“Figliolo i tuoi peccati ti sono rimessi”. Le parole di Gesù scatenano il
primo putiferio del vangelo di Marco. Il caso è abbastanza noto e lo si può
richiamare solo per accenni. Si tratta dell’intervento in favore di un
paralitico, guarito da Gesù in terra di Galilea. Quattro amici speranzosi calano
il malato per il tetto, visto che la folla numerosa impediva loro di avvicinarsi
al rabbì di Nazareth. Il vangelo racconta di Gesù che si commosse per loro, e
che, vista la loro fede, uscì con quella frase. In sostanza Gesù non guarì
subito il malato, cosa che avverrà solo più avanti. La prima affermazione di
Gesù riguarda invece il perdono dei peccati. Non l’avesse mai detto! È a questo
punto che il vangelo di Marco cita la prima reazione ostile di qualcuno nei
confronti del nuovo profeta. Le autorità del luogo vanno in escandescenze:
quell’uomo bestemmia, perché solamente Dio può perdonare i peccati dell’uomo. Va
così in scena quella che sarà la prima delle dispute galilaiche di Gesù,
contenute nel vangelo di Marco, e che rappresenteranno il primo punto di rottura
tra l’establishment giudaico e il nuovo rabbì.
Che cosa è più facile dire, chiede Gesù: ridonare l’uso delle gambe ad un
ammalato, o perdonare i peccati? La risposta di un ebreo non contemplava dubbi e
cadeva immediatamente sul primo termine dell’alternativa. Perdonare i peccati:
nessun uomo avrebbe mai potuto farlo… È molto più semplice rialzare un ammalato
che concedere il perdono dei peccati all’uomo. Nemmeno il messia, per un ebreo,
poteva offrire il perdono dei peccati.
Il prete servo della riconciliazione
Partiamo da queste osservazioni, abbastanza generali, per leggere il documento
preparato dalla Congregazione per il clero, e indirizzato a tutta la Chiesa, che
prende in esame la figura del prete come confessore e direttore di anime.
Titolo: Il sacerdote ministro della misericordia divina. Il testo è stato
pubblicato all’inizio della scorsa quaresima. Un documento abbastanza lungo,
teso a sintetizzare una materia vasta, e per questo motivo un po’ appesantito da
qualche sovraccarico di struttura.
Prima di sviscerare i suoi contenuti, formuliamo però una considerazione
banalissima. Non è scontato che in una compagine religiosa ci sia un uomo che,
in nome di Dio, può concedere a un suo fratello il perdono dei peccati. Anzi è
molto raro. Come si evince dalle poche osservazioni fatte su di un brano del
vangelo di Marco, scorgiamo come quando qualcuno avoca a sé questo potere,
subito qualcun altro se ne scandalizza.
Eppure, per tradizione remotissima, esistono nelle nostre chiese ministri che
accolgono penitenti, che li abbracciano e li consigliano, e che li rimandano con
la pace del cuore e il perdono dei peccati offerto in nome di Dio. Il mistero è
grande. È questo caso che usiamo la parola “mistero” come fosse sinonimo di
sacramento.
Presentando l’identità del prete confessore, il documento vaticano utilizza il
legame cristologico come chiave per comprenderne la figura. I preti possono
impartire l’assoluzione dei peccati non perché detengono un potere in autonomia,
ma perché sono chiamati a ripresentare nella Chiesa il mistero di Cristo. Ciò
che vi era nel ministero storico di Gesù sopravvive nei sacramenti della Chiesa.
E certamente il Gesù benevolente nei confronti dei peccatori, autentico medico
delle anime, capace di riconciliare a Dio e ai fratelli anche i peccatori più
incalliti, è uno dei tratti cristologici più evidenti del vangelo. Gesù non
frequenta la setta dei farisei. Non vuole una santità che sia frutto di una
separazione dagli altri, nel disinteresse più completo nei confronti di ciò che
era ritenuto impuro, ma s’immischia con l’umanità, sta a tavola con i pubblicani
e le prostitute, adotta uno stile pastorale ben diverso da quello del Battista.
Lo si direbbe un profeta un po’ lassista, incapace di lanciare strali infuocati
verso gli uomini che sbagliano. Qualche volta confessa il suo debole per
l’umanità più ferita: non è venuto per i sani, ma per i malati; non per i
giusti, ma per i peccatori. Un profeta davvero strano, poco in linea con quelli
che lo hanno preceduto immediatamente, molto più prossimo ad alcune linee di
tenerezza che nel primo testamento appaiono un po’ secondarie.
