Persone nuove in Cristo. Percorsi di vita comunitaria: è stato questo il tema che l’Unione Superiore Maggiori d’Italia ha scelto per la sua 58a Assemblea Nazionale che si è svolta dal 27 al 29 aprile, a Roma, presso la Pontificia Università Urbaniana, con la partecipazione di . superiore generali di circa 600 congregazioni.
Con la scelta di questo argomento si è voluto riprendere il filo del discorso dell’Assemblea 2010 che aveva approfondito le radici battesimali della VC, per ricentrare e umanizzare la vita in Cristo e con Cristo e diventare per il mondo, narrazione vivente del Vangelo. A partire proprio da tali obiettivi, l’Assemblea di quest’anno ha cercato di individuare percorsi di vita per animare e accompagnare le comunità in un processo di crescita “in Cristo” e “in umanità”: processo necessario e urgente per attraversare la transizione, per guardare alla complessità storica con simpatia e con speranza, di testimoniare la comunione nella multiculturalità, nel dialogo tra le diverse età, nella condivisione della vita in ogni luogo e in ogni situazione. Nel corso dell’Assemblea i momenti di ascolto si sono alternati a tempi di dialogo tra le partecipanti, attraverso laboratori guidati per condividere esperienze e individuare cammini utili per il servizio di animazione nelle diverse Congregazioni.
Il saluto di apertura della presidente dell’USMI, madre Viviana Ballarin, ha anticipato sinteticamente quanto poi è stato sviluppato nelle tre giornate, accompagnate e arricchite dalle riflessioni di relatori e relatrici sapienti, testimoni di quanto sia possibile essere persone “nuove e belle” in Cristo 1.

Abitate dalla luce del Risorto

Madre Ballarin ha aperto l’Assemblea esprimendo il desiderio che “il Signore Risorto abiti sempre il centro del nostro essere comunità e ci doni la passione di cercare l’essenziale”. Ha ripetuto più volte l’appello pasquale: “Siamo qui, nella settimana di Pasqua, abitate dalla luce sfolgorante del Risorto che ci rassicura e ci invita al coraggio, alla festa, alla speranza… Non abbiate paura…andate e….dite la speranza contro ogni speranza, l’amore contro ogni violenza, il dono contro ogni egoismo, dite la vita contro ogni forma di violenza e di morte perché il Signore è risorto. Dite la speranza e fatelo con gesti concreti perché molti vedendo, credano… Portiamo nel cuore il mondo intero e insieme ad esso le nostre comunità con le gioie e le preoccupazioni che il servizio di governo comporta e forse siamo venute con il desiderio di ascoltare, di condividere, di cercare insieme. Forse attendiamo soluzioni a situazioni che si vanno facendo pesanti, a situazioni che si vanno trasformando in emergenze di vario genere; forse portiamo nel cuore la speranza di tornare alle nostre comunità con qualche ricetta… Niente di tutto questo! Sarebbe troppo poco. Siamo qui per ascoltare la tenerezza del Risorto che forse dorme sulla nostra barca nel lago in tempesta e ci invita a non avere paura; siamo qui per stupirci del suo amore che ci precede sempre in Galilea e non aspetta che lo raggiungiamo, ma ci viene incontro Lui per primo! Siamo qui, avvolte dal suo saluto, per abbracciargli i piedi e adorarlo….e poi, obbedienti al suo mandato, per andare, come comunità fraterne … ad annunciare ai fratelli … orientate a percorrere cammini comunitari di umanizzazione e di santità”.

