Per quanto riguarda il Burundi, mi pare che la situazione, a un anno dalle
elezioni popolari, che hanno visto l’assenza di tutta l’opposizione e la
rielezione, per questo motivo scontata, del presidente Pierre Nkurunziza, è
ancora incerta e confusa. Ufficialmente in pace, la violenza in Burundi non è
però finita e le armi sono ancora le protagoniste delle notti sulle colline che
circondano la capitale, Bujumbura. Il governo burundese attribuisce questi
crimini notturni ai ladri o ai banditi, ma la gente non si lascia ingannare:
questi sono dei regolamenti di conti di stampo politico, perché quelli che
scompaiono o vengono eliminati sono, per la maggior parte, dei militanti di
partiti di opposizione, soprattutto del Fronte Nazionale di Liberazione. Il
Commissario ONU per i diritti umani ha lamentato questo aumento di esecuzioni
sommarie nel Paese. Un altro fatto che ha scosso il Burundi e ha fatto emergere
la precarietà del momento politico sono le accuse rivolte al partito del
presidente della Repubblica da parte di uno dei suoli collaboratori, Manasse
Nzobonimpa, che ha osato sollevare il velo sulla corruzione interna del CNDD-FDD.
In realtà nel paese regna un clima di incertezza, fatta di paura e insicurezza,
che non lascia tranquilli e ha indotto la Conferenza episcopale del Burundi a
pubblicare ai primi di marzo una Nota in cui i vescovi denunciano questa
situazione invitando le autorità a lavorare per consolidare la pace nel paese.
Ma la Nota, è stata poco o nulla pubblicizzata: pochi l’hanno letta alla
conclusione della liturgia domenicale della prima domenica di quaresima, mentre
molti preti neppure sapevano esistesse.
La “primavera araba” e l’allergia dell’islam
Al di fuori del Burundi l’attenzione di questi mesi recenti è stata
monopolizzata dalla crisi della Costa d’Avorio e da quella dei paesi arabi
dell’Africa settentrionale e del vicino Medio Oriente che, anche se non tocca
direttamente queste regioni del Centro-Africa, non poteva essere sottovalutata.
La crisi della Costa d’Avorio nei paesi dell’Africa subsahariana ha fatto la
parte del leone ed è stata vissuta dagli africani con un misto di attesa e di
vergogna. La testardaggine di Laurent Gbabgo che fin alla fine si è rifiutato di
cedere il potere ad Assallanne Ouattara, legittimamente eletto, malgrado la
chiara presa di posizione internazionale, ha consolidato il timore che le
transizioni elettorali siano un vero problema per i leader africani e che la
democrazia o – quanto meno il voto popolare – non abbia per loro quel valore che
è universalmente riconosciuto. Questo fatto, doloroso, accompagnato da violenze
e guerra civile e distruzione delle risorse del paese ha tenuto la prima pagina
dell’informazione televisiva e ha oscurato, in qualche modo, la crisi che ha
colpito l’Africa settentrionale, anche se non era possibile non accorgersi
dell’importanza del vento della libertà che a partire dalla Tunisia ha soffiato
sui paesi arabi del Mediterraneo e del vicino Oriente, estendendosi
successivamente al Marocco, all’Algeria, all’Egitto, agli emirati arabi di Oman,
di Bahrein, dello Yemen, fino alla Giordania, alla Libia e alla Siria.
L’hanno chiamata la primavera araba perché della primavera ha la freschezza
delle motivazioni e le stesse modalità con cui questa rivoluzione si è svolta,
almeno all’inizio. Essa è stata promossa dai giovani, principalmente studenti e
lavoratori, e ha mostrato un volto del mondo arabo molto diverso dagli
stereotipi che di esso si hanno in Occidente. Di solito pensiamo i giovani arabi
succubi di regimi teocratici, senza iniziativa e senza speranza di futuro,
vittime di una cultura, quella islamica, che in generale pare allergica allo
sviluppo. Abbiamo invece visto giovani impegnati per un cambio di strutture che,
senza far ricorso alla violenza e senza bruciare le bandiere degli Usa o degli
altri paesi occidentali, sono riusciti a far dimettere dittatori inchiodati al
potere da molti anni. Si sono viste delle persone politicamente mature chiedere
una maggiore partecipazione, una più grande democrazia e un futuro per tutto il
loro popolo. Non erano giovani pilotati dai partiti politici o dagli imam delle
moschee, ma giovani di tutte le religioni, musulmani e cristiani, che insieme
chiedevano riforme democratiche, maggior libertà, lavoro e futuro per tutti. Si
sono viste le donne, cosa del tutto inedita per i paesi musulmani, scendere in
piazza insieme con gli uomini, decise a rivendicare una nuova maniera di essere
donne nella società islamica. Un volto diverso, inatteso, del mondo arabo e
anche dell’Islam.
