“La Chiesa come comunione locale e universale” e “Come, nella comunione, la chiesa locale e universale giunge a discernere il giusto insegnamento etico”. Su queste due tematiche, strettamente connesse, è ripreso il dialogo teologico tra Chiesa cattolica e Comunione anglicana, con la terza fase dell’ARCIC (Commissione internazionale anglicana-cattolica). Queste tematiche stanno al cuore del cammino verso l’unità, voluto dal Signore, su cui oggi sono impegnate in misura diversa tutte le Chiese, ma interpellano in profondità anche il senso della presenza cristiana in un’umanità lacerata da divisioni e conflitti, incerta sul suo futuro e spesso tentata di disperare.

La preghiera per la comunione

Proprio nell’esercizio della comunione – quella koinonía che è stato anche il punto d’inizio dei lavori della commissione anglicana-cattolica nella sua prima fase – i cristiani sono chiamati oggi a narrare il volto di Dio rivelato in Gesù Cristo; a cercare un linguaggio e comportamenti comprensibili da chi non è giunto alla fede cristiana; a testimoniare la differenza cristiana che stimola le diverse culture e innalza una voce profetica contro ogni attentato alla libertà e alla dignità dell’essere umano; a esercitare l’operazione pneumatica del discernimento secondo l’esortazione di san Paolo: “Esaminate ogni cosa e ritenete ciò che è buono” (1Ts 5,21). Solo nell’assidua ricerca di quella comunione, che ha come fonte ispiratrice di ogni decisione ecclesiale la fedeltà alla volontà di Dio, è possibile discernere insieme “il giusto insegnamento etico” anche dove diverse sollecitazioni pastorali conducono a volte a scelte apparentemente inconciliabili tra loro e a un più difficile riconoscimento della comunione esistente. Su queste esigenze e aspettative si fonda la ripresa di un dialogo rimasto in sospeso da alcuni anni, a seguito anche di decisioni assunte da alcune chiese della Comunione anglicana che avevano creato tensioni all’interno dello stesso variegato mondo anglicano e che parevano rimettere in discussione i risultati raggiunti nelle fasi precedenti del dialogo teologico anglicano-cattolico.
Deciso e annunciato in occasione dell’incontro tra papa Benedetto XVI e l’arcivescovo di Canterbury Rowan Williams (Roma, dicembre 2009), questo rinnovato dialogo ufficiale ha preso corpo presso il monastero di Bose dal 17 al 27 maggio scorso, quando due delegazioni di una decina di membri ciascuna si sono ritrovate sotto la co-presidenza dell’arcivescovo cattolico di Birmingham, Bernard Longley, e dell’arcivescovo anglicano David Moxon della Nuova Zelanda. La scelta della Commissione di incontrarsi per la prima volta in una comunità monastica ecumenica, particolarmente attenta al dialogo tra Chiesa cattolica e Comunione anglicana, mirava a inserire i lavori in un contesto spirituale e di preghiera favorevole. Insieme, fratelli e sorelle di Bose e membri della Commissione, hanno impegnato la preghiera affinché il desiderio di conversione del proprio cuore gli uni verso gli altri, questo “Amen” detto insieme all’unico Signore, si potesse dilatare fino ad allargare e rafforzare la trama dell’unità che è intessuta dalla comunione con Dio e dalla riconciliazione tra gli uni e gli altri. I lavori sono iniziati con una giornata di ritiro spirituale che ha offerto l’occasione per andare al cuore delle motivazioni che animano ogni fatica ecumenica: il desiderio di fedeltà all’invocazione del Signore “che tutti siano una cosa sola”. Un tempo propizio per interrogarsi con quali sentimenti possa e debba accostarsi al dialogo chi è stato designato dalla propria Chiesa a tale compito.

