Nel seminario teologico sulla vita consacrata apostolica, svoltosi a Roma nel
febbraio scorso , Paolo Martinelli, cappuccino, preside dell’Istituto
francescano di spiritualità dell’Antonianum, aveva solo accennato ad alcune
questioni teologiche aperte. Anche alla luce delle conclusioni di questo
seminario, le ha riprese e sviluppate in una più ampia relazione nel corso
dell’ultima assemblea dei superiori generali, presenti, nella prima giornata di
lavori, anche una settantina di superiore generali .
Il dato di assoluta rilevanza emerso nel corso del seminario teologico, ha
esordito, è stato sicuramente quello dell’incontro tra consacrati e consacrate,
appartenenti a carismi e a culture diverse,
che hanno saputo ascoltarsi e confrontarsi anche su posizioni diversificate.
Mettersi in ascolto delle differenze vuol dire «riconoscersi parte di una storia
più grande di noi, fatta del misterioso intreccio di grazia e di libertà».
Secolarizzazione e mondo globalizzato
Una volta in più, da quel seminario era emersa la complessità dell’attuale
contesto mondiale nel quale «siamo chiamati a seguire Cristo». Temi come quelli
della secolarizzazione e della globalizzazione hanno ormai varcato, nei loro
effetti, anche le mura dei conventi. Con la secolarizzazione si stanno
riscrivendo i nomi e i significati dell’esistenza intorno al primato del
soggetto, dell’autonomia e libertà etsi Deus non daretur, privatizzando e
destituendo di ogni valenza pubblica l’esperienza religiosa.
Se nella sua strenua lotta per rispondere a questo processo la Chiesa ha
prodotto, soprattutto in passato, cose grandiose a livello artistico, culturale
e teologico, nello stesso tempo, però, «non riesce ad impedire il sorgere di un
modello di relazione separato tra la grazia e la natura, tra la fede e la
ragione, tra la Chiesa e il mondo, tra la vita religiosa/sacerdozio e laicità» .
La nascita di un umanesimo contrassegnato dall’eclissi di tutti i fini che
trascendono la prosperità terrena dell’umanità, «elimina ogni possibilità di una
considerazione “ingenua” della fede religiosa e apre il campo a una pluralità di
opzioni». Anche solo di fronte agli straordinari progressi della scienza e della
tecnica, è tutt’altro che semplice chiedersi cosa voglia dire essere consacrati
e vivere la propria missione apostolica oggi. Si tratta di fenomeni che
«incidono profondamente dal punto di vista antropologico, sul senso del corpo,
della società e del cosmo».
È la stessa incidenza, per tanti versi non meno preoccupante, di un altro
fenomeno, quello della globalizzazione, ampliato a dismisura da una sempre più
inarrestabile diffusione degli strumenti della comunicazione sociale. Mentre
ogni giorno si sta constatando «la difficoltà di definire chiaramente questi
processi e di comprenderne fino in fondo l’opportunità per la nostra forma di
vita», nello stesso tempo «tutti siamo consapevoli di non poter più prescindere
da essi». Il mondo digitale, ad esempio, non è una realtà puramente strumentale.
È, invece, qualcosa che «plasma i nostri codici culturali, aprendo a possibilità
inedite di interazione ma anche dischiudendo pericoli, soprattutto in campo
economico, di nuove e più profonde omologazioni».
Processi dolorosi e inevitabili
Nel corso del seminario teologico non sono mancate, infatti, preoccupanti
testimonianze sulle vecchie e nuove povertà che interpellano anche la vita
consacrata di fronte «ai nuovi poteri finanziari, spesso occulti, difficilmente
controllabili e contrastabili». Parlare di globalizzazione oggi, significa
parlare anche di condivisione delle risorse, di nuovi conflitti e povertà, di
nuovi incontri tra realtà culturali diverse, di movimento di popoli, come mai
nella storia, di pluralismo crescente sia a livello culturale che religioso. Si
tratta di processi «spesso dolorosi, ma inevitabili e che ci chiedono un
coinvolgimento reale». Quante volte nel corso del seminario teologico è stato
infatti affermato che «la vita religiosa si colloca all’interno del nostro tempo
condividendo il suo doloroso travaglio».
