Sono molto contento dell’invito che mi avete rivolto a partecipare a questa vostra assemblea. In questi tre mesi, da quando sono arrivato a Roma, insieme al segretario del nostro dicastero, mons. Joseph Tobin, cerchiamo tutte le occasioni per superare quella distanza che si è andata creando soprattutto in questi ultimi tempi, per dei motivi che non vogliamo e non ci permettiamo di giudicare. Siamo convinti che questi motivi possono essere superati, in modo da favorire una più feconda e reciproca collaborazione. Se la vita consacrata è una realtà molto significativa nella vita di tutta la Chiesa, lo è in modo particolare qui a Roma, dove, oltretutto, risiedono tante curie generalizie.
Abbiamo cercato, noi per primi, a livello di dicastero, di ricostruire, con semplicità e con fiducia, i rapporti con i diversi organismi della vita consacrata. Vi posso assicurare, in particolare, che in questi miei primi mesi di permanenza a Roma si è andata stabilendo una profonda intesa tra me e il segretario del dicastero. Con mons. Joseph Tobin, infatti, ci siamo reciprocamente impegnati a comunicarci, l’un l’altro, con semplicità, tutto ciò che sentiamo nel profondo del nostro cuore, sia i sentimenti di gioia e di gratitudine al Signore, sia tutti quei problemi che potrebbero essere fonte di preoccupazione.
Abbiamo già affrontato insieme situazioni che erano ferme da tanto tempo, alcune delle quali anche particolarmente difficili. Ci siamo accorti che le cose hanno incominciato a muoversi, anche se non sempre così in fretta come avremmo voluto. Prima ancora di voler risolvere a tutti i costi i problemi e di cantare vittoria, abbiamo cercato di “entrare” nei problemi, di lasciarci illuminare, nel pieno rispetto delle situazioni e delle persone coinvolte.
Ci siamo mossi proprio nel senso di quanto abbiamo appena ascoltato nel brano della prima lettura di questa celebrazione eucaristica. Gli apostoli, come leggiamo negli Atti, sapevano che qualunque decisione avrebbero preso in merito alla imposizione della circoncisione o meno anche ai pagani che si convertivano al cristianesimo, avrebbe avuto determinanti ripercussioni sulla vita della Chiesa. Dopo essersi apertamente confrontati, dicendosi l’un l’altro quello che pensavano, alla fine, però, dopo aver pregato, hanno preso una decisione univoca, quella che ritenevano fosse la decisione di Dio stesso: «È parso bene, infatti, allo Spirito Santo e a noi, di non imporvi altro obbligo al di fuori di queste cose necessarie…» (At 15, 28). Chiediamoci: “Non rientra anche questo nel grande comandamento dell’amore fraterno che Gesù ha voluto lasciare anche a noi?“.

Il Signore sta chiedendo a tutti qualcosa di nuovo


Voi in questi giorni avete approfondito i problemi dell'identità e della profezia della vita consacrata. Sono anch’io convinto che ci troviamo in un momento in cui è doveroso riflettere insieme su questi problemi. Dico questo non perché i vari carismi dei fondatori e delle fondatrici non siano più in grado di fecondare la vita della Chiesa. Penso, però, che siamo tutti convinti del fatto che nelle circostanze ecclesiali e sociali attuali, a distanza di oltre cinquant’anni dal concilio, il Signore stia chiedendo a tutti, non solo a voi superiori generali, ma anche a noi vescovi, qualcosa di nuovo. Il Signore ci sta chiedendo, in poche parole, di fare qualcosa che forse non pensavamo di dover fare, e cioè di convertirci non solo nell’intimo del nostro cuore, ma anche nei nostri rapporti con i fratelli.
Non possiamo certo sottovalutare il grave fenomeno dell’individualismo. Oggi l’individuo rischia di diventare l’unica regola di se stesso. Si sente esclusivamente proiettato alla ricerca della propria felicità. Ma è altrettanto certo che oggi, rispetto al passato, grazie ai nuovi mezzi di comunicazione, è più facile superare le distanze, partecipare e condividere eventi importanti molto lontani nello spazio nel momento stesso in cui avvengono.

