unitamente alla tendenza a perpetrare modalità che già nel passato sono state motivo di sofferenza, possono rafforzare tali disfunzioni fino a creare una spirale patologica da cui è difficile uscirne.

Maturazione sessuale e vita buona del Vangelo

La maturazione sessuale non è solo assenza di comportamenti illeciti, ma è presenza di una permanente auto-educazione complessa e articolata, che richiede una continua attenzione ai momenti di crisi e di squilibrio. «Una sessualità matura, con le caratteristiche cui abbiamo accennato, non potrà essere raggiunta senza conflitto, senza rinunzie o difficoltà» .
Non meraviglia che le persone possano avere delle difficoltà nel vivere una sana sessualità. Sorprende enormemente, invece, quando non sono vigilanti abbastanza da riconoscere i segnali di una conflittualità affettiva che affonda le sue radici in una struttura di personalità disarmonica, dove la sessualità non è integrata con le motivazioni che fondano l’esistenza.«“Quando sono in balia delle mie pulsioni, rivelava un giovane confratello, mi sembra di non sapere più chi sono, mi sembra di non essere più motivato a dire di no al mio comportamento sregolato, mi sembra di avere già perso: l’unica cosa che posso fare è di arrendermi!».
Quando la sessualità è scissa dal progetto di vita, la persona si sente privata di ogni capacità decisionale, e rischia di restare succube del proprio malessere e delle proprie nevrosi. Una tale visione riduttiva di sé non lascia spazio alle componenti più profonde dello spirito umano, quelle che aiutano ad aprirsi e a trascendere la propria finitudine, per cogliere il senso teleologico delle enormi potenzialità che sono donate ad ognuno.
Dal punto di vista psicodiagnostico, gli indicatori di una immaturità psicoaffettiva sono molteplici e a volte anche molto intensi e coinvolgenti, soprattutto quando le persone sono costrette a ricorrere a mille giustificazioni per normalizzare i loro comportamenti disfunzionali. Anche quando si tratta di comportamenti egosintonici (quando cioè il soggetto non avverte la gravità delle sue azioni, anzi le sente in armonia con i propri bisogni affettivi), ci sono dei segnali di un’ambiguità latente che si riflette nel rapporto con gli altri, segnali che a volte sono delle vere e proprie richieste indirette di aiuto, che sottendono un malessere spesso taciuto e nascosto.
Un’identità di genere confusa, una intensa regressione a stadi evolutivi precedenti, un’educazione rigida e repressiva della sessualità, un clima familiare anaffettivo , sono alcune tra le condizioni che preparano il terreno per un sistema relazionale conflittuale e ambiguo, dove si depositano le esperienze copionali passate e si sedimentano le convinzioni patologiche attuali.
«Predica bene ma la sua vita è stata per tanto tempo una contro-testimonianza», diceva un religioso, a proposito di un suo confratello accusato di avere troppe amicizie ambigue tra le donne della parrocchia. Col passare del tempo, questa dissociazione può tradursi in una crisi di identità che destabilizza lo sviluppo evolutivo del soggetto, fino a strutturare uno stile di vita interiormente inquieto, con dei vissuti di insoddisfazione e di frustrazione che corrodono i buoni propositi o i fervori di una spiritualità ritualizzata.
In tali circostanze, il disagio diventa “crisi di vuoto”, “perdita di senso”, acquietata da false giustificazioni che servono a sedare l’ansia generata dall’incongruenza tra il desiderio di un’affettività libera e oblativa, legata a valori e motivazioni vocazionali, e i comportamenti che di fatto sono soggiogati alla soddisfazione dei propri bisogni egoistici.

Anche un solo caso sarebbe già troppo!