Nel fratello il volto di Dio

Ogni cammino richiede tempo, pazienza, così come richiede la consapevolezza della direzione verso cui andare. Ebbene la direzione è nell’incontro con il volto dell’altro, è nella comunione dei volti, è nell’incontro con l’alterità nel mistero, è nell’incontro col volto di Dio. Un lento, contemplativo camminare così come sr. Grazia Papola ha fatto magistralmente rileggere e gustare, attraverso il racconto della storia di Esaù e Giacobbe (Gn 32,23-33; 33,1-16). La loro vicenda ha forti implicanze rispetto al tema della fraternità: dà prova dell’incapacità di vivere la diversità tra fratelli. Essi sono diversi anche perché amati in modo diverso. Ancora nel grembo materno i due fratelli – gemelli – già litigavano… La fraternità è fonte di differenziazione che genera divisione, gelosie e può portare ad estreme conseguenze di prevaricazione, predominio, vendetta. Ma Dio entra nella vita di ognuno. Chiede a Giacobbe di tornare a casa e di incontrare il fratello Esaù diventato intanto nemico. Giacobbe ha paura: la memoria del passato – con le sue violenze e i timori del presente con le proprie fragilità – lo assillano. Giacobbe lotta prima di tutto con se stesso per dare spazio a Dio fino a sperimentare che Dio vince in colui che accetta di perdere. Al guado dello Yabbok, di notte, lotta in un misterioso duello e ne esce zoppicante, ritrovando una nuova identità. Riceve infatti un nome nuovo – Israele – che lo rende capace di un nuovo sguardo e di un nuovo cammino. Torna dal fratello “zoppicando”, lo accoglie nella sua diversità e insieme tornano a casa, col desiderio di appartenersi reciprocamente. La lotta della notte in solitudine si trasforma nella comunione dei volti: il faccia a faccia dove ciascuno può esprimere la propria vulnerabilità e può affidarsi all’altro. Solo così – come per Giacobbe – è possibile vedere nel fratello il volto di Dio e testimoniarne la presenza nelle pieghe della storia.

Fraternità come dono

Giacobbe da solo non costruisce la fraternità. Tutti sono responsabili dei conflitti come della riconciliazione. Nella famiglia, come nella comunità, sono necessarie le due dimensioni: quella verticale e quella orizzontale. Nell’insieme tutti si è responsabili e tutti si è vittime, tutti si soffre. È dato spazio all’amore come alle preferenze. Un progetto di fraternità nel solo ambito umano è destinato al fallimento. Nell’ambito spirituale può essere invece ricostruito. La fraternità diventa possibile nella prova, ma è sempre un dono, una vocazione, una risposta da dare, un cammino di conversione da compiere e da condividere. Lo ha sottolineato, durante la celebrazione eucaristica, anche Mons. William Ioseph Tobin: «Se le nostre comunità e i nostri istituti non sono esperti di perdono, non saranno nemmeno testimoni». La storia di Giuseppe e dei suoi fratelli (Gn 37, 2-36; 45,1-15), su cui sr. Papola ha fatto un’ampia e profonda riflessione, fa luce sulle “storie di famiglia” della VC: segnate da diversi itinerari sul piano delle relazioni ma anche dentro il cuore delle persone, a volte faticano a riconoscere le ragioni delle tensioni e gli affetti implicati, altre volte non sanno bloccare il male col silenzio, altre ancora falliscono nei tentativi di riconciliazione perché non accolgono il limite come spazio di relazione e di verità. Dio non crea magicamente la fraternità, ma guida i passi degli uomini perché si pongano alla ricerca dei fratelli. Costruire fraternità non è cercare qualcosa, ma qualcuno. È accettare cammini di spogliazione e riconoscere gli infiniti desideri del cuore umano, per allargare la possibilità di vita. Giuseppe e i suoi fratelli, nella lettura sapiente dell’azione di Dio, lo dimostrano: quando tra i fratelli in Egitto ritorna il desiderio dell’incontro e del dialogo, ritorna anche il sentire fraterno.
Diversità e unità