Per quanto concerne la vita consacrata nell’area euro-atlantica, la sfida più
evidente è quella della contrazione numerica in corso nei diversi istituti
religiosi. Non sarebbe corretto, però, non porre questo innegabile calo numerico
in stretta relazione ad altri due fattori: quello della natalità e quello del
numero complessivo dei cristiani. Se, allora, la significatività della vita
consacrata andrebbe posta in relazione alla significatività della vita cristiana
come tale, non si farebbe altro che confermare quanto, ancora negli anni ’40,
era stato lucidamente anticipato da von Balthasar, e cioè che «la vita
religiosa, tanto apostolica che contemplativa, segna la vitalità o la crisi
della Chiesa come tale».
Ma tutto questo verrebbe a confermare un’altra verità più volte echeggiata anche
nel seminario teologico, vale a dire il fatto che
quanto sta avvenendo nell’area euro-atlantica potrebbe essere «anticipatorio di
quello che tra pochi anni sarà anche dell’Asia, dell’Africa e dell’America
latina, in cui invece la vocazioni sono generalmente in aumento». Martinelli è
personalmente convinto che, mentre alcuni processi sono comuni, la storia come
tale non possa ripetersi. Anzi, mentre non mancano esperienze di riscoperta del
cristianesimo nell’area euro-atlantica, «molte delle esperienze di vita nelle
aree in via di sviluppo potrebbero rappresentare un’opportunità da cui
imparare». In tal senso, allora, sarebbe auspicabile, ha aggiunto, una maggiore
rappresentatività di queste nuove realtà nei prossimi incontri di ricerca
teologica.
L’agilità delle nuove forme
È un fatto, comunque, che l’attuale contrazione numerica in occidente genera non
poco affanno, col rischio reale di lasciarsi prendere «da un’eccessiva frenesia
delle opere e da un attivismo che svuota la vita spirituale e rende il soggetto
debole e maggiormente vulnerabile». Perché, allora, non provare almeno a
confrontare la pesantezza delle tradizionali forme istituzionali con
l’agilità delle nuove forme di vita consacrata? L’assunzione di personale laico
per il mantenimento delle opere, osserva Martinelli, «è una soluzione che spesso
appare assai onerosa e alla lunga impraticabile». Anche il coinvolgimento di
laici interessati al carisma dell’istituto può essere utile, ma difficilmente
«rappresenta una risposta di lunga durata».
La via da percorrere, per Martinelli, è quella di un’apertura intelligente a
forme di collaborazione «con realtà nuove e vive», siano esse movimenti
ecclesiali laicali o nuove forme di vita consacrata. «Ciò deve essere fatto con
criterio e per affinità carismatica, per quanto possibile, superando pregiudizi
non ancora affrontati da entrambe le parti». Più che un’affrettata via di uscita
da situazioni sempre più insostenibili, la collaborazione tra il nuovo e
l’antico, andrebbe vista come un’apertura ai segni dei tempi. Che senso avrebbe,
diversamente, «sottolineare la grande svolta del laicato nella Chiesa e della
riscoperta battesimale e poi rimanere sospettosi di fronte a forme vive che
hanno in questa riscoperta la loro radice?». Non è una questione di strategie,
insiste Martinelli, ma piuttosto di disponibilità ad aprirsi all’azione dello
Spirito Santo. Se è vero, come è stato ripetuto anche nel corso del seminario
teologico, che le nuove forme di vita consacrata non hanno affatto soppiantato
quelle antiche, non meno evidenti sono gli aspetti positivi di queste nuove
realtà: primato della comunione sul fare, profondo senso di appartenenza,
austerità e radicalità evangelica, centralità della figura del fondatore,
flessibilità e disponibilità al cambiamento.