Da queste poche battute si comprende come nel ministero sacerdotale vi debba
essere un interesse non marginale nei confronti dell’umanità dolente e
sconfitta. Il documento della Congregazione cerca di rendere pratiche queste
disposizioni per i sacerdoti. Il ministero del prete passa per una pratica
diuturna del confessionale. Il primo modo per rendere efficace l’accostamento
del prete nei confronti dei penitenti è far sì che la pratica della confessione
sacramentale sia accessibile. In sostanza che i sacerdoti stiano, anche
fisicamente, nei confessionali. Poi il documento esprime alcune osservazioni
pratiche sullo svolgimento del dialogo personale e sulla celebrazione del
sacramento. Chi volesse trovare in esso delle novità, ne resterebbe deluso. Il
documento, infatti, è una buona sintesi della dottrina comune della Chiesa, così
come si è imposta soprattutto negli anni che hanno seguito il concilio Vaticano
II. Anche le osservazioni sulla forma comunitaria della celebrazione e sull’ecclesialità
del sacramento appaiono molto in linea con ciò che il magistero, la teologia e
le disposizioni canoniche hanno viepiù ribadito in questi anni.
La pastorale penitenziale del santo curato di Ars
Un punto di novità, che si può facilmente riscontrare nel documento, riguarda
invece il riferimento al santo curato di Ars come figura chiave per apprendere
un’autentica spiritualità sacerdotale, tesa all’accoglienza dei penitenti. I
riferimenti del documento sono soprattutto legati all’ultima epoca della vita di
san Giovanni Maria Vianney.
Forse non si è mai parlato abbastanza del santo curato di Ars come di un
autentico martire del confessionale. Il luogo tipico del suo ministero pastorale
fu la grata. Qualcuno si è divertito a fare quattro conti, calcolando quanta
gente finiva in ginocchio davanti a lui, nella penombra della chiesa, conti che
hanno dell’incredibile e che arrivano a enumerare trentamila penitenti ogni
anno. Statistiche un po’ improbabili. Più credibili i calcoli delle ore.
Qualcuno sostiene che il vecchio curato si fermasse anche sedici ore al giorno
in mezzo ai penitenti.
Ma al di là di questi conti numerici, è interessante scandagliare l’evoluzione
che si attuò nel Giovanni Maria penitenziere. I primi parrocchiani che si
confessano da lui ne escono turbati. Il curato è duro. Esige dagli altri ciò che
sta realizzando in se stesso. Per tutti vi deve essere un ritorno a Dio totale,
senza ombre, senza cedimenti. Nei colloqui lotta contro quel rispetto umano che
talora impedisce di fare il bene e di compierlo con evidenza. Siamo agli inizi
della laicità francese, e qualcuno manifesta timore nel rendere pubblico il suo
cammino di fede. Per il curato non vi deve essere tutto questo.
Spesso rimanda l’assoluzione, a volte per anni interi. Un’adolescente colpevole
di aver partecipato a un’innocua fiera di paese rimane per otto anni senza
assoluzione. Perfino la sua discepola fidata, quella che si prese cura della
casa per bambini abbandonati, arrivò a supplicare il Signore di togliere da Ars
quel suo servitore così fermo, così esigente nel richiedere la disciplina
personale, così impossibile da esaudire nel suo programma di vita austera.
Poi, quasi impercettibilmente, qualcosa mutò nel cuore del curato. Questo stile
così rigoroso era forse il retaggio della formazione del suo maestro di
gioventù, monsignor Balley. Intorno al 1840 qualcosa si ruppe. Giovanni Maria
risiedeva ad Ars ormai da vent’anni. È forse in quest’epoca che egli prese
congedo da quei germi rigoristi e un po’ giansenisti che facilmente avevano
attecchito nella sua coscienza cristallina. Smette così di essere un uomo del
Settecento. Si confronta con altri sacerdoti. Soprattutto il vescovo della sua
diocesi si fa promotore della nuova spiritualità che proveniva dal meridione
d’Italia. La teologia morale di sant’Alfonso fa breccia.