Pur nella diversità, sentirsi fratelli è riconoscersi figli: ciò non può prescindere dalla relazione con un padre. Ricevere il dono della vita e della fraternità non può prescindere dalla relazione col donatore. Sul tema della diversità e della sua relazione con l’unità, la ricca esperienza biblica di sr. Grazia Papola ha proposto la parola di Paolo in 1Cor 12; 13 e 14, come chiave di lettura per ripensare le situazioni in cui vivono le fraternità consacrate e rileggerle a un’altra luce. Paolo non si mette a fustigare la comunità di Corinto, divisa tra doni straordinari e fraintendimento del senso della comunità/comunione. Non attribuisce l’intera responsabilità ai capi della comunità, e neppure vive la frustrazione davanti alle fragilità dei suoi membri. Ma prova a individuarne le cause profonde, contrarie alla logica del Vangelo; propone il recupero di un livello teologico-spirituale, non si limita a consigli morali e invita a ritrovare l’unico fondamento dentro l’evento pasquale: Dio, potentemente operante dove regna la debolezza e l’insipienza. E da Colui che è unico deriva la molteplicità. La diversità non è quindi dispersione, perché riporta inevitabilmente all’unicità. Vi sono diversità di carismi, ma uno solo è lo spirito; vi sono diversi ministeri, ma uno solo è il Signore; vi sono diverse attività, ma uno solo è Dio, che opera tutto in tutti. (1Cor 12,4-6). La differenza che è all’origine del progetto umano-divino, si prolunga nell’azione dello Spirito che non esclude nessuno dai suoi doni. Ogni dono è per l’utilità. Ogni dono che non sia messo al servizio degli altri, si perde. In Paolo il paragone della comunità all’organismo umano, diventa chiave di lettura per accogliere i doni di ogni membro nella prospettiva della comunione. Diventa pure esortazione, per l’oggi della VC, ad allargare il cuore per accogliere i doni che Dio continua a fare, a “non accontentarsi a volare basso”, per “non rischiare di eliminare i nuovi germogli” che lo Spirito dona alla Chiesa e all’umanità.

La profezia dell'unità

Un saluto multilingue, gesto di ‘preziosa umanità’ e riconoscimento verso chi serve il Signore e la Chiesa nella sua molteplicità di presenza in questo mondo globalizzato, ha collegato la riflessione di sr. Adele Brambilla alla storia di Giuseppe e dei suoi fratelli e al messaggio dell’apostolo Paolo.
In linea con la molteplicità dei carismi dentro un unico Spirito e in un solo corpo va riletta la multiculturalità della VC: «è un tesoro inestimabile e una grande risorsa. Grazie alla maggiore e sempre più rapida mobilità e per la dilatazione dell'informazione tramite i media, la VC è chiamata ad assumere un compito irrinunciabile: promuovere una cultura del rispetto, dell’interdipendenza a dimensione planetaria. Non possiamo più dissociarci - ha affermato - gli uni dagli altri».
Per far crescere il livello di interculturalità nelle e tra le congregazioni religiose, è urgente passare dalla multiculturalità all’interculturalità, attraverso processi di interazione e reciprocità tra le persone e tra le culture e attraverso processi di purificazione. Un unico paradigma culturale non può avere l’ampiezza della multiculturalità. Linguaggi e atteggiamenti che indicano ancora intolleranza, indifferenza gli uni per gli altri, giudizi negativi che arrivano al pregiudizio, devono lasciare spazio a linguaggi educati e sensibili, capaci di incontro, confronto, dialogo, riconoscimento di cammini di liberazione personale e di riconciliazione.

Fatiche e speranze

Da un movimento a senso unico, da Nord a Sud, la missione è diventata multi-direzionale – ha aggiunto sr Brambilla – un movimento da tutte le direzioni verso tutte le direzioni. Il concetto di missione multi-direzionale che caratterizza la VC oggi, trova esempi concreti e in corso di attuazione, come diverse presenze missionarie inter-congregazionali, quali quella in Sud Sudan. Nel Sudan Solidarity Project Uisg-Usg, operano insieme 24 religiosi e religiose di 12 diverse congregazioni, 19 donne e 5 uomini di 13 diverse nazionalità. «La vita e la testimonianza di preghiera di queste comunità internazionali e inter-congregazionali – ha affermato – è già un segno di speranza di quanto è possibile realizzare». Altre iniziative analoghe citate sono i centri di formazione per insegnanti, il Catholic Health Institute in Sudan, i programmi interdiocesani su azioni di pace. In totale ad oggi sono oltre 140 le congregazioni che collaborano a vario titolo in diverse parti del mondo. Ma la strada è ancora molto aperta e lunga.
Sr. Brambilla dà voce ad alcune domande: L’esperienza mistica e la profezia sono entrate nel nostro linguaggio? Siamo donne abitate da Dio, a casa con Dio, in ascolto di Dio, in ascolto della Chiesa? Il nostro epicentro è Cristo? Siamo capaci di dire la sua Parola perché quelli che ci ascoltano e ci guardano, abbiano vita e l’abbiano in abbondanza? Poi richiama il passo di Isaia: “Allarga lo spazio della tua tenda” (54,2). Il nostro spazio deve essere condiviso e in una società frammentata, fragile, precaria, le nostre comunità devono vivere un più intenso senso di appartenenza, anche con particolari e precise iniziative di formazione iniziale e permanente. Tutto questo processo di maturazione, di passaggio, perché sia efficace deve investire le comunità, le province, le congregazioni. Per questo è necessario trovare le radici non negoziabili, spirituali, ministeriali, stili di vita, che fondano e formano la cultura congregazionale. È necessario essere sostenute da una passione comune, da una comune liturgia, da un comune linguaggio per vivere il travaglio di questo tempo, nella speranza di una nuova stagione di vita”.
Persone nuove e belle