Il confronto in una stagione non facile

Così, nel dialogo con l’altro cosa riteniamo più importante? Saper parlare o saper ascoltare? È prioritario saper difendere le proprie posizioni o saper comprendere quelle degli altri? È fondamentale preoccuparsi di proteggere un’identità confessionale statica oppure sforzarsi di arricchirla con la diversità dell’altro? E come vanno lette le debolezze, le sofferenze, le fatiche, anche gli “errori” dell’altra confessione? Con un senso di compiacimento per aver noi scampato difficoltà analoghe? Oppure come ammonimenti validi anche per la nostra Chiesa? Come occasioni per restare vigilanti, nella consapevolezza che la fedeltà al Vangelo non è mai raggiunta pienamente né tanto meno una volta per tutte? Del cammino storico e teologico che ha portato le altre confessioni a determinate decisioni che non ci sentiamo di poter condividere ci interessano gli errori e le decisioni umane o il tentativo, magari maldestro, di tradurre le esigenze del Vangelo nell’oggi della storia? Cosa ci sta maggiormente a cuore? Coltivare le divergenze così da riaffermare la nostra identità “per contrasto” oppure ricercare la comunione nell’alterità? E cosa “portiamo a casa” dal nostro incontro con l’altro? Cosa riferiamo alla Chiesa cui apparteniamo: un bilancio di vittorie e sconfitte sui vari fronti del contenzioso, oppure lo sforzo nella ricerca e l’edificazione di un patrimonio comune più ricco? La strenua difesa del “già” in nostro possesso o la consapevolezza di un “non ancora” cui insieme possiamo anelare? Un talento sotterrato e dissotterrato o cinque nuovi talenti frutto del “commercio” con chi possedeva altri beni complementari ai nostri?
Se questo è stato l’ambito spirituale nel quale ha voluto immergersi la Commissione, anche i primi giorni di lavoro effettivo sono serviti ai partecipanti ad assumere la consapevolezza che la loro riflessione non avveniva in un terreno vergine, come se nulla in ambito di dialogo anglicano-cattolico fosse esistito prima e accanto a questo ritrovarsi insieme. Così, per una commissione al suo primo incontro, la presentazione dei partecipanti non è servita alla semplice conoscenza reciproca quanto piuttosto a prendere confidenza con le realtà ecclesiali e il variegato lavoro ecumenico e pastorale che in tante parti del mondo non è venuto meno neanche nel periodo di sospensione del dialogo ufficiale.
I membri, provenienti dai cinque continenti, portavano ciascuno con sé non solo la propria competenza specifica, ma l’intero vissuto della propria chiesa locale, desideri, fatiche, attese di tanti fratelli e sorelle nella fede per i quali l’ecumenismo non è un optional ma appartiene alla natura stessa della Chiesa e all’identità più profonda dei discepoli di Cristo. Anche la presenza di alcuni partecipanti alle precedenti fasi dell’ARCIC ha contribuito grandemente al consolidamento della coscienza di essere parte di una ricerca di fedeltà evangelica già intrapresa da altri. Anche in questo caso, un documento di sintesi dei lavori e dei risultati conseguiti dal lontano 1970, quando si riunì la prima commissione teologica mista, avrebbe forse fornito alcune nozioni essenziali, ma non avrebbe certo offerto la stessa sensazione di essere al cuore di una passione evangelica che trascende gli stessi interpreti. In un certo senso, la sfida che i membri della commissione si sono trovati ad affrontare in questa stagione non facile dell’ecumenismo, e in particolare dei rapporti tra cattolici e anglicani, è stata quella di trasformare problematiche pastorali riguardanti alcuni gruppi e persone in occasione per riflettere insieme sul significato e la portata della comunione, sull’articolazione tra chiesa locale e universale, sul modo più adeguato di custodire e trasmettere un insegnamento etico a cristiani chiamati ogni giorno a dare testimonianza con parole e azioni della propria fede in Gesù Cristo.
Del resto, la situazione di stallo, di raffreddamento e in alcuni casi anche di involuzione in cui si trova da alcuni anni il cammino verso l’unità visibile dei cristiani ha tuttavia anche l’innegabile vantaggio di aver liberato l’ecumenismo dalla tentazione di essere determinato dalla “emozione” o dall’entusiasmo per un successo valutato con criteri mondani.
 