In una ricerca commissionata dai vescovi statunitensi, recentemente resa pubblica nello stesso sito ufficiale della conferenza episcopale nordamericana, è stato messo in evidenza come le problematiche sessuali dei preti, in fondo, non sono legate al loro status o allo stile di vita delle loro attività pastorali. In particolare, sembrerebbe che non ci siano elementi sicuri per poter predire che un sacerdote o un religioso può commettere atti di abuso sessuale, né tantomeno è possibile prevedere – sempre stando ai risultati emersi in tale ricerca – tali comportamenti criminosi .
Benché questi risultati siano confortanti, di fatto però non sminuiscono la gravità dei comportamenti che sono frutto di una sessualità dissociata dai valori professati. Così come non aggiungono nulla a ciò che già si conosce sul fenomeno degli abusi sessuali sui minori perpetrati da sacerdoti . Purtroppo, le ricerche relative alla diagnosi di queste patologie ci ricordano che spesso queste persone non manifestano alcuna anomalia psichica. Non solo, ma addirittura riscuotono stima e apprezzamento nell’ambiente circostante . Ed è proprio questa commistione silenziosa tra normalità e patologia che rende particolarmente ardua non solo l’identificazione di tali soggetti, ma anche la prevenzione dei loro agiti e la stessa convivenza nei contesti comunitari.
Infatti, le loro fragilità affettive si mimetizzano bene in una “patologica normalità” di vissuti interpersonali quotidiani non equilibrati, che molte volte si rivelano in problemi socio-affettivi e relazionali ripetitivi, apparentemente non destabilizzanti, a cui gli altri riescono anche ad adattarsi (o fanno finta di non accorgersene), ma che con l’evolvere del tempo non fanno che rafforzare le patologie sottostanti.
Man mano che l’ambiguità prevale sull’autenticità delle relazioni, si accentuano le condizioni di malessere individuale e interpersonale: il potere, l’ambizione, l’arrivismo, il pressapochismo superficiale, la pastorale basata sulle cose da fare. Ma anche i silenzi, i pettegolezzi, le critiche, le false aspettative, le gelosie morbose. Sono le tante “sporcizie” di cui parlava Benedetto XVI , che si accumulano quando si abdica al compito di una carità che è a imitazione di Cristo e del suo modello di donazione e di servizio.
Se tali condizioni si trasformano in un pervasivo stile di vita, ambiguo e poco incisivo rispetto alle scelte professate, allora anche gli agiti più gravi potranno trovare un loro spazio “abituale”, fino a manifestarsi con il loro vero volto patologico in quei fatti eclatanti che generano malessere e sconcerto.
Questo rischio di una normalità equivoca, che lascia sedimentare patologie sottese o già strutturate nelle personalità psicologicamente più fragili, lo aveva già evidenziato Rulla negli anni settanta. Già lui aveva messo in guardia, constatando che a volte quanti entrano nella vita consacrata e sacerdotale riportavano rilevanti difficoltà psicologiche che si manifestavano in una incongruenza tra valori proclamati e motivazioni subconscie, soprattutto per alcune variabili di personalità, quali la dominanza, la sfiducia in sé, il bisogno di giustificarsi, l’aggressività, variabili che incidevano negativamente sullo stile relazionale del soggetto .
Ma la cosa più grave evidenziata dalle sue ricerche era che tali “inconsistenze psichiche centrali” riscontrate all’ingresso, continuavano a persistere anche a distanza di anni, indicando così che la formazione non aveva inciso minimamente su tali condizioni patogene, semplicemente perché… nessuno se n’era accorto. Il che è alquanto anomalo se non grave, se si considera che il compito prioritario della formazione è «di percepire le reali motivazioni del candidato, di discernere gli ostacoli nell’integrazione tra maturità umana e cristiana e le eventuali psicopatologie» .
Quindi, se da una parte è rassicurante – come riportano le conclusioni della ricerca dei vescovi USA – che la maggior parte dei sacerdoti non hanno dei tratti specifici che indicano che possano commettere atti di abuso, così come è importante sapere non c’è un nesso causale tra celibato e violenze sessuali, allo stesso tempo tali considerazioni non tolgono nulla alla gravità di quei comportanti che non solo compromettono il singolo ma incidono sulla credibilità comune. Per cui, «anche un solo caso sarebbe già troppo» , ogniqualvolta si manipola l’amore per gli altri, e si tollerano comportamenti inautentici che sono incompatibili con le scelte di vita sacerdotale e religiosa. Soprattutto se si tratta di episodi che pregiudicano l’identità stessa della consacrazione, perché distorcono i valori fondanti la risposta vocazionale – come la potenzialità oblativa della sessualità – e il modo di viverli nel proprio stile di vita.