«Siamo chiamati a una ricomposizione della cultura a partire dalla vita, per tornare affascinanti. Siamo bravissimi, ma non sempre siamo belli. La bravura fa applaudire; è la bellezza che fa innamorare, che affascina, che attira». Introducendosi con queste parole, p. Rupnik ha offerto riflessioni acute sulla natura della VC, esplicitazione della vita di Dio ricevuta nel battesimo e caratterizzata da una triplice comunione, con Dio, con gli altri, con se stessi, come vita intrisa dell’umanità vissuta da Cristo. Il percorso comunitario è possibile soltanto per persone nuove che hanno aderito alla vita di Cristo dopo aver rinunciato al male e hanno perdonato il male che hanno ricevuto. Esiste sempre la tentazione di un amore pagano. Ma l’amore vero ha la chiarezza del triduo pasquale. Noi siamo ciò che siamo in Cristo. E ciò che siamo, ciò riflettiamo. L’Eucaristia alimenta e porta a compimento l’innesto della nostra vita in Cristo, partecipata a noi dal Padre e ci configura nella nuova splendida realtà dell’unico Corpo del quale Cristo è il capo. Per questo la VC deve passare dall’umano al divino, cioè partire dal divino per migliorare l’umanità e renderla spiritualmente feconda. «A che serve essere vergini se non si diventa madri? Siamo chiamati a essere vergini, madri e padri nella bellezza, per convertire la qualità della vita e superare la morte». Recuperare la centralità dell’Eucarestia, offrirsi, consegnarsi, donarsi come si è offerto, consegnato, donato Cristo, per essere persone nuove, comunità nuove, capaci di ridare bellezza alla vita e verità al suo compiersi.
Difficoltà dell'annuncio

«La comunità ecclesiale – ha detto p. Rupnik – si basa sulla partecipazione di tutti, secondo i doni ricevuti, e il dono della VC consiste nel manifestare l'immenso amore di Dio per l'umanità. Il modo per raggiungere l'uomo con l'annuncio del Vangelo è quello di mettere l'uomo al centro, valorizzando ciascuno secondo i doni ricevuti». Tuttavia «oggi è molto difficile l'annuncio perché l'immaginario collettivo è gestito dalla tv, quindi dall'opinione pubblica». Secondo il relatore, i cristiani oggi rischiano così di porre se stessi come una posizione ideologica, mentre dovrebbero “vivere il Vangelo”, mostrandolo senza bisogno di teorie. Spiritualismo, moralismo, volontarismo da una parte, entusiasmi di teorie e ideologie dall’altra, sono stati devastanti negli ultimi anni. In meno di 20 anni – ha affermato p. Rupnik – abbiamo spazzato via una civiltà cristiana; abbiamo costruito la nostra civiltà fondata sulla disciplina e non su Dio. Si è andata determinando un’assenza graduale della sapienza che si tramandava da una generazione all’altra. Dobbiamo prendere atto di una grave crisi di teologia. Le scienze umane, psicologiche, la scienza in generale è diventata autorevole su tutto, anche sulla verità e sul bene, ma nessuna ha esplicitato un collegamento profondo con la vita, nel rispetto della sua sacralità e del mistero. Ci è sfuggita la vita. Non si trasmette vita, fede, amore con le idee. Tanti percorsi formativi non hanno suscitato adesione a Dio, non hanno affinato la sensibilità alle ispirazioni dello Spirito, non ci hanno reso belli di quella bellezza che nasce da una vita centrata su Cristo.

