Persone nuove in Cristo. Percorsi di vita comunitaria: è stato questo il tema
che l’Unione Superiore Maggiori d’Italia ha scelto per la sua 58a Assemblea
Nazionale che si è svolta dal 27 al 29 aprile, a Roma, presso la Pontificia
Università Urbaniana, con la partecipazione di . superiore generali di circa 600
congregazioni.
Con la scelta di questo argomento si è voluto riprendere il filo del discorso
dell’Assemblea 2010 che aveva approfondito le radici battesimali della VC, per
ricentrare e umanizzare la vita in Cristo e con Cristo e diventare per il mondo,
narrazione vivente del Vangelo. A partire proprio da tali obiettivi, l’Assemblea
di quest’anno ha cercato di individuare percorsi di vita per animare e
accompagnare le comunità in un processo di crescita “in Cristo” e “in umanità”:
processo necessario e urgente per attraversare la transizione, per guardare alla
complessità storica con simpatia e con speranza, di testimoniare la comunione
nella multiculturalità, nel dialogo tra le diverse età, nella condivisione della
vita in ogni luogo e in ogni situazione. Nel corso dell’Assemblea i momenti di
ascolto si sono alternati a tempi di dialogo tra le partecipanti, attraverso
laboratori guidati per condividere esperienze e individuare cammini utili per il
servizio di animazione nelle diverse Congregazioni.
Il saluto di apertura della presidente dell’USMI, madre Viviana Ballarin, ha
anticipato sinteticamente quanto poi è stato sviluppato nelle tre giornate,
accompagnate e arricchite dalle riflessioni di relatori e relatrici sapienti,
testimoni di quanto sia possibile essere persone “nuove e belle” in Cristo 1.
Abitate dalla luce del Risorto
Madre Ballarin ha aperto l’Assemblea esprimendo il desiderio che “il Signore
Risorto abiti sempre il centro del nostro essere comunità e ci doni la passione
di cercare l’essenziale”. Ha ripetuto più volte l’appello pasquale: “Siamo qui,
nella settimana di Pasqua, abitate dalla luce sfolgorante del Risorto che ci
rassicura e ci invita al coraggio, alla festa, alla speranza… Non abbiate
paura…andate e….dite la speranza contro ogni speranza, l’amore contro ogni
violenza, il dono contro ogni egoismo, dite la vita contro ogni forma di
violenza e di morte perché il Signore è risorto. Dite la speranza e fatelo con
gesti concreti perché molti vedendo, credano… Portiamo nel cuore il mondo intero
e insieme ad esso le nostre comunità con le gioie e le preoccupazioni che il
servizio di governo comporta e forse siamo venute con il desiderio di ascoltare,
di condividere, di cercare insieme. Forse attendiamo soluzioni a situazioni che
si vanno facendo pesanti, a situazioni che si vanno trasformando in emergenze di
vario genere; forse portiamo nel cuore la speranza di tornare alle nostre
comunità con qualche ricetta… Niente di tutto questo! Sarebbe troppo poco. Siamo
qui per ascoltare la tenerezza del Risorto che forse dorme sulla nostra barca
nel lago in tempesta e ci invita a non avere paura; siamo qui per stupirci del
suo amore che ci precede sempre in Galilea e non aspetta che lo raggiungiamo, ma
ci viene incontro Lui per primo! Siamo qui, avvolte dal suo saluto, per
abbracciargli i piedi e adorarlo….e poi, obbedienti al suo mandato, per andare,
come comunità fraterne … ad annunciare ai fratelli … orientate a percorrere
cammini comunitari di umanizzazione e di santità”.
Nel fratello il volto di Dio
Ogni cammino richiede tempo, pazienza, così come richiede la consapevolezza
della direzione verso cui andare. Ebbene la direzione è nell’incontro con il
volto dell’altro, è nella comunione dei volti, è nell’incontro con l’alterità
nel mistero, è nell’incontro col volto di Dio. Un lento, contemplativo camminare
così come sr. Grazia Papola ha fatto magistralmente rileggere e gustare,
attraverso il racconto della storia di Esaù e Giacobbe (Gn 32,23-33; 33,1-16).