Quei dittatori amici dell'Occidente
Non dobbiamo nasconderci i possibili lati negativi o, quanto meno, problematici,
di questo fenomeno, ma la cosa che più impressiona, e in negativo, è stata la
reazione disordinata e eccessiva dei dittatori arabi, a partire da quelli del
Bahrein e dello Yemen fino a quelli della Libia e della Siria. Essi alle
pacifiche richieste dei manifestanti hanno opposto la forza delle armi pesanti,
provocando distruzione e massacri del tutto gratuiti e, in fondo,
autodistruttivi del proprio paese. Non si dimentichi che questi dittatori sono
quelli con cui l’Occidente ha intrattenuto rapporti molto cordiali, sono i vari
Mubarak, Ben Ali, Ghaddafi, ai quali l’Occidente ha consegnato la “sicurezza” e
la pace di queste regioni. Sono rimasti lungamente al potere, non solo con la
complicità delle cancellerie occidentali e delle agenzie degli idrocarburi, ma
con la loro benedizione, perché ritenuti dei baluardi di difesa per gli
interessi politici ed economici dell’Occidente. Ma il fatto più indecente è
stato vedere l’improvviso cambiamento di giudizio dei dirigenti occidentali nei
confronti di questi dittatori. Me l’hanno fatto notare molti africani dicendomi
che lo zelo improvviso per toglierli dal potere non può non far nascere dei
gravi sospetti.
Un “Sessantotto” africano?
Spesso mi sono sentito rivolgere la domanda se questa “primavera araba” non
fosse per caso un’edizione ritardata del Sessantotto europeo. I paragoni
zoppicano sempre e non riescono a rendere conto della complessità della storia
e, in questo caso, è abbastanza facile rendersi conto che siamo in presenza di
fenomeni tipici del mondo arabo, anche se le somiglianze ci sono. C’è in ogni
modo da sperare che questi rivolgimenti contribuiscano a far nascere un nuovo
mondo arabo, più moderno, più tollerante e aperto, meno succube dell’influenza
dei gruppi radicali, e quindi lontano dalle involuzioni di tipo integralista e
fondamentalista. Non si può certamente escludere il pericolo di una
radicalizzazione islamica o di una nuova islamizzazione di quei paesi come la
Tunisia, l’Egitto o la Libia che hanno vissuto dei processi di legittima
laicizzazione della società islamica e di una libertà religiosa, tutto sommato,
accettabile. Sul numero di Jeune Afrique della fine di aprile si legge che in
Tunisia le donne, dopo aver conquistato un nuovo statuto sociale, sono ora
all’erta per non essere riportate indietro dalle frange salafiste che progettano
una forma di restaurazione islamizzante. Va ricordato che la Conferenza
episcopale del Nord Africa ha detto che «le rivolte popolari in Tunisia, Egitto
e Libia e altri paesi arabi rappresentano una legittima rivendicazione della
libertà e della dignità umana per milioni di persone».
L’Africa subsahariana non pare ancora pronta
Spesso nel corso delle settimane passate in Burundi e in Congo mi è stata posta
anche la domanda se questi fenomeni non finiranno per incendiare anche gli altri
paesi dell’Africa subsahariana che presentano situazioni sociali anche più
scandalose di quelle del mondo arabo: corruzione, limitazioni della libertà,
fame e miseria, analfabetismo, insensibilità per il futuro della gioventù, che
sono governati in modo dittatoriale, da persone elette non in modo democratico.
In realtà nel corso di marzo e aprile qualche caso di ribellione c’è stato, per
esempio in Burkina Faso e in Uganda, per altro, prontamente represse dai
rispettivi governi. Ma la gioventù dell’Africa subsahariana, che pur vive di
precarietà, non partecipa alla conduzione del paese e non ha sbocchi di lavoro
corrispondenti agli studi fatti, non mi pare ancora pronta per rispondere alle
sfide del proprio paese, come hanno fatto i giovani del Nord Africa. Se c’è la
consapevolezza dei propri diritti, non c’è tuttavia ancora quella rete
informatica capillare che ha permesso di coagulare le richieste dei giovani e
promuovere un’azione coordinata comune. Eppure i governi temono che ci possa
essere una contaminazione possibile … Lo dimostra il fatto che le televisioni
locali non hanno dato troppo spazio all’informazione su questi movimenti: non
potrebbero queste rivolte arabe funzionare da detonatore del malessere degli
altri paesi africani che di corruzione, ingiustizie, mala amministrazione sono
pieni? Penso che queste rivolte sono un monito per quelle autorità che si
considerano eternamente al potere e che sanno di sedere su troni non
costituzionali, raramente conquistati in modo legale attraverso il voto
popolare, sanno anche che il loro governo non cerca il bene popolare, ma è
permesso da un’immunità garantita da costituzioni addomesticate e più ancora
dalla complicità dei governi occidentali e dalle multinazionali che sfruttano la
ricchezza della loro terra.
Sintomi di risveglio democratico a sud del Sahara
La simpatia con cui i giovani africani invece parlano tra loro e con noi europei
di questi fenomeni fa pensare e sperare che stia crescendo una coscienza critica
che presto o tardi chiederà di affermarsi per il bene di tutti. Sono anche
convinto che le chiese locali e noi missionari dovremmo vedere di buon occhio
questi sintomi di risveglio democratico, anche se essi non sono immuni da
qualche eccesso e se non possiamo nasconderci possibili strumentalizzazioni
politiche e magari anche fondamentalistiche. Sono dei segni di un Regno di Dio
che sta facendosi strada nelle vicende storiche dei popoli più poveri. Ma la
simpatia non basta. La chiesa deve dare non solo attenzione, ma formazione a
queste attese della gioventù, deve formare alla coscienza politica i giovani e
non abbandonarli poi quando essi si esprimono. Saremo capaci di lavorare in
questa direzione? Penso che da questo dipenda molto del futuro dell’Africa, ma
anche molto della credibilità della nostra evangelizzazione.