Rileggere la propria storia

La bellezza non si improvvisa, né si rimedia con “tentativi cosmetici”. «Ci possono essere comunità di tipo individualistico, in cui ciascuno viaggia per conto suo. Il problema, in questo tipo, è dove ciascuno colloca Dio. Poi può esserci la comunità di tipo “efficientista”, in cui si sommano i singoli talenti. E ci può essere un terzo tipo di comunità in cui una persona presenta qualcosa di diverso: in questo caso rischia di esplodere tutto, se tale persona non viene seguita, capita e accolta»: così sr. Edvige Tamburini ha contribuito con molta schiettezza e serenità alla riflessione in atto. «Per una comunità religiosa oggi, alle prese con presenze “diverse” dalle solite, – ha proseguito – occorre una grande capacità di elaborare uno sviluppo interno che sia biblico, teologico, spirituale, carismatico. Tali comunità sono quindi stimolate a rileggere la propria realtà e storia, a prendere atto dei cambiamenti in corso, a cercare di superare le resistenze interne per armonizzare i modelli di comunità più “tradizionali” con percorsi singolari e differenti. Sr. Edvige ha fatto riferimento all’esperienza boliviana della consorella sr. Antonietta Potente, teologa, alla quale è stata concessa la possibilità di un’esperienza di studio e di missione, diversa rispetto ai comuni percorsi comunitari.

Il sogno della comunità


L’originalità dell’esperienza di sr. Antonietta si è delineata fin dall’inizio della sua riflessione.
«Siamo famiglia di tutto ciò che germoglia, cresce, matura, si stanca, muore e rinasce. Ogni bambino ha molti padri, zii, fratelli, nonni. Nonni sono i morti e le montagne. Figli della terra e del sole, irrigati dalle piogge femmine e dalle piogge maschi, siamo tutti parenti dei semi, del mais, dei fiumi e delle volpi che ululano annunciando come sarà l'anno che viene. Le pietre sono parenti dei serpenti e delle lucertoline. Il mais e il fagiolo, sono fratelli tra loro, crescono insieme senza picchiarsi. Le patate sono figlie e madri di coloro che le piantano, perché chi crea è creato. Tutto è sacro, e noi anche. A volte noi siamo dei e gli dei sono, a volte, semplicemente delle personcine. Così dicono, così sanno, gli indigeni delle Ande.» (Eduardo Galeano). «Questo testo – ha affermato sr Antonietta – ci aiuta a far spaziare il nostro sguardo e ad affrontare il discorso della comunità non come una problematica puramente nostra, come vita religiosa o ecclesiale, ma come la problematica di tutti coloro che vivono in questa storia e non solo gli esseri umani, ma tutto il resto della biodiversità che ci circonda. Il sogno della comunità è un sogno divino. E come ogni sogno divino è troppo grande per essere proprietà e interesse di poche persone». Certamente il sogno di Dio è molto più grande del nostro e dobbiamo imparare prima ad amarlo e a stupircene. Questo sogno non è solo di noi che ci conosciamo, di noi che leggiamo le Scritture, che ascoltiamo la Parola di Dio e la celebriamo. È un sogno di tutti: c’è tanta nostalgia di “casa”, di incontro e di dialogo umano. È difficile vivere insieme, perché ciascuno è un dettaglio in questa grande costruzione, ma questo non significa che «bisogna eliminare i dettagli per poter vivere insieme. Anzi bisognerà dare più attenzione ai dettagli, a ogni piccolo gesto che metta in moto un amore delicato e rispettoso, che ridia il gusto di camminare, il gusto di incontrare gli altri. La vita di ogni comunità ha la sua storia e una storia molto complessa, che porta con sé la stessa fisionomia umana; lineamenti e comportamenti di popoli, culture e individui; visioni di Dio e visioni del mondo. Oggi tutto ciò evoca un nuovo modo di stare nella storia, familiarizzando con essa. Se conosciamo la storia, conosciamo anche il grido dell'umanità e della creazione. Ancora una volta l'invito è a non creare convento per separarci dalla storia, ma per starci dentro in un altro modo, per essere persone che abitano e che si lasciano abitare, che creano spazi dove altri possano incontrarsi ed abitare.