La loro vicenda ha forti implicanze rispetto al tema della fraternità: dà prova
dell’incapacità di vivere la diversità tra fratelli. Essi sono diversi anche
perché amati in modo diverso. Ancora nel grembo materno i due fratelli – gemelli
– già litigavano… La fraternità è fonte di differenziazione che genera
divisione, gelosie e può portare ad estreme conseguenze di prevaricazione,
predominio, vendetta. Ma Dio entra nella vita di ognuno. Chiede a Giacobbe di
tornare a casa e di incontrare il fratello Esaù diventato intanto nemico.
Giacobbe ha paura: la memoria del passato – con le sue violenze e i timori del
presente con le proprie fragilità – lo assillano. Giacobbe lotta prima di tutto
con se stesso per dare spazio a Dio fino a sperimentare che Dio vince in colui
che accetta di perdere. Al guado dello Yabbok, di notte, lotta in un misterioso
duello e ne esce zoppicante, ritrovando una nuova identità. Riceve infatti un
nome nuovo – Israele – che lo rende capace di un nuovo sguardo e di un nuovo
cammino. Torna dal fratello “zoppicando”, lo accoglie nella sua diversità e
insieme tornano a casa, col desiderio di appartenersi reciprocamente. La lotta
della notte in solitudine si trasforma nella comunione dei volti: il faccia a
faccia dove ciascuno può esprimere la propria vulnerabilità e può affidarsi
all’altro. Solo così – come per Giacobbe – è possibile vedere nel fratello il
volto di Dio e testimoniarne la presenza nelle pieghe della storia.
Fraternità come dono
Giacobbe da solo non costruisce la fraternità. Tutti sono responsabili dei
conflitti come della riconciliazione. Nella famiglia, come nella comunità, sono
necessarie le due dimensioni: quella verticale e quella orizzontale.
Nell’insieme tutti si è responsabili e tutti si è vittime, tutti si soffre. È
dato spazio all’amore come alle preferenze. Un progetto di fraternità nel solo
ambito umano è destinato al fallimento. Nell’ambito spirituale può essere invece
ricostruito. La fraternità diventa possibile nella prova, ma è sempre un dono,
una vocazione, una risposta da dare, un cammino di conversione da compiere e da
condividere. Lo ha sottolineato, durante la celebrazione eucaristica, anche
Mons. William Ioseph Tobin: «Se le nostre comunità e i nostri istituti non sono
esperti di perdono, non saranno nemmeno testimoni». La storia di Giuseppe e dei
suoi fratelli (Gn 37, 2-36; 45,1-15), su cui sr. Papola ha fatto un’ampia e
profonda riflessione, fa luce sulle “storie di famiglia” della VC: segnate da
diversi itinerari sul piano delle relazioni ma anche dentro il cuore delle
persone, a volte faticano a riconoscere le ragioni delle tensioni e gli affetti
implicati, altre volte non sanno bloccare il male col silenzio, altre ancora
falliscono nei tentativi di riconciliazione perché non accolgono il limite come
spazio di relazione e di verità. Dio non crea magicamente la fraternità, ma
guida i passi degli uomini perché si pongano alla ricerca dei fratelli.
Costruire fraternità non è cercare qualcosa, ma qualcuno. È accettare cammini di
spogliazione e riconoscere gli infiniti desideri del cuore umano, per allargare
la possibilità di vita. Giuseppe e i suoi fratelli, nella lettura sapiente
dell’azione di Dio, lo dimostrano: quando tra i fratelli in Egitto ritorna il
desiderio dell’incontro e del dialogo, ritorna anche il sentire fraterno.
Diversità e unità
Pur nella diversità, sentirsi fratelli è riconoscersi figli: ciò non può
prescindere dalla relazione con un padre. Ricevere il dono della vita e della
fraternità non può prescindere dalla relazione col donatore. Sul tema della
diversità e della sua relazione con l’unità, la ricca esperienza biblica di sr.
Grazia Papola ha proposto la parola di Paolo in 1Cor 12; 13 e 14, come chiave di
lettura per ripensare le situazioni in cui vivono le fraternità consacrate e
rileggerle a un’altra luce. Paolo non si mette a fustigare la comunità di
Corinto, divisa tra doni straordinari e fraintendimento del senso della
comunità/comunione. Non attribuisce l’intera responsabilità ai capi della
comunità, e neppure vive la frustrazione davanti alle fragilità dei suoi membri.
