Il discorso non è nuovo. Già lo strumento di lavoro del Congresso mondiale
della VC (2004), faceva presente che la Vita Religiosa ha strutture,
organizzazione ed esercizio di governo che rispondono al suo passato e auspicava
un cambiamento di mentalità profondo, che renda possibili nuove forme di governo
nelle quali la vita non si veda soffocata. Una delle forme di governo inadeguate
è il Capitolo. Per rendercene conto basta pensare che dopo quasi mezzo secolo di
Capitoli sull’onda della “fedeltà creativa”, la vita religiosa in Europa anziché
far intravvedere il passaggio all’altra riva, si trova arenata nei suoi stessi
fondali. Da qui la domanda: se i Capitoli non sono riusciti nell’intento quando
l’età media dei religiosi/e era attorno ai 40-45 anni, ci riusciranno ora in cui
l’età (media) è di circa 70?
Perché sono inadeguati ai fini della “vita” ?
Il termine “capitolo” viene dalla tradizione monastica benedettina a partire dal
secolo VIII e indicava l’assemblea di tutti i monaci, nella quale i religiosi
ascoltavano la lettura e la spiegazione di un capitolo della regola .
Successivamente divenne un incontro a carattere formativo, legislativo,
elettivo. Bene si adattava a quei momenti della storia in cui la realtà
procedeva linearmente. Il futuro lo si riceveva in eredità dal passato per cui
il Capitolo era in funzione della “conservazione” piuttosto che della
immaginazione anche perché «le cose nuove accadevano con una scansione temporale
tale da lasciare spazio alla possibilità di adattamento, anche
psicologico-emozionale. Diversamente, oggi, il nuovo avviene con una rapidità
tale da provocare, effetti di accavallamento e di spiazzamento» , anzi –
scriveva Simone Weil – «il nuovo entra in noi molto prima che accada». Quando
era la norma sancita per tutti a orientare la vita, al Capitolo spettava
garantirne l’osservanza con il criterio dell’uniformità. Oggi, invece, in cui è
la vita a orientare la norma, essendo la “vita” diversa quanto diverse sono le
culture (anche intra-nazionali), l’uniformità mal si adatta a un tempo in cui è
più forte il criterio della differenziazione: diversa è l’Europa dall’Africa,
dall’ America, dall’ Asia, e i giovani dagli anziani.
La delega non basta più
Quando le comunità e i monaci divennero numerosi il Capitolo assunse la forma
assembleare in cui soltanto “alcuni” furono deputati a normare la vita di tutti.
Si passò così alla delega, frutto di votazioni, dunque di esclusioni e relative
tensioni (prima e durante) a vari livelli, con buona dose di legalismo,
ritualismo, e malcelata ambizione di potere, tutte cose che non agevolano la
fraternità la cui esigenza era all’origine dei Capitoli. Ma oggi la persona non
è più solo ricettiva per cui nessun valore entra nella vita della persona se non
ha partecipato a costruirlo. Allora non è più sufficiente la sola
rappresentatività giuridica per il fatto che nessuno, oggi, si sente
rappresentato totalmente da un altro o da una élite. Alla riattualizzazione del
carisma, cioè a dare forma a ciò che impegna la propria vita devono poter
partecipare, in modi ancora inediti, tutti coloro che in essa si riconoscono e
desiderano esserci. L’avvento di una mentalità multi-prospettica e partecipativa
rende letteralmente insopportabile l’idea di un monopolio della verità esclusivo
di altri e quindi escludente. Si tratta di pensare a forme di corresponsabilità
istituzionale attraverso cui a ognuno sia data la possibilità di rifare i patti.
In situazione in cui “altri” pensano, deliberano, non rimane che prendere i
propri spazi. È ciò che sta avvenendo. Stanno crescendo di numero i religiosi/e
che, diversamente dal passato, non prendono posizioni contro l’istituzione ma
stanno imparando a vivere senza di essa. Le “lettere” o scritti di istituto non
letti, la non risposta ai questionari, il rifiuto di incontri, ecc. hanno una
eloquenza propria. Quando queste forme comunicative non interessano più è perché
in essi si è allentata la forza emotiva e come conseguenza non hanno più la
capacità di orientare. Le scelte di appartenenza “con riserva” però non sono
sempre scelte di pigrizia, di individualismo oppure opzione di una vita
assicurata e senza rischi, ma potrebbero essere conseguenza dello scarto
(soggettivamente letto) tra idealità e realtà istituzionale. Anche da qui il
crescente numero di abbandoni di religiosi/e specie tra i 30 e i 45 anni.