Anche solo per questo sarebbe sbagliato «giudicare pregiudizialmente queste
esperienze in modo negativo». Possibili abusi anche in queste nuove realtà,
soprattutto quando ci si lascia guidare da un entusiasmo a volte troppo emotivo,
vanno sicuramente messi in conto. Proprio per questo non si può non auspicare, a
tutti i livelli, un profondo discernimento. Perché, allora, non pensare ad un
confronto teologico e ad una collaborazione sulla base di criteri condivisi,
lontano «da ogni spreco di energie e da invidie o gelosie inopportune?».
Convergenze e differenze significative
Uno degli scopi del seminario teologico di febbraio, era stato quello di mettere
in moto la ricerca teologica sulla vita consacrata che sempre più spesso, a
detta anche di Martinelli, «appare stanca e ripetitiva e poco fondativa nei suoi
interventi». Sono fin troppo evidenti le grosse distanze e le accentuate
differenze tra i vari teologi nell’ambito della vita consacrata. Forse il
confronto con la storia non è ancora pienamente di casa. Basterebbe riflettere
più in profondità sul primato dell’esperienza spirituale rispetto alla sua
intelligenza teologica per convincersi che «le più profonde riflessioni lungo la
storia si sono prodotte in forza di grandi vissuti carismatici». A questo
riguardo, la teologia monastica e quella della scuola esercitata dagli ordini
mendicanti è quanto mai eloquente. Questi teologi hanno saputo far fronte anche
a gravi obiezioni che ne minavano l’esistenza. Basti citare, per tutti,
Bonaventura e Tommaso. Le loro riflessioni “parigine”, in proposito, contengono
«pagine di teologia della vita consacrata che non andrebbero dimenticate, non
solo per i contenuti ma anche per imparare la dinamica di come una vera teologia
sia una intelligenza di fede della esperienza carismatica vissuta intensamente».
Grazie a questa profonda attenzione alla storia da una parte e al contesto
attuale dall’altra, è facile capire come i grandi temi di cui si dovrebbe
occupare oggi la riflessione sono teologica sono quelli
del primato di Dio, della relazione Chiesa-mondo, della radice battesimale della
vita consacrata, della vocazione alla vita consacrata apostolica. Senza il
concilio, ha fatto capire Martinelli, sarebbe stato molto difficile anche solo
percepire l’importanza di questi temi. Si tratta di una ricezione ancora
pienamente in corso, e per questo «non sono lecite indebite semplificazioni».
A conferma dello stretto e necessario rapporto tra riforma e continuità, è
importante comprendere come il concilio abbia saputo percepire e portare a
maturazione «quanto stava accadendo nella vita reale del popolo di Dio a partire
soprattutto dall’inizio del 900». I grandi temi della modernità, della libertà,
della laicità, del mondo, della storia ecc., «sono entrati a pieno diritto nei
testi conciliari grazie non solo ai teologi del concilio, ma anche ai movimenti
liturgico, biblico, ecumenico, alla nouvelle theologie, alle esperienza di
inserzione del sociale dei preti operai, alla nascita degli istituti secolari,
ai nuovi movimenti laicali che nascono nei decenni precedenti al concilio».
Saranno soprattutto le quattro grandi costituzioni conciliari, integrate da
Perfectae caritatis e da Ad Gentes, a costituire a tutt’oggi, per quanto
concerne la vita consacrata, «i punti imprescindibili del nostro cammino».
Una teologia debole e isolata
Con sempre maggiore urgenza si va oggi ponendo il problema di una nuova teologia
della vita consacrata per approfondirne il valore, il senso e il compito nella
Chiesa e nel mondo. È la stessa complessità della attuale situazione ecclesiale
e sociale a richiedere che la teologia della vita consacrata abbia il coraggio
di «affrontare i suoi problemi specifici in profonda relazione con la totalità
della riflessione teologica dogmatica, biblica, morale, spirituale e teologico
fondamentale». A questo riguardo Martinelli è molto esplicito. «Una delle
debolezze della teologia della vita consacrata degli anni postconciliari, dice,
sta proprio nella collocazione parziale in cui è stata posta». Forse anche senza
volerlo, di fatto si è venuta a trovare «in una sorta di isolamento nell’ambito
della teologia spirituale (peraltro, nemmeno citata nei testi conciliari ), a
sua volta concepita in termini di pura ausiliarità applicativa di ciò che la
teologia elabora altrove». Sono ben pochi i grandi autori di teologia che hanno
scritto cose consistenti sulla vita consacrata dopo il concilio. Da questo punto
di vista «è imparagonabile lo sforzo che è stato fatto nell’ambito della
teologia del laicato, della cristologia, della trinitaria e della ecclesiologia,
della teologia della religioni, rispetto a quello che è stato compiuto per la
teologia della vita consacrata».