Ma prova a individuarne le cause profonde, contrarie alla logica del Vangelo;
propone il recupero di un livello teologico-spirituale, non si limita a consigli
morali e invita a ritrovare l’unico fondamento dentro l’evento pasquale: Dio,
potentemente operante dove regna la debolezza e l’insipienza. E da Colui che è
unico deriva la molteplicità. La diversità non è quindi dispersione, perché
riporta inevitabilmente all’unicità. Vi sono diversità di carismi, ma uno solo è
lo spirito; vi sono diversi ministeri, ma uno solo è il Signore; vi sono diverse
attività, ma uno solo è Dio, che opera tutto in tutti. (1Cor 12,4-6). La
differenza che è all’origine del progetto umano-divino, si prolunga nell’azione
dello Spirito che non esclude nessuno dai suoi doni. Ogni dono è per l’utilità.
Ogni dono che non sia messo al servizio degli altri, si perde. In Paolo il
paragone della comunità all’organismo umano, diventa chiave di lettura per
accogliere i doni di ogni membro nella prospettiva della comunione. Diventa pure
esortazione, per l’oggi della VC, ad allargare il cuore per accogliere i doni
che Dio continua a fare, a “non accontentarsi a volare basso”, per “non
rischiare di eliminare i nuovi germogli” che lo Spirito dona alla Chiesa e
all’umanità.
La profezia dell'unità
Un saluto multilingue, gesto di ‘preziosa umanità’ e riconoscimento verso chi
serve il Signore e la Chiesa nella sua molteplicità di presenza in questo mondo
globalizzato, ha collegato la riflessione di sr. Adele Brambilla alla storia di
Giuseppe e dei suoi fratelli e al messaggio dell’apostolo Paolo.
In linea con la molteplicità dei carismi dentro un unico Spirito e in un solo
corpo va riletta la multiculturalità della VC: «è un tesoro inestimabile e una
grande risorsa. Grazie alla maggiore e sempre più rapida mobilità e per la
dilatazione dell'informazione tramite i media, la VC è chiamata ad assumere un
compito irrinunciabile: promuovere una cultura del rispetto,
dell’interdipendenza a dimensione planetaria. Non possiamo più dissociarci - ha
affermato - gli uni dagli altri».
Per far crescere il livello di interculturalità nelle e tra le congregazioni
religiose, è urgente passare dalla multiculturalità all’interculturalità,
attraverso processi di interazione e reciprocità tra le persone e tra le culture
e attraverso processi di purificazione. Un unico paradigma culturale non può
avere l’ampiezza della multiculturalità. Linguaggi e atteggiamenti che indicano
ancora intolleranza, indifferenza gli uni per gli altri, giudizi negativi che
arrivano al pregiudizio, devono lasciare spazio a linguaggi educati e sensibili,
capaci di incontro, confronto, dialogo, riconoscimento di cammini di liberazione
personale e di riconciliazione.
Fatiche e speranze
Da un movimento a senso unico, da Nord a Sud, la missione è diventata
multi-direzionale – ha aggiunto sr Brambilla – un movimento da tutte le
direzioni verso tutte le direzioni. Il concetto di missione multi-direzionale
che caratterizza la VC oggi, trova esempi concreti e in corso di attuazione,
come diverse presenze missionarie inter-congregazionali, quali quella in Sud
Sudan. Nel Sudan Solidarity Project Uisg-Usg, operano insieme 24 religiosi e
religiose di 12 diverse congregazioni, 19 donne e 5 uomini di 13 diverse
nazionalità. «La vita e la testimonianza di preghiera di queste comunità
internazionali e inter-congregazionali – ha affermato – è già un segno di
speranza di quanto è possibile realizzare». Altre iniziative analoghe citate
sono i centri di formazione per insegnanti, il Catholic Health Institute in
Sudan, i programmi interdiocesani su azioni di pace. In totale ad oggi sono
oltre 140 le congregazioni che collaborano a vario titolo in diverse parti del
mondo. Ma la strada è ancora molto aperta e lunga.