Verso un metodo evolutivo, tra fedeltà e competenza

«Gli Istituti sono dunque invitati a riproporre con coraggio l’intraprendenza, l’inventiva e la santità dei fondatori e delle fondatrici come risposta ai segni dei tempi emergenti nel mondo di oggi. Questo invito è innanzitutto un appello alla perseveranza nel cammino di santità […]. Ma è anche appello a ricercare la competenza nel proprio lavoro e a coltivare una fedeltà dinamica alla propria missione» .
I tanti documenti del magistero sull’urgenza della formazione permanente soprattutto in questo tempo di crisi, sembrano andare tutti nella stessa direzione: è il momento di rivitalizzare la fedeltà e la perseveranza alla chiamata alla santità, ma è anche tempo di fornire risposte competenti e coerenti con la vocazione ricevuta.
Che significa? Vuol dire anzitutto che la programmazione di una formazione rinnovata non può ridursi a una sommaria preparazione di codici di condotta, scritti sulla carta ma senza essere vagliati sul piano della realtà. Forse, la più grande tentazione della formazione permanente è credere che il tempo aggiusterà le cose, che dopotutto non è così grave, che è questione solo di pochi casi. L’urgenza educativa necessita invece l’attenzione costante a ciò che fonda la propria identità vocazionale, come pure ai diversi indicatori di crescita e ai diversi segnali di crisi che possono insorgere. Come ha ribadito P. Zollner, Preside dell’Istituto di Psicologia dell’Università Gregoriana, in una recente conferenza «occorre saper esaminare e discernere con saggezza ma anche con sapienza scientifica ciò che c’è dietro ogni singolo caso di immaturità affettiva».
Esaminare ciò che accade nei vissuti delle persone vuol dire radicare ogni intervento educativo sulla certezza del dono di sé fondato sull’esempio di Cristo, e sui concreti bisogni di cambiamento che emergono durante le diverse fasi di vita. In effetti, le problematiche vive che la persona affronta lungo il corso della propria esistenza, oltre che essere motivo di sofferenza costituiscono anche una spinta vitale, che è sì una risorsa funzionale, ma è anche una ideazione di possibili itinerari da calibrare a seconda delle concrete esigenze educative, perché l’individuo si sintonizzi con le motivazioni autentiche della sua scelta di vita.
La fedeltà a una chiara identità di base, e il conseguimento di competenze adeguate che arricchiscono e amplificano tale identità, sono perciò i due pilastri su cui si fonda questo processo evolutivo. «Quindi non posso accontentarmi delle mie convinzioni di fede? Non mi basta dire che ci penserà Dio a risolvere i miei problemi affettivi, perché Lui è buono e mi capisce?». Chiedeva un po’ spaesata una consorella di mezza-età durante un workshop di formazione permanente. «No di certo! Soprattutto se queste certezze non si tramutano in una continua ricerca della Verità», gli ha risposto l’animatore della sessione.
In effetti, entrambi gli aspetti – fedeltà e competenza – devono essere chiaramente distinti e continuamente armonizzati. «Ogni giorno siamo chiamati a fare memoria del dono ricevuto, così come ogni giorno siamo chiamati a rinnovare il nostro sì, soprattutto quando la fedeltà diventa più difficile!», sentenziò un anziano padre maestro, anche lui presente in quel corso di formazione.
Il primo aspetto comporta un’adesione permanente alla propria identità di base, che si realizza nella propria struttura di personalità e nel proprio modo di essere nel mondo: fedeltà a se stessi, alla propria autostima, all’integrità di sé, allo sviluppo motivazionale di base; ma anche all’opzione di fede, alla chiarezza vocazionale, alla capacità di adesione al progetto di vita… Il secondo aspetto, invece, riguarda i fattori più sensibili alla precarietà e allo sviluppo della storia evolutiva di ciascuno, che però acquistano competenza e consistenza nelle tante occasioni di risposta vocazionale che la persona ha.
«Ma quando mi diventa difficile vivere la sessualità, o quando non riesco a contenere i miei impulsi, si domandava un giovane religioso, come posso integrare ciò che mi risulta impossibile?». In questo caso come in situazioni simili, arrendersi o far finta di niente è la cosa più facile, così come è comodo scindere l’ideale di una vita nuova dalla realtà della propria vita quotidiana o delle tante fatiche quotidiane.
La capacità allora di decidersi di volta in volta, permette di dare sempre una risposta competente e fedele, nella misura in cui la persona si ri-sintonizza con il significato permanente della chiamata ricevuta, una risposta che è da migliorare con sollecitudine e autorevolezza nelle scelte quotidiane.
Questa duplice prospettiva pone delle conseguenze educative molto forti, a livello di metodo e, soprattutto, di metodo evolutivo. Perché comporta una vigilanza specifica sia per la conoscenza descrittiva di sé e delle proprie singolarità (chi sono io), e sia per la prospettiva vocazionale che spinge il soggetto a riscoprire il perché delle proprie scelte di vita (per che cosa e per Chi io esisto). Del resto, è proprio questo il punto focale del lavoro di ogni formazione permanente: l’attenzione a una chiara prospettiva intenzionale, intesa come continuo auto-trascendimento, per andare oltre il limite degli eventi (ma anche dei sintomi, quando si tratta di una malessere psichico e relazionale), ed aprirsi alle tante possibilità di “guarigione esistenziale”.
Ciò permette di avere uno sguardo di speranza sulla possibilità di cambiamento, soprattutto quando diventa più difficile, perché si tratta di un processo che si inserisce nel quadro di una trasformazione continua, che risponde non solo alla risoluzione delle problematiche immediate che la persona vive, ma anche al bisogno di integrità umano-spirituale che essa si porta racchiuso dentro di sé.

