«Discutere con la gente oggi? Meglio non provarci nemmeno, soprattutto se pensi di avere ragione!» – commentava qualche giorno fa una suora in coda alla posta, mentre aspettava il suo turno. «Lo so bene, gli fece eco una donna poco più indietro; mio marito qualche giorno fa è stato preso a pugni per un posto in parcheggio!». Sembrerebbe impossibile che non ci siano regole sociali a cui appellarsi per affermare i propri diritti. Eppure, il quadro che emerge da una recente analisi del Censis su alcuni comportamenti sregolati nella società attuale, sembra proprio confermare che viviamo in un mondo di crescente sregolazione delle pulsioni.
Ma che vuol dire? Forse che l’uomo moderno si è trasformato lui stesso in quel bambino “perverso polimorfo” di cui parlava Freud? Forse, ma è molto probabile che siano i sintomi di quella crisi di speranza di cui parlava Benedetto XVI, una crisi spirituale ed esistenziale che si insidia nel mondo come nella chiesa e nella vita consacrata, ogniqualvolta si perde di vista il gusto della propria testimonianza cristiana, fatta di amore autentico e disinteressato .
Tale crisi di spiritualità si rende ora ben visibile nel tessuto sociale, poiché si assiste a una crescente legittimazione dei comportamenti riconducibili al primato delle pulsioni e della coscienza individualistica. «In particolare, afferma il documento del Censis, ritorna con forza e su diversi aspetti l’idea della relatività delle regole, da una parte c’è il primato della coscienza (l’85,5% degli italiani ritiene che dovrebbe essere l’arbitro unico dei propri comportamenti), dall’altra, sono descritte tutta una serie di situazioni e di contesti in cui le regole possono essere tralasciate o relativizzate» .
Del resto, è da tempo che la Chiesa mette in guardia dalla diffusa crisi culturale e spirituale che affligge la società italiana, marcata da un senso di incertezza e di precarietà sui valori e sul senso stesso della vita . Ma ciò che stupisce nelle parole del Censis sono gli effetti operativi di tale crisi: dall’aumento dei comportamenti trasgressivi a tutti i livelli, alla caduta dei filtri sociali che regolano i rapporti; dall’enorme diffusione delle patologie individuali, fino ad arrivare a un generale senso di indifferenza rispetto al vivere sociale.
Tutto questo ripropone l’urgenza del compito educativo della Chiesa e della vita consacrata di fornire risposte credibili a queste emergenze sociali e individuali, mettendosi in gioco per essere annunciatori autentici di una buona novella che semina speranza in un modo arenato nei sentimenti di insicurezza e di frustrazione.

Un deserto di valori in continua crescita

«Siamo una società in cui sono sempre più deboli i riferimenti valoriali e gli ideali comuni, in cui è più fragile la consistenza dei legami e delle relazioni sociali» . Dinanzi a questa realtà, la mancanza di punti di riferimento valoriali apre direttamente la strada a comportamenti e a gesti problematici. Soprattutto quando viene a mancare il rispetto dei propri simili, quando l’altro non è considerato come una persona degna di valore, ma come un pericolo da cui doversi difendere.
Quando il vivere quotidiano è continuamente minacciato dal primato del proprio “Io”, quando il proprio diritto va a scapito del diritto comune, emerge uno scenario etico e valoriale fortemente frammentato, marcato da una mancanza di confronto e dalla paura di essere sopraffatti.
Questa assenza valoriale non può lasciare indifferenti quanti sono chiamati a essere sale della terra e luce del mondo. Anzi, sono proprio questi vissuti drammatici e angoscianti che richiamano con forza il ruolo educativo della Chiesa e della vita consacrata, perché sappiano fornire una testimonianza audace «della capacità del Vangelo di umanizzare la vita attraverso un percorso di conformazione a Cristo e ai suoi sentimenti verso il Padre» .
L’emergenza sociale evidenziata dal Censis diventa allora una sfida alla stessa evangelizzazione, perché ogni consacrato non perda di vista la dignità della propria vocazione, resa visibile con uno stile di vita coerente con le parole professate, e trovi nella fedeltà al dono ricevuto la forza per testimoniare con le opere la vita buona del Vangelo.

L’universo giovani alla deriva?