Sr. Brambilla dà voce ad alcune domande: L’esperienza mistica e la profezia sono
entrate nel nostro linguaggio? Siamo donne abitate da Dio, a casa con Dio, in
ascolto di Dio, in ascolto della Chiesa? Il nostro epicentro è Cristo? Siamo
capaci di dire la sua Parola perché quelli che ci ascoltano e ci guardano,
abbiano vita e l’abbiano in abbondanza? Poi richiama il passo di Isaia: “Allarga
lo spazio della tua tenda” (54,2). Il nostro spazio deve essere condiviso e in
una società frammentata, fragile, precaria, le nostre comunità devono vivere un
più intenso senso di appartenenza, anche con particolari e precise iniziative di
formazione iniziale e permanente. Tutto questo processo di maturazione, di
passaggio, perché sia efficace deve investire le comunità, le province, le
congregazioni. Per questo è necessario trovare le radici non negoziabili,
spirituali, ministeriali, stili di vita, che fondano e formano la cultura
congregazionale. È necessario essere sostenute da una passione comune, da una
comune liturgia, da un comune linguaggio per vivere il travaglio di questo
tempo, nella speranza di una nuova stagione di vita”.
Persone nuove e belle
«Siamo chiamati a una ricomposizione della cultura a partire dalla vita, per
tornare affascinanti. Siamo bravissimi, ma non sempre siamo belli. La bravura fa
applaudire; è la bellezza che fa innamorare, che affascina, che attira».
Introducendosi con queste parole, p. Rupnik ha offerto riflessioni acute sulla
natura della VC, esplicitazione della vita di Dio ricevuta nel battesimo e
caratterizzata da una triplice comunione, con Dio, con gli altri, con se stessi,
come vita intrisa dell’umanità vissuta da Cristo. Il percorso comunitario è
possibile soltanto per persone nuove che hanno aderito alla vita di Cristo dopo
aver rinunciato al male e hanno perdonato il male che hanno ricevuto. Esiste
sempre la tentazione di un amore pagano. Ma l’amore vero ha la chiarezza del
triduo pasquale. Noi siamo ciò che siamo in Cristo. E ciò che siamo, ciò
riflettiamo. L’Eucaristia alimenta e porta a compimento l’innesto della nostra
vita in Cristo, partecipata a noi dal Padre e ci configura nella nuova splendida
realtà dell’unico Corpo del quale Cristo è il capo. Per questo la VC deve
passare dall’umano al divino, cioè partire dal divino per migliorare l’umanità e
renderla spiritualmente feconda. «A che serve essere vergini se non si diventa
madri? Siamo chiamati a essere vergini, madri e padri nella bellezza, per
convertire la qualità della vita e superare la morte». Recuperare la centralità
dell’Eucarestia, offrirsi, consegnarsi, donarsi come si è offerto, consegnato,
donato Cristo, per essere persone nuove, comunità nuove, capaci di ridare
bellezza alla vita e verità al suo compiersi.
Difficoltà dell'annuncio
«La comunità ecclesiale – ha detto p. Rupnik – si basa sulla partecipazione di
tutti, secondo i doni ricevuti, e il dono della VC consiste nel manifestare
l'immenso amore di Dio per l'umanità. Il modo per raggiungere l'uomo con
l'annuncio del Vangelo è quello di mettere l'uomo al centro, valorizzando
ciascuno secondo i doni ricevuti». Tuttavia «oggi è molto difficile l'annuncio
perché l'immaginario collettivo è gestito dalla tv, quindi dall'opinione
pubblica». Secondo il relatore, i cristiani oggi rischiano così di porre se
stessi come una posizione ideologica, mentre dovrebbero “vivere il Vangelo”,
mostrandolo senza bisogno di teorie. Spiritualismo, moralismo, volontarismo da
una parte, entusiasmi di teorie e ideologie dall’altra, sono stati devastanti
negli ultimi anni. In meno di 20 anni – ha affermato p. Rupnik – abbiamo
spazzato via una civiltà cristiana; abbiamo costruito la nostra civiltà fondata
sulla disciplina e non su Dio. Si è andata determinando un’assenza graduale
della sapienza che si tramandava da una generazione all’altra. Dobbiamo prendere
atto di una grave crisi di teologia. Le scienze umane, psicologiche, la scienza
in generale è diventata autorevole su tutto, anche sulla verità e sul bene, ma
nessuna ha esplicitato un collegamento profondo con la vita, nel rispetto della
sua sacralità e del mistero. Ci è sfuggita la vita. Non si trasmette vita, fede,
amore con le idee. Tanti percorsi formativi non hanno suscitato adesione a Dio,
non hanno affinato la sensibilità alle ispirazioni dello Spirito, non ci hanno
reso belli di quella bellezza che nasce da una vita centrata su Cristo.