Per non finire con il ripiegarsi «su tematiche di provincia, volendoci
ritagliare un nostro trattato», va invece lanciata «un’operazione culturale e
teologica più vasta». Occorre «ricollocare le tematiche proprie della vita
consacrata nel cuore dei grandi trattati del sapere teologico, con un metodo in
grado di assumere all’interno dell’unità del sapere teologico le istanze
provenienti dagli altri saperi (ricerca storica, psicologia, sociologia,
filosofia, scienze empiriche)». Solo in questo modo potrebbero finire lo sterile
isolamento e l’effettiva dispersione della vita consacrata negli altri saperi. È
urgente che essa «venga arricchita nel suo collocarsi al cuore dei diversi
trattati. Al cuore della trinitaria, della cristologia e soteriologia, della
escatologia, della ecclesiologia, della antropologia teologica non può mancare
la tematizzazione della obbedienza, della povertà e della verginità consacrata».
E proprio mentre auspica questa “rinascita” della teologia della vita
consacrata, Martinelli non può non lamentare il fatto che anche grandi autori di
teologia dogmatica, appartenenti a ordini religiosi, nelle loro sintesi
teologiche maggiori e persino nelle loro ecclesiologie, «si sono dimenticati di
inserire un riferimento alla vita consacrata». Il problema, allora, non è solo
per la vita consacrata in quanto tale, ma «per l’intelligenza teologica del
mistero della Chiesa» che rimarrebbe, diversamente, dimezzata.
Il primato della questione di Dio
Anche per superare e andare oltre queste realistiche considerazioni, tra le
prime convergenze e i doverosi approfondimenti da affrontare, Martinelli ha
posto la questione di Dio e la vita consacrata apostolica. È una questione che
andrebbe approfondita come un vero e proprio anelito non solo dei religiosi, ma
anche, e prima ancora, dell’uomo e della donna e di tutta al creazione. La
ricerca di Dio, infatti, «è l’atto che maggiormente qualifica la libertà
dell’uomo, dal momento che è l’atto che decide del senso della propria vita». Se
senza libertà non c’è ricerca di Dio, allora «questo è il più grande guadagno
che l’esperienza religiosa può apprendere dal processo della modernità».
Proprio al cuore della ricerca di Dio, infatti, si colloca «la necessità di
ripensare la nostra presenza apostolica». È stato un grande vantaggio per la
vita cristiana e la vita consacrata apostolica aver compreso, ad esempio, la
missione come missio Dei, riaffermando chiaramente, in questo modo, le fonti
trinitarie e cristologiche della missione stessa. Sempre in questa prospettiva,
facendo tesoro di quanto è stato oggetto di riflessione nei due ultimi sinodi
episcopali, andrebbe approfondito «il legame tra communio-missio e la
riflessione teologica su eucaristia e teologia della Parola».
Non è, inoltre, possibile parlare di communio trinitaria, senza un esplicito
riferimento allo Spirito Santo da cui discendono tutti i carismi per
l’edificazione comune. Anche qui, però, si pone l’esigenza di un ripensamento
della teologia dei carismi per vivere realmente la missio e la communio nel
concreto delle diverse circostanze storiche, geografiche e culturali. Insieme a
quello della missione, secondo Martinelli, andrebbe seriamente ripensato anche
il paradigma della nuova evangelizzazione, intesa come contenuto della stessa
missione. La vita consacrata apostolica, infatti, «è definita dalla missione di
annunciare il vangelo in ogni circostanza in cui è chiamata a vivere mediante le
diverse ministerialità che la caratterizzano». Ma una simile evangelizzazione
«può avvenire solo in forza di una esperienza di pienezza di vita sperimentata
nella comunione».