Prendersi cura della propria formazione permanente

Nessuno può esimersi dal compito di amare la propria formazione permanente, poiché ogni azione pastorale (all’esterno come al proprio interno, nelle comunità religiose) ha questo carattere educativo, soprattutto quando ci si trova di fronte a destinatari che si affidano alle nostre cure pastorali e si aspettano una testimonianza di vita che sia coerente con le tante parole predicate.
Occorre allora recuperare la valenza educativa della crescita umana e spirituale, a cominciare dal proprio stile di vita, esigendo un monitoraggio continuativo dove le proposte formative e curative siano effettivamente parte del proprio processo di crescita. Per questo è necessario ravvivare una sensibilità che accomuni gli sforzi educativi, dando forma a dei nuclei di formazione che operino con questa prospettiva di continuità, con dei ritmi diversificati di cammino e di crescita a seconda delle situazioni che le persone vivono.
La struttura armonica di questo cammino dovrà tener conto della specificità della domanda e del percorso maturativo in cui il soggetto si trova. Ciò richiede di canalizzare le proprie energie vitali verso relazioni intense e libere, caratterizzate da qualità umane coerenti col progetto vocazionale.
Questa riscoperta impegna a riconoscere le proprie competenze ma anche a decidere di plasmare le proprie fragilità psichiche lungo il processo di crescita, nella vita di ogni giorno, nelle fatiche pastorali, nei rapporti interpersonali, nei diversi campi dove ci si sente responsabili della propria vocazione. Inoltre, è un lavoro orientativo che è sostenuto dalla fedeltà alla sequela di Cristo, realizzata e attuata «con la forza della carità vissuta quotidianamente nella comunione fraterna e in una generosa spiritualità apostolica» .
Certamente non si tratta di un cammino facile né scontato, perché richiede un faticoso impegno di attenzione e di discernimento. Ma è nei momenti di crisi e di difficoltà che si riscopre la vera forza della grazia, certi che Dio solo è la nostra fortezza. Solo con Lui sarà possibile continuare ad essere dei segni viventi del Suo amore, anche quando umanamente parlando sembrerebbe impossibile.