Rileggere la propria storia
La bellezza non si improvvisa, né si rimedia con “tentativi cosmetici”. «Ci
possono essere comunità di tipo individualistico, in cui ciascuno viaggia per
conto suo. Il problema, in questo tipo, è dove ciascuno colloca Dio. Poi può
esserci la comunità di tipo “efficientista”, in cui si sommano i singoli
talenti. E ci può essere un terzo tipo di comunità in cui una persona presenta
qualcosa di diverso: in questo caso rischia di esplodere tutto, se tale persona
non viene seguita, capita e accolta»: così sr. Edvige Tamburini ha contribuito
con molta schiettezza e serenità alla riflessione in atto. «Per una comunità
religiosa oggi, alle prese con presenze “diverse” dalle solite, – ha proseguito
– occorre una grande capacità di elaborare uno sviluppo interno che sia biblico,
teologico, spirituale, carismatico. Tali comunità sono quindi stimolate a
rileggere la propria realtà e storia, a prendere atto dei cambiamenti in corso,
a cercare di superare le resistenze interne per armonizzare i modelli di
comunità più “tradizionali” con percorsi singolari e differenti. Sr. Edvige ha
fatto riferimento all’esperienza boliviana della consorella sr. Antonietta
Potente, teologa, alla quale è stata concessa la possibilità di un’esperienza di
studio e di missione, diversa rispetto ai comuni percorsi comunitari.
Il sogno della comunità
L’originalità dell’esperienza di sr. Antonietta si è delineata fin dall’inizio
della sua riflessione.
«Siamo famiglia di tutto ciò che germoglia, cresce, matura, si stanca, muore e
rinasce. Ogni bambino ha molti padri, zii, fratelli, nonni. Nonni sono i morti e
le montagne. Figli della terra e del sole, irrigati dalle piogge femmine e dalle
piogge maschi, siamo tutti parenti dei semi, del mais, dei fiumi e delle volpi
che ululano annunciando come sarà l'anno che viene. Le pietre sono parenti dei
serpenti e delle lucertoline. Il mais e il fagiolo, sono fratelli tra loro,
crescono insieme senza picchiarsi. Le patate sono figlie e madri di coloro che
le piantano, perché chi crea è creato. Tutto è sacro, e noi anche. A volte noi
siamo dei e gli dei sono, a volte, semplicemente delle personcine. Così dicono,
così sanno, gli indigeni delle Ande.» (Eduardo Galeano). «Questo testo – ha
affermato sr Antonietta – ci aiuta a far spaziare il nostro sguardo e ad
affrontare il discorso della comunità non come una problematica puramente
nostra, come vita religiosa o ecclesiale, ma come la problematica di tutti
coloro che vivono in questa storia e non solo gli esseri umani, ma tutto il
resto della biodiversità che ci circonda. Il sogno della comunità è un sogno
divino. E come ogni sogno divino è troppo grande per essere proprietà e
interesse di poche persone». Certamente il sogno di Dio è molto più grande del
nostro e dobbiamo imparare prima ad amarlo e a stupircene. Questo sogno non è
solo di noi che ci conosciamo, di noi che leggiamo le Scritture, che ascoltiamo
la Parola di Dio e la celebriamo. È un sogno di tutti: c’è tanta nostalgia di
“casa”, di incontro e di dialogo umano. È difficile vivere insieme, perché
ciascuno è un dettaglio in questa grande costruzione, ma questo non significa
che «bisogna eliminare i dettagli per poter vivere insieme. Anzi bisognerà dare
più attenzione ai dettagli, a ogni piccolo gesto che metta in moto un amore
delicato e rispettoso, che ridia il gusto di camminare, il gusto di incontrare
gli altri. La vita di ogni comunità ha la sua storia e una storia molto
complessa, che porta con sé la stessa fisionomia umana; lineamenti e
comportamenti di popoli, culture e individui; visioni di Dio e visioni del
mondo. Oggi tutto ciò evoca un nuovo modo di stare nella storia, familiarizzando
con essa. Se conosciamo la storia, conosciamo anche il grido dell'umanità e
della creazione. Ancora una volta l'invito è a non creare convento per separarci
dalla storia, ma per starci dentro in un altro modo, per essere persone che
abitano e che si lasciano abitare, che creano spazi dove altri possano
incontrarsi ed abitare.