C’è ancora un lungo cammino Da compiere



Come muoverci, allora, in questo nuovo stato di cose? A me sembra che ci stiamo muovendo nella direzione giusta. Anzitutto perché al centro della nostra vita viene posta l'esperienza sempre più profonda di Dio. Inoltre, perché grazie a questa esperienza, stiamo riscoprendo anche la ricchezza non solo della vita fraterna in comunità, ma anche quella dei rapporti reciproci tra maschio e femmina, tra superiori religiosi e confratelli, tra vescovi e religiosi/e.
C’è ancora sicuramente un lungo cammino da compiere. Non mancano difficoltà. Dovremmo, però, saper trasformare queste difficoltà in nuove opportunità. Dovremmo avere, a volte, una dose di coraggio in più, nel fare nostro il modello del rapporto d’amore tra le persone della Trinità. Il nostro Dio non è solitudine. Il nostro Dio è comunione. È sicuramente una individualità che vive nella diversità. Le due cose, però, non sono in opposizione. Dalla comprensione dobbiamo passare all'esperienza del mistero trinitario. Non possiamo costruire comunione se non la impariamo dalla Trinità stessa.
Ora, chi ci ha rivelato questo mistero se non Gesù? Dio è amore, ci dice Giovanni. Ma è stato il Figlio a rivelarci il volto del Padre. Non dovremmo mai stancarci di approfondire il modo, e cioè l’incarnazione, con cui il Figlio ci ha fatto conoscere il volto del Padre. Nella mia sintesi personale, come in quella, penso, di tutti voi, questo è un aspetto essenziale. Io non so muovermi senza questo Dio. Non posso non vedere nell’uomo o nella donna un’immagine della santissima Trinità. Il Figlio si è fatto uno di noi, per poterlo incontrare in ogni singola persona, uomo o donna che sia. L'incarnazione non è una manifestazione di forza, ma di debolezza di Dio! Non finiremo mai di meditare quanto dice Paolo nel secondo capitolo della lettera ai Filippesi: «Abbiate in voi gli stessi sentimenti che furono in Cristo Gesù, il quale, pur essendo di natura divina… spogliò se stesso, assumendo la condizione di servo e divenendo simile agli uomini…» (Fil 2, 5ss.).
Questo “svuotamento” non è una cosa che distrugge la persona nel Figlio, ma è qualcosa che crea la possibilità del rapporto. Dovremmo scoprire di più questo Dio che prima di giudicarci o di condannarci, continua a sceglierci e ad amarci immensamente. Nel momento in cui Dio ci si presenta come amore, allora anche noi non possiamo non innamorarci di lui e, insieme, amare gli altri. Guardando al Figlio, anche noi dovremmo saperci “svuotare” di noi stessi per stabilire rapporti più profondi con i fratelli, che prima ancora che essere giudicati, hanno bisogno di essere da noi ascoltati e amati.
Basterebbe, ad esempio, pensare alla dolorosa vicenda della visita canonica alle religiose negli Stati Uniti. Recentemente, nel nostro dicastero, per ben due ore e un quarto, ci siamo posti in attento ascolto di quanto avevano da dirci le religiose rappresentanti del gruppo maggioritario in questione. Senza mai interferire nella loro esposizione, con amore, con disponibilità, abbiamo soprattutto cercato di capire dove stessero i problemi cha hanno poi portato all’allontanamento tra le suore di lì e il dicastero. Alla fine di questa loro esposizione ci siamo permessi di chiedere: «Avete ancora fiducia nel lavoro del nostro dicastero?». Avendo risposto chiaramente di sì, allora, ci siamo detti che tutto è possibile, nella piena disponibilità a confrontarci insieme sulle cose da fare. Noi siamo convinti che lo scopo ultimo non è quello di condannare o giudicare, ma è invece quello di aiutarci ad andare avanti insieme. Grazie a Dio, un primo risultato concreto, quello appunto di questo incontro, lo abbiamo già conseguito. Ma bisognava che noi per primi dichiarassimo questa nostra disponibilità ad incontrarci. La cosa è stata apprezzata dalle nostre interlocutrici che alla fine, da quanto ci è sembrato di capire, sono ritornate molto contente negli Stati Uniti.
Quante opportunità di “svuotamento” evangelico esistono nella nostra vita! Certamente non è facile “perdere” davanti all'altro, rinunciare a qualcosa che ci sembra irrinunciabile. Ma non c’è qualcosa di analogo anche di fronte alla ricchezza dei nostri tanti carismi? Ognuno di noi ha bisogno di riuscire a cogliere la novità e la ricchezza dell'altro, convinti che anche noi, a nostra volta, possiamo avere qualcosa di nuovo da dare e non solo da ricevere.
Camminare con convinzione lungo la strada di avvicinamento agli altri, è fondamentale nella vita consacrata come in ogni altro rapporto ecclesiale e interpersonale. Sappiamo bene, ad esempio, quanto sia delicato il rapporto tra vescovi e superiori religiosi maggiori. Come affrontare questo problema per il bene della Chiesa? Si tratta di dare forza non soltanto ai grandi carismi, ma anche a quelli piccoli. Incontri e assemblee come questa, mentre favoriscono l’incontro e il coordinamento fra tanti carismi, non sono forse fonte di gioia e segno della ricchezza della Chiesa? Dovremmo riuscire a trasformare i nostri rapporti spesso duri, stanchi, difficili in incontri di una freschezza inattesa.
Il cammino che ci sta di fronte, pur nella piena consapevolezza di tutte le difficoltà, va affrontato insieme con molta serenità. Ogni giorno, in Congregazione, abbiamo da dieci a venti casi di religiosi/e che lasciano. Voi lo sapete meglio di me perché siete voi a inviarci questi casi! Sapete, inoltre, che nella gran parte dei casi, queste persone lasciano perché, dicono espressamente, spinte dal desiderio di trovare quella felicità che non avrebbero mai trovato nei loro istituti religiosi. Ci sono casi di cinquantenni, e anche di settantenni, che dicono di non avere ancora trovato la felicità!
Naturalmente ci sono anche situazioni di abbandono per delle motivazioni molto più profonde. Mi chiedo, però, se tante difficoltà non potrebbero essere più facilmente prevenute e superate se solo i nostri rapporti fraterni fossero contrassegnati da un autentico amore reciproco, se solo sapessimo realmente dare la vita l’uno per l’altro.
Anche in ordine alla soluzione di questi problemi, certamente il diritto canonico sarà sempre un punto di riferimento sicuro. Però non basta! Alle volte, infatti, il diritto è freddo, difficile, ci fa dire le cose con durezza. Solo l’amore è capace di unire le due cose: dare la vita e dire la verità. Il Papa Benedetto XVI continuamente ci spinge in questa direzione, ricordandoci che amore e verità vanno sempre insieme.
Continuando questa celebrazione eucaristica, chiediamo al Signore che ci aiuti a camminare lungo questa strada. Tutti noi dobbiamo e possiamo dare il nostro contributo in questo senso. Sicuramente il Signore non ci lascerà mancare quella grazia di cui abbiamo bisogno per vivere in pienezza il nostro carisma nella Chiesa e nella società di oggi. Sarà tanto più facile, quanto più sapremo muoverci mossi dalla dinamica propria dei discepoli di Cristo.