Così il confessore di Ars cambia stile. I peccatori che si accostano a lui,
anziché castigati, cominciano ad essere abbracciati. La gente parla delle sue
amarezze, dei suoi sbagli, delle sue fatiche e il prete, dall’altra parte della
grata, piange lacrime di tenerezza. Scrive un pellegrino: «Quello che posso
dirvi, signori, è che il curato di Ars piange e che si piange con lui; questo
non capita da altre parti”». Prima Giovanni Maria vedeva solo il dolore di Dio
per il peccato del mondo, ora vede solo il dolore dell’uomo per la sua povera
condizione di mortale e di peccatore. Ma se gli uomini sono così, come potrà Dio
non amarli?
L’accompagnamento spirituale
La seconda parte del documento della Congregazione per il Clero è totalmente
dedicata al carisma dell’accompagnamento spirituale. Si tratta forse della parte
più originale del testo. Se nella prima, infatti, abbiamo a che fare con una
materia abbastanza nota, e più volte richiamata dal magistero ecclesiale, questa
seconda parte riserva invece dei tratti di novità. Non tanto perché esprime dei
concetti inediti, ma perché s’impegna in una sintesi che difficilmente si può
trovare in altri testi ufficiali. Questa parte si presenta come particolarmente
ricca, e ci esimiamo dal riassumerla per intero. Essa tocca diversi argomenti:
l’importanza dell’accompagnamento spirituale nella formazione dei futuri
presbiteri, la sua rilevanza per la vita dei sacerdoti, sia dal punto di vista
“attivo”, cioè della disponibilità di tempo e di ascolto che i sacerdoti devono
ai propri fedeli, ma anche “passivo” perché il cammino di discernimento, vissuto
nella scia di un padre spirituale, è tra gli strumenti più efficaci di
perseveranza e di qualità di ogni cammino cristiano.
Qui richiamiamo solamente alcune caratteristiche della paternità spirituale. Al
contrario della riconciliazione, essa non rientra tra i sacramenti ecclesiali.
La sua natura è carismatica, e non è necessariamente legata all’ufficio
sacerdotale. Padri spirituali possono essere anche laici. Padre T. Spidlik,
grande figura di teologo e di sacerdote, nominato cardinale da papa Giovanni
Paolo II, amava distinguere la confessione sacramentale dalla direzione
spirituale indicando un semplice crinale. Nella prima l’argomento principale era
il “passato”: cosa è avvenuto nel cammino di un cristiano e che, per questo,
deve essere affidato alla misericordia divina. Nell’accompagnamento spirituale,
invece, il grande tema che viene suscitato riguarda il “futuro”, cioè i desideri
del cuore di una persona. L’accompagnamento spirituale vaglia quel brulichio di
pensieri che continuamente ci attraversa, e in esso cerca di intuire la presenza
di Dio. La distinzione non può essere adottata in maniera radicale, ma è vera.
Nel dialogo di paternità spirituale il passato conta solo per intuire la
prospettiva del futuro.
Al padre spirituale viene chiesta la “cardiognosia”, cioè la conoscenza del
cuore di una persona, l’io interiore dove risiedono tutti i suoi desideri, e le
sue speranze più recondite. Il padre spirituale lavora su questa materia
magmatica, per comprenderla a fondo, e per trovare in essa il respiro di Dio.
“Lui sa quello che c’è nel mio cuore”: probabilmente è questa la frase che
fiorisce sulle labbra quando finalmente Dio regala a noi un padre spirituale. Un
uomo in ascolto. Che parla solo dopo aver passato molte ore in attesa, perché i
desideri del cuore di chi gli sta davanti siano totalmente dispiegati. Non è poi
facile al consiglio. Spesso si limita ad accompagnare il suo discepolo in questa
difficile penetrazione di sé. E se emette giudizi, non è garantito nemmeno della
loro esattezza. Perché a un padre spirituale non si chiede mai di essere
profeta, cioè di azzeccare tutte le cose che si svilupperanno in futuro, ma di
essere prudente. Vale a dire di analizzare con calma tutti gli elementi presenti
in una situazione e di saperli indirizzare verso una via di bene. Non uomini che
non sbagliano mai, ma uomini sapienti. E di questi tempi, trovare uomini di
questa stoffa, è sempre più raro. Molto opportunamente pertanto il documento ne
richiama l’importanza e il significato.