Nostalgia di una Presenza
Le prime comunità nascono attorno alla nostalgia di una "Presenza", perché Lui,
– Gesù – non c’era più. Quelli che l’avevano seguito, si erano rimessi insieme
per ricercare la vita, nella speranza che Lui tornasse, perché la sua presenza
fosse di nuovo lì. E lui è tornato. E con Lui è rifiorita la vita. Basti pensare
alla narrazione che i vangeli fanno di alcuni momenti dopo la resurrezione: a
Emmaus, sulla riva del lago...
I gesti delle prime comunità sono molto semplici e riflettono la sacralità della
vita nelle sue espressioni più quotidiane: lo scambio, l'aiuto reciproco, la
cura, l'interpretazione degli avvenimenti e delle Scritture; tutto sembra essere
contrario allo schema legalista dei gesti cultuali: purificazione, offerte,
sacrifici... gesti che rasentano sempre il pericolo dell'esclusione e creano
élite di persone. Allora il problema non è definire uno stile, ma coltivare
questo bellissimo sogno, questa passione che ci potrebbe tirare fuori da ogni
egocentrismo personale e comunitario, individuale e istituzionale. Forse è
questo il cammino per imparare a vivere con altri; imparare a vivere perché
altri continuino, o tornino a vivere... I modelli sono relativi, cambiano o
possono cambiare, essenziale è il desiderio di vivere insieme, è la ricerca di
comunione variamente declinata nel corso del tempo e nelle diverse esperienze,
senza mai dare nulla per scontato. Vivere vigilanti, svegli, in costante ricerca
di significato per dilatare gli spazi vitali, per essere presenza di Dio dove
l'umanità aspetta di essere riconosciuta, ricomposta, armonizzata, resa bella.
Questo è il nostro contributo per l’umanità che cerca di imparare a vivere
insieme. Esso è come un processo di maturità, simile a un apprendistato, o come
una costante palestra dove tutti i giorni dobbiamo imparare.
E lo si fa a piccoli passi, su lunghi sentieri di storia: itinerari di pazienza
ma anche di osati tentativi, intraprendenti sogni notturni, tra visioni
interiori e porte aperte sulla realtà. La visione più bella della storia e della
vita comunitaria è simile a quella di Ap 7,9: ... dopo queste cose vidi una
moltitudine immensa, che nessuno poteva contare, di ogni nazione, tribù, popolo
e lingua. Tutti stavano in piedi. È un invito a contemplare un mistero che non è
statico, ma proiettato a un divenire, orientato a un compimento.
Verso il giubileo dell’USMI
L’anno 2013 sarà il grande giubileo per l’USMI, il 50° della sua nascita
ufficiale avvenuta nel 1963 con l’erezione sia canonica che giuridica. ‹La
presidenza USMI si è già messa all’opera – ha comunicato madre Ballarin – non
tanto e non solo per celebrare un momento storico così importante ma soprattutto
per dire, nel modo più semplice possibile, ma anche efficace, quella parola
profetica che l’USMI ha voluto sempre essere nella Chiesa e nella nostra
società, fin dalla prima intuizione che ebbero le madri generali quando vollero
la sua esistenza. L’assemblea del prossimo anno 2012 segnerà l’inizio ufficiale
del giubileo e si concluderà con l’assemblea del 2013, che sarà anche elettiva.›
È un incoraggiamento a guardare al cammino compiuto senza nostalgie che non
hanno niente a che fare con la vita cristiana e con il Concilio – così hanno
sintetizzato p. Lorenzo Prezzi e sr Alberghina. Deve interessarci quel futuro di
cui parla l’Apocalisse. Attirate da quella “piazza d’oro”, abitare la
“modernità” trasmettendo la fede; garantire una solida formazione che lasci alle
spalle tutte le dicotomie; favorire relazioni nuove in umanità con passione per
la vita; porre presenze comunitarie significative, che sappiano stare nel
tessuto sociale ed ecclesiale e siano irradiazione dell’incontro con Dio;
lasciarsi interpellare dalla Parola per incarnarla, stando umilmente nella
quotidianità.
Bisogna chiedere al Signore di renderci persone che vigilano – in piedi – per
vedere e ascoltare ovunque la presenza dello Spirito in un processo di continua
conversione; persone che vivono il tempo nella storia come tempo di Dio, che
testimoniano che egli ama il suo popolo (cf Dt 7,8) di amore eterno (cf Ger
31,33). E lo Spirito ci renderà belli, di quella bellezza che nasce da una vita
realizzata nell’amore.