Le ricerche sociologiche e psicologiche hanno più volte evidenziato l’oramai cronica mancanza di agenzie educative, capaci di fornire un’educazione che dia prospettive di senso ai loro bisogni esistenziali.
Spesso i giovani si sentono ignorati, evitati, e molte volte sono a contatto con adulti incapaci di gestirli, e ancora più di capirli. Per cui trovano risposte alternative nell’alcol, nel fumo, nelle droghe, nella violenza, tutti indicatori di un disagio che sembra denotare la trasformazione dei loro modelli di vita, il loro stile di adattamento, il loro sistema di costruzione dell’autostima.
Anche il loro modo di vivere le relazioni sta cambiando: nelle giovani generazioni si sta sempre più affermando una modalità relazionale virtuale, in cui «l’uso di internet assume i caratteri di una pulsione irrinunciabile che produce un progressivo distacco dalla vita reale, un diradamento delle relazioni concrete a vantaggio di quelle virtuali, il prevalere di una dimensione quasi esclusiva di autoreferenzialità che preferisce fare a meno del rapporto con l’altro, anche nella sessualità» .
Ciò che amplifica il problema di una gioventù sregolata è soprattutto la tentazione degli adulti a rinunciare al loro dovere formativo, specialmente quando affermano che è difficile districarsi nel mondo dei loro figli, o perché i vecchi modelli educativi non sono stati rimpiazzati da nuove proposte formative, oppure perché essi stessi non comprendono quale sia il loro ruolo. Quando questa rinuncia si trasforma in una mentalità comune, «frutto della perdita di significato condiviso di molti dei riferimenti normativi che sono guida ai comportamenti» , si apre la strada a comportamenti governati dall’individualismo egoistico e dalla disobbedienza sregolata, dove il primato della libera espressione di sé trova la sua massima espressione nel proprio mondo pulsionale e irrazionale.

La vita consacrata non può stare a guardare

Oggi più che mai la vita consacrata è invitata a riproporre con coraggio l’intraprendenza, l’inventiva e la santità che da sempre ha caratterizzato la sua risposta ai segni dei tempi emergenti. Soprattutto dinanzi ad un mondo così frammentato nelle sue aspirazioni e nelle sue speranze, essa è chiamata «a ricercare la competenza nel proprio lavoro e a coltivare una fedeltà dinamica alla propria missione, adattandone le forme, quando è necessario, alle nuove situazioni e ai diversi bisogni, in piena docilità all’ispirazione divina e al discernimento ecclesiale» .
Dinanzi a una condizione giovanile così drammaticamente delineata dall’analisi del Censis, in che modo i religiosi rispondono ai loro bisogni, con competenza e con fedeltà alla propria missione di testimoni dell’amore di Dio? Benché i giovani con cui hanno a che fare nel loro lavoro pastorale e vocazionale provengano da esperienze di associazioni e movimenti impegnati, anch’essi comunque respirano questo clima sociale e culturale difficile, che può influenzare enormemente la loro risposta vocazionale, generando un senso di sfiducia e di alienazione dai valori fondanti la vita umana. La conoscenza delle loro dinamiche e delle loro problematiche diventa allora fondamentale, per non illudersi dietro false aspettative e per operare con competenza e fedeltà nell’opera pastorale, fatta di ascolto, orientamento, confronto reciproco, in vista di scelte che coinvolgano tutta la vita.
Ecco allora che l’essere educatori di speranza diventa un compito da realizzare, che infonde forza per impegnarsi in prima persona a dare risposte di senso, per uscire dal torpore dell’indeterminatezza. Allo stesso tempo, è un compito che permette a ciascuno di sentirsi corresponsabile di un progetto di amore che non è solo frutto dei propri sforzi ma è soprattutto dono di Dio.