Una nuova relazione Chiesa-mondo
Affrontando la questione di Dio, arrivando, si arriva inevitabilmente al secondo
grande punto di convergenza e di approfondimento, quello della relazione
Chiesa-mondo, affrontata in maniera esplicita nella Gaudium et spes. Proprio
ripercorrendo questo testo, si è compreso che mentre da una parte la modernità
ha prodotto una contrapposizione frontale tra Chiesa e mondo, dall’altra lo
stesso processo della modernità «potrebbe rivelarsi una grandissima opportunità
per riscoprire l’intensità della fede e della vita consacrata nei confronti di
un mondo che non siamo chiamati a fuggire ma del quale dobbiamo prenderci cura».
Il mondo, cioè, «è il luogo della nostra missione non per generico spirito di
apertura nei confronti della modernità ma nella consapevolezza che siamo mandati
nel mondo da Cristo stesso».
Nella riflessione teologica futura, non si potrà non riprendere, allora, una
considerazione del mondo in tutta la sua profondità biblica. Lo si potrebbe fare
partendo alcune pagine insuperate di Romano Guardini sul significato volutamente
ambivalente del termine mondo così come è dato leggere nel Vangelo di Giovanni.
Quel mondo tanto amato da Dio da dare il suo Figlio, è lo stesso mondo, afferma
Guardini, «per il quale Gesù non prega». Non si può essere significativi,
commenta Martinelli, senza assumere pienamente «il carattere ambivalente che la
rivelazione assegna al mondo». Tanto il cristianesimo che la vita consacrata non
possono essere significativi senza la capacità «di intercettare, purificare e
valorizzare quanto l’uomo sperimenta come bisogno e come desiderio di senso».
L’incontro con Cristo, come si legge nella Gaudium et spes, rivelando il mistero
del Padre e il suo amore, «rivela anche l’uomo all’uomo e gli rende nota la sua
altissima vocazione». La significatività della vita consacrata è tutta qui:
«mostrare il compimento dell’umano e del cosmo in Cristo».
Se nell’epoca moderna l’umano e la Chiesa si sono disarticolati (basterebbe
pensare alla drammatica domanda posta dal poeta angloamericano Thomas Stearns
Eliot nei Cori della Rocca: “È la Chiesa che ha abbandonato l’umanità o è
l’umanità che ha abbandonato la Chiesa?”), allora «oggi il nostro compito è di
mostrare l’umanizzazione resa possibile della sequela di Cristo».
Solo Cristo, infatti, parlando all’uomo e alla donna di oggi è in grado di
rivelare «il senso del proprio rapporto con sé, con l’altro, con la società e
con l’intero cosmo, valorizzando tutto ciò che di vero, buono e bello c’è in
ogni esperienza umana». Tutti i temi della giustizia, delle nuove povertà, della
solidarietà, della salvaguardia e ascolto del creato, «non sono sostitutivi di
un Dio assente (eclissi), ma dimensioni della missione che hanno nell’incontro
con Cristo il loro centro e criterio».
Battesimo e vita consacrata
D’accordo, dice Martinelli, sul fatto che «l’impegno nel modo ci riguarda
essenzialmente perché è radicato nell’impegno di Dio nella sua creazione». Ma
allora, «come si colloca il compito specifico della vita consacrata apostolica
rispetto alla vocazione battesimale e laicale, che a loro volta sono vocazioni a
pieno titolo nel mondo?». Quale potrebbe essere, in altre parole,il compito
della vita consacrata apostolica in una Chiesa che riscopre così fortemente e
giustamente la vocazione battesimale?