Occorre un altro modo di essere ed agire
Il Capitolo concepito come assemblea di rappresentanti (delegati) aprì ben
presto, già agli inizi, le porte al processo di istituzionalizzazione.
Precedentemente, e fino a qualche decennio fa, il rifermento istituzionale non
costituiva un problema sia per il fascino che esercitava e sia perché
soddisfaceva al bisogno identitario di quel tempo in cui si amava desumere la
propria identità da un insieme forte e riconosciuto. Ma oggi non è più così:
tutto ciò che ha l’impronta istituzionale viene percepito come qualcosa di
lontano da ciò che uno vive nel quotidiano; viene visto come qualcosa che si
preoccupa dell’osservanza della dottrina sancita, ma poco incline alla vita, il
tutto sul filo di logiche tipicamente razionali che portano l’assemblea ad
attardarsi in discorsi estetici sui suoi ideali o in affermazioni teologiche
ininfluenti anche quando sono vere. In effetti i momenti istituzionali “alti”
sono soggetti ad alcune sintomatologie proprie dell’istituzione, quali ad
esempio le sindromi di identità predefinita e di “potere” che portano a
diffidare delle espressioni del principio personale per sopravalutare il ruolo
dell’autorità e di una tendenza giuridica pronta a ricondurre l’ordine alla
regola imposta e l’unità alla uniformità .
Al presente la prima presa d'atto è che stiamo transitando ad un altro modo di
essere e di agire. Uno dei maggiori studiosi della società contemporanea –
Zygmunt Bauman – dice che siamo passati irreversibilmente dalla “modernità
solida" cioè quella fissata su organizzazioni, classi, ruoli, riferimenti
stabili, alla “modernità fluida” vale a dire della società delle reti, dei
flussi, dell'incertezza, della non prevedibilità. Le impalcature sociali in cui
inscriviamo i nostri progetti di vita e le nostre speranze per il futuro sono
diventate improvvisamente fragili. Possono spezzarsi in qualsiasi momento,
mutano molto più in fretta di quanto non riusciamo ad apprendere e gestire.
Non basta indicare la strada
I Capitoli si fermano alle “deliberazioni”, alle proposte, che poi vengono
calate dall’alto attraverso scritti, conferenze, circolari, incrementando a
cascata, per circa un sessennio, una grande quantità di comunicazioni
soprattutto verbali, che innescano così un inevitabile processo inflattivo che
riduce al minimo il peso delle parole. Vengono detti “atti capitolari” ma
dell’azione hanno ben poco. In effetti oggi il magistero di qualsiasi livello, è
diluito nell’eccesso di parole che dopo poche settimane o giorni o ore, come
ogni altro bene di consumo svaniscono nell’apposito dimenticatoio nel quale il
sistema della comunicazione confina tutto ciò che è già stato comunicato .
Baudelaire diceva: «ogni uomo porta in sé una dose di oppio naturale, che
instancabilmente secerne e rinnova». In ogni caso anche quando le persone sono
pronte ad ascoltare non è detto che accettino che si dica loro ciò che devono
pensare per il fatto che «le istituzioni, attualmente, soffrono di perdita di
credibilità, cioè della capacità di far credere, ovvero di innescare
comportamenti coerenti con le istruzioni verbali, e in ogni caso non potendo
puntare a riconquistare quel posto di universalità che occupavano nel passato
devono rinunciare a parlare in nome dell’intero e della verità in astratto» .
Nel caso poi il Capitolo deliberasse nuovi progetti con le delibere non si fa
molta strada, non è ancora promozione: questa richiede la presa in carico da
parte di persone che standone dentro, con mani in pasta e occhi all’orizzonte,
possano pilotare la complessità con continui aggiustamenti: tutte cose estranee
all’ambito del Capitolo e non riscontrabili nella maggior parte delle attuali
forme di governo, prese da emergenze ineludibili, piuttosto che nell’essere
sorgente della forza che invia a fare altre cose.