L’ecumenismo di ricezione

Affrontare i nodi teologici che oggi si presentano, con il loro potenziale di divisione, comporta l’esigenza non solo di rileggere la storia della Chiesa in un’ottica ecumenica che tenga conto anche del punto di vista dell’altro, ma di ricollocare la “corsa della Parola”, il suo attraversare la storia dell’umanità, nella sua prospettiva più autentica, l’attesa escatologica del Regno che viene, del ritorno del Signore. Comporta il prendere coscienza di come nessuna chiesa particolare abbia mai vissuto integralmente la pienezza del Vangelo – che sempre supera ogni comunità cristiana – ma ne ha disegnato, con maggiore o minore fedeltà, con maggiore o minore efficacia, solo alcuni tratti. È come se il vissuto delle varie comunità ecclesiali avesse incessantemente dipinto il volto di Cristo per renderlo visibile e comprensibile nell’oggi della storia: in questo immenso affresco, tuttora in lavorazione, possiamo scorgere pennellate efficaci e altre opache, possiamo discernere tratti fedeli all’immagine e somiglianza di Dio impressa in ogni essere umano e altri che ne sfigurano la bellezza; possiamo ritrovare un lineamento di quel Dio che Gesù di Nazaret ci ha narrato (cf. Gv 1,18), oppure accorgerci che quel volto è stato indebitamente velato. Forse, compito del dialogo ecumenico è anche riscoprire e valorizzare stagioni, persone, eventi nella storia della Chiesa e delle Chiese che hanno saputo tratteggiare la bellezza del Vangelo nel modo più efficace ed eloquente, nell’attesa fiduciosa che la pienezza di quel Volto sarà svelata solo dal Signore stesso al suo ritorno, nel faccia a faccia con coloro che lo hanno tanto cercato. Nei nostri dialoghi ecumenici, non dovremmo mai dimenticare che nessuno “possiede” la Verità, perché se la verità è Cristo, nessuno lo possiede, ma ciascuno può appartenergli, essere da lui afferrato, posseduto (cf. Fil 3,12): lo Spirito ci guida alla piena verità (Gv 15,13), è Dio che la rivela per misericordia e noi la riceviamo gratuitamente, possiamo abitarla, non possederla, siamo suoi “ospiti”, non i suoi padroni.
In questo senso è di enorme aiuto quello che la Commissione nel suo comunicato finale ha definito «l’approccio dell’ecumenismo di recezione, che tenta di far progredire l’ecumenismo imparando dai nostri partners piuttosto che chiedendo loro di imparare da noi. L’ecumenismo di recezione si basa sull’esame di sé e sulla conversione interiore, piuttosto che sul tentativo di convincere gli altri. Anglicani e cattolici possono aiutarsi vicendevolmente a crescere nella fede, nella vita e nella testimonianza cristiana se sono aperti e disposti a lasciarsi trasformare dalla grazia divina mediata dagli uni e dagli altri». «La Commissione – prosegue il comunicato – organizzerà i suoi testi e proseguirà il suo lavoro seguendo quanto è stato proposto, in preparazione alla prossima riunione prevista per il 2012». Certo il cammino è ancora lungo e forse conoscerà momenti difficili e snodi apparentemente insolubili, ma questo confronto fraterno non potrà che giovare a entrambe le Chiese. L’insieme della Comunione anglicana, tuttora attraversata da profonde lacerazioni, potrà trovare in esso lo stimolo a una rinnovata alleanza nella fede e nella testimonianza comune, ma anche per la Chiesa cattolica sarà estremamente fecondo il confrontarsi con chi a propria volta cerca di coniugare l’unità nell’essenziale della fede e la salvaguardia della comunione nella diversità delle opzioni pastorali. Il cammino verso l’unità dei cristiani non è infatti una strategia né appiattimento su una statica uniformità, ma la sofferta ricerca di una sempre più profonda e variegata conformità alla preghiera rivolta da Gesù al Padre nel momento stesso di offrire la propria vita per la salvezza del mondo intero.