Giustamente il concilio ha parlato della vocazione battesimale come di un
elemento fondante della stessa vita cristiana. Grazie, inoltre, all’affermazione
radicale della chiamata alla santità in ogni stato di vita, è stato possibile
riscoprire, proprio all’interno del mondo, «la significatività della fede». Il
battesimo, infatti, «fa di ciascuno di noi un uomo nuovo, dentro il mondo, in
dialogo con tutti gli uomini».
Era fin troppo prevedibile, allora, il fatto che la ricentratura battesimale di
tutta la vita della Chiesa procurasse «non pochi scossoni a quella teologia
della vita consacrata che aveva riferito solo a sé le parole chiave del
cristianesimo, come sequela, santità, perfezione e dimensione escatologica». Ma,
da qui, anche un allarmante interrogativo: «Che fine fa la vita consacrata come
secondo battesimo, quando si riscopre il carattere fondamentale del battesimo
sacramentale e della sua radicale consacrazione?». A molti è sembrato fin troppo
scontato che «attribuire maggior valore al battesimo volesse dire portare via
specificità alla vita consacrata e viceversa».
Guardando molto spassionatamente il successo di tanti movimenti ecclesiali
laicali, non va forse attribuito proprio alla riscoperta della soggettività
battesimale e al suo carattere laicale, vale a dire, «al fatto di essere laici
nel mondo in forza della fede e della missione e non nonostante la fede?». Da
qui, però, ad affermare, come è stato fatto nel corso di un’assemblea nazionale
Cism, che la vita consacrata possa essere intesa coma una semplice variabile
facoltativa della vita battesimale, di strada ne corre. Se la vita consacrata
«non è un andare oltre il battesimo, non è nemmeno un modo facoltativo, tra gli
altri, di vivere il Vangelo». La tradizionale eccellenza riconosciuta alla vita
consacrata lungo la storia del cristianesimo, non può essere facilmente
misconosciuta.
Proprio nel corso del seminario teologico, la vita consacrata apostolica era
stata definita essenzialmente come la forma di vita caratterizzata dalla
professione dei voti perpetui di castità, povertà e obbedienza, dalla vita
comune e dall’assunzione di un chiaro e stabile impegno apostolico. Il fatto,
vero e reale, che la triade dei voti sorga solo tardivamente, e cioè all’inizio
del secondo millennio, «ci permette di relativizzare rigidità inopportune nella
descrizione della vita consacrata, ma non incide sulla sostanza della
questione».
Il vero problema teologico sta tutto nel rapporto tra vita consacrata e vita
battesimale. Con molta chiarezza, in Lumen gentium, si afferma che i consigli
riguardano tutti i battezzati e che la forma di vita dei consacrati non può
essere postulata direttamente, in quanto tale, dal battesimo. Ciò non toglie che
non si possa parlare di uno stretto rapporto tra consacrazione battesimale e
consacrazione religiosa, o, come si legge in Vita consecrata, di una nuova e
speciale consacrazione (30), pur nella piena consapevolezza della problematicità
del linguaggio utilizzato.
Non c’è alcun dubbio sul fatto che se la vocazione battesimale viene riscoperta
come vocazione laicale, «al cristiano laico spetterà in prima battuta l’impegno
pieno nel mondo secondo l’autonomia propria del cristiano laico». I problemi,
invece, potrebbero sorgere parlando di laicità nei confronti di colui che
professa i consigli evangelici. «Sappiamo, osserva Martinelli, che questa è
stata soprattutto la questione annosa affrontata al tempo del riconoscimento
degli istituti secolari nel 1947». Tale questione è stata è poi ripresa e
chiarita da Paolo VI quando, nel 1972, ha invitato i membri di questi istituti a
«vivere i consigli evangelici rimanendo nelle comuni condizioni del vivere». Se
si vogliono evitare non solo anacronistici isolamenti o indebite separazioni, ma
anche una fin troppo generica e diluita presenza dei consacrati nel mondo,
questo è uno di quei problemi che, secondo Martinelli, necessitano di opportuni
approfondimenti.