Il futuro verrà dal basso
Il Capitolo – sotto questo o altro nome – certamente rimarrà anche nel futuro
riappropriandosi dello scopo per il quale è nato, quello di essere, in funzione
della fraternità, serio laboratorio di comunione. Ma la storia di questi
cinquant’anni ci dice che questo “tavolo alto” non è stato capace di nuove
figurazioni dell’identità religiosa a misura del bisogno della nuova società che
richiede una ineluttabile purificazione, come tramonto di ciò che non serve più,
ma anzi ostacola la crescita. Ecco perché si dice che il futuro possibile della
Vita Religiosa non verrà dall’alto ma dal basso attraverso persone appassionate
che del “pensato” vogliano diventarne “facitori”, rischiando i propri passi su
strade inedite. Persone dotate di “intelligenza in azione” e non solo
manualistica e quindi disponibili a progressivi riposizionamenti per trovarsi
bene nel continuo viaggio dell’apprendimento. Un’idea arriva a compimento solo
se c’è una emozione positiva che la sostiene, mentre ciò che viene pensato e poi
proposto da pochi e dall’alto non diventerà mai efficace. Servono allora nuovi
tavoli di concertazione capaci di interpretare la nuova stagione sociale ed
ecclesiale, non fermandosi alle “conoscenze che già conoscono” ma capaci di far
transitare a mondi possibili, in cui la preoccupazione non sia quella di
riaggiustare ciò che non può essere più aggiustato, ma di vedere quali sono i
tessuti culturali che si devono abbandonare perché ci stanno danneggiando.
I tavoli di concertazione per poter aprire strade devono partire dalla
consapevolezza che l’epoca che ci è familiare «sta vivendo la sua fase terminale
per lasciare il posto a una nuova figura di umanità e che noi cristiani dovremmo
trovarci sulle frontiere di questa avventura, non nelle retrovie a difendere
castelli di sabbia o scene di un teatro passato irrimediabilmente di moda» .
Alcune linee di indirizzo di futuro sono ormai delineate: il nuovo sarà in
esperienze che siano un intreccio fra ecclesiologia e vita consacrata, e “rete”
tra carismi diversi, perché nessuna vocazione basta da sola e non tanto dal
punto di vista operativo, quanto da quello del suo essere parola concreta che
narra la grandezza inesauribile del mistero dell’amore di Dio . La comunione dei
carismi oggi non può essere un problema ma una sfida perché rientra nel progetto
di Dio per questo nostro tempo. La dinamizzazione sarà allora in proporzione
della fecondazione reciproca, diversamente dal tempo in cui l’identità era
ricercata nella separazione. Il luogo naturale della fermentazione è il
territorio ecclesiale e civile, «bacino delle fatiche, dei problemi, della
domande della gente» . E da questo, può nascere nelle nuove generazioni, il
desiderio di una consacrazione che a differenza dei precedenti schemi di vita
religiosa, non si apparti dal mondo, ma che piuttosto faccia delle realtà
secolari il proprio ambito di vita e di azione per potersi convertire in
lievito. Questo cambiamento, ormai ineludibile, sarà reale e non apparente se si
inserisce dentro una storia, introducendo uno scarto tra un prima e un dopo,
soprattutto inventando nuove forme di vita individuale e collettiva , con stili
che uniscano le persone anziché separarle e che permettano di condividere gli
stessi sogni e le stesse seti. L’essere inseriti nel territorio (Chiesa, mondo),
dal quale si è nati e al quale si è inviati, permetterà di dare le giuste
risposte alla gente che reclama la visibilità di Dio nella nostra testimonianza,
passando a privilegiare il principio kerigmatico dell’annuncio. Un tempo bastava
il servizio reso ad attirare l’attenzione sul “prestatore”, ora non più. Ci si è
resi conto che il ricevente guarda al dono, (servizio) e non al donatore e alla
sua istanza evangelica.
È possibile tutto questo?
La Vita Religiosa è ancora oggi attraversata da tante inquietudini che possono
essere creatrici. Facendosi attenti a queste l’ istituto potrebbe riportarsi a
quel momento in cui è nato come progetto (gettato in avanti) per essere un
viaggio, e non come nostalgia.
Non sarà che sotto sotto c’è l’invito a ripartire da quel principio evangelico
secondo cui si è forti quando si è deboli?