Nostalgia di una Presenza

Le prime comunità nascono attorno alla nostalgia di una "Presenza", perché Lui, – Gesù – non c’era più. Quelli che l’avevano seguito, si erano rimessi insieme per ricercare la vita, nella speranza che Lui tornasse, perché la sua presenza fosse di nuovo lì. E lui è tornato. E con Lui è rifiorita la vita. Basti pensare alla narrazione che i vangeli fanno di alcuni momenti dopo la resurrezione: a Emmaus, sulla riva del lago...
I gesti delle prime comunità sono molto semplici e riflettono la sacralità della vita nelle sue espressioni più quotidiane: lo scambio, l'aiuto reciproco, la cura, l'interpretazione degli avvenimenti e delle Scritture; tutto sembra essere contrario allo schema legalista dei gesti cultuali: purificazione, offerte, sacrifici... gesti che rasentano sempre il pericolo dell'esclusione e creano élite di persone. Allora il problema non è definire uno stile, ma coltivare questo bellissimo sogno, questa passione che ci potrebbe tirare fuori da ogni egocentrismo personale e comunitario, individuale e istituzionale. Forse è questo il cammino per imparare a vivere con altri; imparare a vivere perché altri continuino, o tornino a vivere... I modelli sono relativi, cambiano o possono cambiare, essenziale è il desiderio di vivere insieme, è la ricerca di comunione variamente declinata nel corso del tempo e nelle diverse esperienze, senza mai dare nulla per scontato. Vivere vigilanti, svegli, in costante ricerca di significato per dilatare gli spazi vitali, per essere presenza di Dio dove l'umanità aspetta di essere riconosciuta, ricomposta, armonizzata, resa bella. Questo è il nostro contributo per l’umanità che cerca di imparare a vivere insieme. Esso è come un processo di maturità, simile a un apprendistato, o come una costante palestra dove tutti i giorni dobbiamo imparare.
E lo si fa a piccoli passi, su lunghi sentieri di storia: itinerari di pazienza ma anche di osati tentativi, intraprendenti sogni notturni, tra visioni interiori e porte aperte sulla realtà. La visione più bella della storia e della vita comunitaria è simile a quella di Ap 7,9: ... dopo queste cose vidi una moltitudine immensa, che nessuno poteva contare, di ogni nazione, tribù, popolo e lingua. Tutti stavano in piedi. È un invito a contemplare un mistero che non è statico, ma proiettato a un divenire, orientato a un compimento.

Verso il giubileo dell’USMI

L’anno 2013 sarà il grande giubileo per l’USMI, il 50° della sua nascita ufficiale avvenuta nel 1963 con l’erezione sia canonica che giuridica. ‹La presidenza USMI si è già messa all’opera – ha comunicato madre Ballarin – non tanto e non solo per celebrare un momento storico così importante ma soprattutto per dire, nel modo più semplice possibile, ma anche efficace, quella parola profetica che l’USMI ha voluto sempre essere nella Chiesa e nella nostra società, fin dalla prima intuizione che ebbero le madri generali quando vollero la sua esistenza. L’assemblea del prossimo anno 2012 segnerà l’inizio ufficiale del giubileo e si concluderà con l’assemblea del 2013, che sarà anche elettiva.›
È un incoraggiamento a guardare al cammino compiuto senza nostalgie che non hanno niente a che fare con la vita cristiana e con il Concilio – così hanno sintetizzato p. Lorenzo Prezzi e sr Alberghina. Deve interessarci quel futuro di cui parla l’Apocalisse. Attirate da quella “piazza d’oro”, abitare la “modernità” trasmettendo la fede; garantire una solida formazione che lasci alle spalle tutte le dicotomie; favorire relazioni nuove in umanità con passione per la vita; porre presenze comunitarie significative, che sappiano stare nel tessuto sociale ed ecclesiale e siano irradiazione dell’incontro con Dio; lasciarsi interpellare dalla Parola per incarnarla, stando umilmente nella quotidianità.
Bisogna chiedere al Signore di renderci persone che vigilano – in piedi – per vedere e ascoltare ovunque la presenza dello Spirito in un processo di continua conversione; persone che vivono il tempo nella storia come tempo di Dio, che testimoniano che egli ama il suo popolo (cf Dt 7,8) di amore eterno (cf Ger 31,33). E lo Spirito ci renderà belli, di quella bellezza che nasce da una vita realizzata nell’amore.