La “eccellenza obiettiva” della vita consacrata
Un’ulteriore serie di problemi sui quali sarebbe opportuno continuare la
riflessione, riguarda il tema generale della vocazione alla vita consacrata
apostolica. Se la vita consacrata, come s’è visto, non è una variabile
facoltativa della vocazione battesimale, allora è necessario tematizzare il
carattere specifico della vocazione dei consacrati. Qui, dice Martinelli, si è
di fronte ad un punto decisivo di tutta la questione. «Se, infatti, la vita
consacrata ha la sua radice nel battesimo, ma non è deducibile immediatamente da
esso, allora occorre una chiamata specifica che la autorizzi». Senza il
riconoscimento di questa esplicita chiamata, la vocazione alla vita consacrata
apostolica rimarrebbe «un dignitoso impegno che non supera la generosità di un
volontariato». Anche nel caso che l’istituto preveda al suo interno
l’associazione di membri laici e di impegno di volontariato, «a maggior ragione
si deve essere consapevoli del senso di una chiamata che distingue per unire».
Per quanto sia opportuno approfondire il problema sia da un punto biblico che
antropologico, rimane sempre il fatto che «una vocazione specifica può essere
fondata, verificata e vissuta solo se si scopre che la vita stessa è vocazione e
ciò riguarda anche la stessa vocazione battesimale».
Certo, parlare di «una visione chiara e condivisa della vita consacrata», è
forse meno semplice di quanto non sembri. Per generare un’adesione vocazionale
che impegni per tutta la vita, non può bastare una visione generica della vita
consacrata. Si potrebbe forse parlare di una sua “eccellenza obiettiva”, come si
fa in Vita consacrata (18, 32). A scanso di equivoci, questa affermazione, dice
Martinelli, «è più interessante e positiva della sua fama, dal momento che fa
salva la bontà piena di ogni cammino dal punto di vista soggettivo di chi lo
compie, ma specifica il carattere proprio di vocazione dei consacrati che non
può essere misconosciuto». Infatti, «decidere di rinunciare come forma di vita
alla proprietà privata, ad un proprio progetto per fare proprio il progetto
carismatico implicato dal proprio istituto, e alla generazione di figli nella
carne, non ha senso se non nel caso di una vocazione specifica data da Dio per
l’edificazione comune e per il vantaggio di tutte le altre vocazioni nella
Chiesa».
Il pensiero escatologico contemporaneo
L’ultimo tema toccato da Martinelli e che, a suo avviso, andrebbe vigorosamente
ripreso, è quello relativo alla dimensione escatologica e la speranza della vita
cristiana in genere e di quella consacrata in particolare. È un’urgenza che
nasce né più né meno dall’urgenza del tema stesso della storia. «Per troppo
tempo l’escatologico è stato compreso come l’aldilà della storia». La
laicizzazione, poi, della storia nell’epoca moderna, «ha reso ancora più forte
il contrasto tra aldiquà e aldilà». A forza di insistere sulla separazione della
vita consacrata dal mondo, questa ha finito con il diventarvi completamente
estranea.
Troppo spesso, il fatto di essere separati è diventato un vero e proprio essere
estranei. Ora, «non tutte le separazioni sono uguali e veicolano lo stesso
valore». C’è, infatti, una separazione che unisce e una separazione che rende
estranei, e qui «occorre dire che una vita consacrata troppo attestata sulla
separazione, in assenza di una chiara e solida soggettività battesimale, ha di
fatto favorito un’accelerazione del processo di secolarizzazione, confermando il
mondo nella sua estraneità al soprannaturale».
Si dovrebbe, invece, fare tesoro del pensiero escatologico contemporaneo secondo
il quale è importante passare dalle cose ultime alla cosa ultima, cioè
all’Ultimo, al Definitivo, al Cristo risorto, Signore della storia. L’acceso
contrasto preconciliare tra incarnazionisti ed escatologisti oggi non ha più
ragion d’essere, dal momento l’Ultimo già ora illumina, abita la storia e la
conduce dal di dentro al suo pieno compimento. L’atto escatologico, infatti,
«non si manifesta solo nel ritorno glorioso di Cristo, ma nell’alba della
risurrezione, in cui Gesù, segnato dalle piaghe nel suo corpo risorto, può
inviare i suoi nel mondo». È proprio questo invio dei discepoli nel mondo da
parte del Risorto a inaugurare il momento escatologico. In questo senso, allora,
«la missione diventa la testimonianza di Cristo come il ricapitolatore in sè di
tutte le cose».