Dalla crisi dell’autorità al declino del desiderio

Il senso di indeterminatezza passivizzante, così diffuso nell’attuale contesto sociale, suscita un progressivo «depotenziamento della legge, del padre, del dettato religioso, della coscienza, della stessa autoregolamentazione» . Quando viene a mancare questo senso di autorevolezza, le persone tendono ad abdicare al loro compito educativo per paura di assumersi le proprie responsabilità, delegando il loro coinvolgimento al solo aspetto impressionistico e pulsionale.
Il compito educativo privato della sua dimensione autorevole resta così ancorato all’incertezza del momento e alla reattività pulsionale, senza alcuna mediazione riflessiva e cognitiva. Affidandosi unicamente al modello della spontaneità istintiva, si tende ad assolutizzare ciò che è relativo, illudendosi che tutto sia dovuto e non c’è nient’altro da desiderare.
«I comportamenti pulsionali e sregolati trovano un habitat tanto più idoneo quanto più la società perde l’abitudine al desiderio, inteso come la tensione verso un fine strutturato dalla progettualità e quindi dalla condivisione sociale di valori e significati» . L’assenza del desiderio inteso come tensione esistenziale, sta a indicare che l’uomo non avverte più la mancanza di ciò che potrebbe completarlo e arricchirlo: vuol dire che si sente autosufficiente nel proprio egocentrismo, fino a esaurire ogni risorsa e restare con il proprio vuoto interiore. In una società dove i consumi sembrano generare bisogni indefiniti, si perde di vista il senso dell’essenziale, e ci si disperde nei tanti rigagnoli di un benessere fine a se stesso. Se «tutto ciò che “piace” e si può ottenere diventa buono» , vuol dire che non si è più capaci di discernere ciò che è indispensabile, né tantomeno è possibile rinunciare a ciò che non è necessario.
Quando le persone pensano e agiscono secondo la logica del tutto e subito, non saranno capaci di tollerare la frustrazione delle situazioni difficili, e rischiano di rinchiudersi nella soddisfazione immediata dei propri bisogni, nei conflitti e nelle arroganze interpersonali, nelle gelosie da salotto, perdendo di vista gli obiettivi esistenziali che hanno un carattere evocativo e richiedono una realizzazione prospettica, piena e coinvolgente.
Senza significato per la propria vita, l’uomo non può che rinunciare alle proprie responsabilità, restando in balia di se stesso e dei propri falsi bisogni. Tutto ciò genera un senso di apatia e di indifferenza che è l’anticamera del “male oscuro”, quella «dimensione più puramente distruttiva delle pulsioni che si ritrova nel progressivo crescere delle forme di depressione» .
Come risvegliare, allora, il desiderio di una esistenza piena di significato? I consacrati hanno una missione da compiere su questo fronte, perché il loro compito educativo è di essere segno di speranza che fortifica e rinnova le proprie e altrui esperienze di vita. Essa infatti è testimone che, anche dinanzi a tanto disorientamento, nell’uomo resta pur sempre integra la sfera della sua libertà che consente modi di agire imprevedibili, perché legati alla singolarità e alla trascendente ricerca di senso. L’esistenza umana va sempre al di là di se stessa, non viene determinata dalle cose o dalle angosce del nostro tempo, ma determina le cose ed è accessibile e comprensibile solo a un’analisi esistenziale che chiarisce ed esplicita il fine ultimo e riesce a mantenere il carattere oggettivo della persona spirituale presente in ognuno.
Una tale concezione lascia spazio alle componenti più profonde dello spirito umano, quelle che l’aiutano ad aprirsi e a trascendere la propria finitudine, per cogliere le enormi potenzialità che sono donate a ciascuno e per riscoprire il senso teleologico della propria esistenza.

Dalla VC uno slancio a dare risposte di senso

Per questa società, con questi drammi e queste angosce, la vita consacrata rappresenta una risorsa educativa che stimola a dare direzione, indicando la meta ultima di ognuno, in quella speranza che sola può animare ogni sforzo autentico per «riappropriarsi di uno spazio di significato condiviso su cui cominciare a costruire il cambiamento» .
L’individuo non è solo un serbatoio di pulsioni e di ansie sregolate che lo obbligano a ritirarsi dalla scena delle proprie responsabilità. Egli è chiamato ad armonizzare l’orientamento finalistico della propria esistenza con la parte irrazionale ed emozionale che si porta dentro di sé. Questo lavoro è possibile se sarà capace di aprirsi a un progetto che armonizza le diverse passioni creative, con la propria identità di figlio di Dio.
L’analisi del Censis, allora, oltre che diagnosi di una società alla deriva, può diventare un richiamo a sentirsi partecipi in questo compito, perché gli indicatori di malessere messi in evidenza sono anche delle implicite richieste di aiuto, sono cioè un invito a sentirsi chiamati in causa – come consacrati e come Chiesa – a compromettersi nelle storie di questa umanità crocifissa nei meandri delle sue paure, per far emergere il desiderio di Dio pur sempre presente in ogni creatura.
È una chiamata a risvegliare il proprio compito di testimoniare la vita buona del Vangelo, al proprio interno come pure nei diversi campi di azione pastorale, indicando con il proprio esempio, con le proprie opere, con i vissuti relazionali, che c’è un modo diverso di guardare alle cose: ognuno è invitato a porsi non tanto come colui che interroga la vita per accaparrarsi ciò che vuole, ma piuttosto come colui che risponde a un progetto di vita, coinvolgendosi con dei gesti di amore autentico e non di ostilità reciproca, con la voglia di impegnarsi e non di defilarsi, col desiderio di costruire e non di distruggere.
Certo, si tratta di farsi carico del senso e del valore del proprio essere, puntando con forza a cose “maggiori”, andando al di là dei dubbi e delle angosce, che sembrano anestetizzare le aspirazioni più autentiche dell’animo umano. Vuol dire impegnarsi a far crescere il desiderio di una esistenza rinnovata, aperta all’alterità di Dio e capace di spezzare le catene dell’apatia e della superficialità passivizzante, per reintegrare le fragilità di un mondo afflitto da mille contraddizioni, con gli obiettivi che fondano la propria esistenza, coinvolgendosi nella costruzione di una umanità che è «segno della grandezza di Dio e frutto del suo ineffabile disegno» .