Una simile prospettiva, dice Martinelli, «ci permette di guardare serenamente al
tema della storia, sapendo che essa è fondata proprio nell’orizzonte rivelativo
ebraico cristiano. Non c’è storia se non c’è una meta, un senso ultimo. Per
questo la scoperta della storia per noi non è più fonte di relativismo, ma
verifica della capacità di Cristo di risignificare, umanizzare l’uomo e di
divinizzarlo».
Una proposta conclusiva
Pensando proprio ai suoi più diretti interlocutori, i superiori generali,
Martinelli, nel suo passaggio conclusivo, ha brevemente accennato alle evidenti
sfide della vita consacrata in ambito formativo. Quest’ambito, a suo dire,
andrebbe «maggiormente centrato sull’elemento della spiritualità come criterio
originario in cui il dono di Dio si incontra creativamente con la libertà di
ogni uomo e di ogni donna». Troppo a lungo la spiritualità è stata intesa
esclusivamente come «una materia meramente ausiliaria del sapere teologico».
Così facendo, però, si è corso il rischio di non comprendere come essa, invece,
«tematizzi e custodisca, in forza della sua tradizione carismatica, questo
incontro imprevedibile e mai ultimamente programmabile, tra il Dio che parla e
chiama e la libertà situata dell’uomo che risponde percorrendo le vie della
storia e condividendo le gioie e le speranza dell’uomo».
La formazione dovrebbe evitare due estremi: da una parte «la rigida proposizione
di modelli stereotipi che non incontrano la persona reale», dall’altra «la sua
psicologizzazione che non sa cogliere il senso teologale della chiamata». La
spiritualità, in altre parole, dovrebbe cercare di sostenere «un cammino capace
di assumere il rischio educativo insito in ogni formazione». Le scienze umane
possono e debbono essere valorizzate, senza però, desumere da esse «il senso di
una vocazione che invece si riferisce al passaggio di Dio nella vita della
persona». Proprio a partire dal carisma originario, il processo formativo
dovrebbe far proprio tutto ciò che di buono e positivo sono in grado di offrire
«i contesti della nostra umanità presente».
Nelle sue battute conclusive, Martinelli, ha abbozzato una proposta, quasi una
sintesi operativa di quanto era andato dicendo in tutti i suoi passaggi
precedenti. «Se la nostra attuale sfida, ha detto testualmente, consiste nel
mostrare la pertinenza battesimale e antropologica dei consigli e formarsi a
tale realtà, allora credo che una possibile chiave di lettura che permetterebbe
di coagulare i nostri sforzi potrebbe essere nel percorrere le relazioni che
intercorrono tra le virtù del battezzato (fede, speranza e carità) e i consigli
evangelici (obbedienza, speranza e carità), tematizzando le dimensioni
costitutive dell’umano in relazione alla società e al cosmo: la libertà, il
tempo, gli affetti, le relazioni, e la fecondità». Non solo. Potrebbe essere
utile, inoltre, «rivisitare le funzioni fondamentali del battezzato in rapporto
sia alle virtù teologali che con ai consigli evangelici: regalità, profezia e
sacerdozio». Forse senza volerlo, Martinelli ha anticipato la sintesi di
un’altra e nuova relazione sicuramente non meno ampia e impegnativa di quella
che stava concludendo.
«Se è grande il compito che ci aspetta, ha detto nelle sue ultimissime battute,
è grande la storia dei testimoni di cui la vita consacrata nella sua storia è
portatrice. La storia di santità della vita consacrata è storia di una speranza
dinamica e creativa che sa sempre ricominciare e attraversare anche la avversità
come verifica della fede stessa e della umanizzazione di cui è capace l’incontro
con Cristo».