“Imparare a imparare”: non è un gioco di parole, come potrebbe sembrare, ma una specie di massima che indica quanto sia indispensabile una formazione permanente che metta in grado di imparare sempre durante tutta la vita. Emilio González Magaña, sj, professore di teologia spirituale e di spiritualità ignaziana all’Università Gregoriana di Roma l’ha scelta come titolo di una sua riflessione nell’ultimo numero del Bollettino Revue de Spiritualité ignatienne (n. 126), tutto dedicato al tema della formazione permanente nella Compagnia di Gesù, ma che ha dei riflessi decisivi per chiunque, sacerdoti, religiosi e religiose.
La necessità della formazione permanente rappresenta un cardine degli orientamenti formativi della Compagnia di Gesù. Il suo significato è stato ribadito e convalidato da diverse Congregazioni Generali, in particolare quelle più recenti.
Ma la sua importanza era stata già riconosciuta e vivamente raccomandata dallo stesso concilio Vaticano II e da tutta una serie di documenti successivi della Chiesa. In particolare con i decreti Prebyterorum ordinis e Optatam totius, e nelle costituzioni dogmatiche Lumen gentium e Gaudium ed spes la Chiesa invita i sacerdoti a prendere coscienza che la formazione permanente è per essi un dovere, per prepararsi ad offrire una testimonianza di vita autentica in vista di un nuovo slancio evangelizzatore nel mondo d’oggi.
Giovanni Paolo secondo, da parte sua, diceva che la formazione permanente mantiene la giovinezza dello spirito, cosa che nessuno può imporre dall’esterno ma che ciascuno deve attingere continuamente da se stesso. E aggiungeva che la santità dei sacerdoti è un apporto essenziale per rendere fecondo il ministero che essi compiono. Nelle situazioni problematiche, il sacerdote deve avere sempre coscienza di essere un ministro di Cristo. Da questa convinzione deriva la necessità di una formazione permanente che consisterà essenzialmente nel ravvivare il dono della vocazione e di coltivare il proprio carisma. Formarsi alla vita durante tutta l’esistenza non è altro che attizzare il fuoco del servizio e l’ardore che esiste in noi dal giorno in cui abbiamo risposto affermativamente alla chiamata del Signore. Può capitare che al posto di accendere altri fuochi, la chiamata ricevuta si affievolisca a causa della routine o dall’attivismo, e di aver bisogno di ravvivare il dono di Dio. Siamo chiamati a santificarci configurandoci a Cristo e a vivere pienamente la carità di Gesù buon Pastore, a sua immagine».

Esige uno sforzo continuo di conversione

La formazione permanente non può assolutamente essere intesa come un semplice prolungamento di quella dopo l’ordinazione sacerdotale o della professione perpetua. Il suo scopo è di tendere a due precisi obiettivi: uno sforzo costante di conversione e un impegno affinché questa conversione diventi realtà, anche nelle circostanze avverse.
Il percorso consiste per tutti, rileva p. González, in un approfondimento della formazione iniziale assunta integralmente in tutte le sue dimensioni: umana, spirituale e comunitaria, e deve favorire il rinnovamento dell’aspetto intellettuale e pastorale. Deve fondarsi su una riflessione interdisciplinare che miri a unificare l’ambito psichico, la vita spirituale e il sapere attraverso l’interazione di tutte le dimensioni della formazione.
Il luogo della formazione permanente non è altro che la missione ricevuta dai superiori, vissuta nel quotidiano, attenti ai segni dei tempi, contemplando l’amore e decidendo di amare e di servire in tutte le cose a fianco dei nostri fratelli, in particolare con i meno dotati, nelle relazioni personali con i laici, in fraternità con tutti i sacerdoti. In una parola, si tratta di giungere all’unità interiore, che sarà assicurata dalla carità pastorale… Solo la formazione permanente aiuta il sacerdote a custodire con un amore vigilante il mistero che egli porta in sé per il bene della Chiesa e dell’umanità.
Per i gesuiti, sottolinea p. González, la formazione permanente ha come scopo di condurre il religioso a identificarsi con il Cristo povero e umile di cui parlano gli Esercizi Spirituali. Come diceva p. Arrupe, non si tratta soltanto di un aggiornamento delle proprie conoscenze intellettuali, ma di qualcosa di più ampio, poiché la formazione permanente si radica nel più profondo dello spirito nel desiderio di adattarsi alle circostanze presenti e, per quanto è possibile, prevedere l’avvenire ». In relazione al magis ignaziano, essa consente di «farci vivere intensamente la tensione tra una fedeltà creativa e un’identità in evoluzione, allo scopo di rispondere ai segni dei tempi, poiché è da qui che dipende il nostro servizio apostolico».

Riguarda tutte le fasi della vita

Padre González sottolinea: «nel mondo d’oggi siamo chiamati a promuovere tutti i mezzi e gli strumenti in vista della nostra crescita personale. Non potremo vivere pienamente la nostra missione se non abbiamo un progetto di vita che animi il nostro essere e il nostro operare nella Chiesa. Siamo a servizio della missione in ciascuna tappa della nostra vita». Cita quindi quanto ha ricordato la 35a Congregazione Generale: «Fin dall’inizio della nostra formazione e durante tutta la vita dobbiamo essere e rimanere persone che hanno familiarità con le cose di Dio… Come è noto, , la mediocrità non ha posto nella visione di Ignazio. È perciò fondamentale dare ai giovanti gesuiti una formazione umana, spirituale, intellettuale ed ecclesiale tanto profonda quanto solida affinché ciascuno possa vivere pienamente la nostra missione nel mondo con un giusto atteggiamento di servizio in seno alla Chiesa».
Come afferma ancora la medesima Congregazione Generale, i gesuiti sono «consapevoli di essere un dono dello Spirito di Dio alla Chiesa intera». Ma questo «non vuol dire che dobbiamo cercare di assimilare nuovi saperi, attitudini e competenze che assicurino un successo, come se fossimo impegnati nella vita professionale civile. Si tratta piuttosto di uno studio, di una riflessione e di una ricerca sulla Parola di speranza proclamata dalla Scrittura e di cui tutta la teologia si fa eco…».
Bisogna perciò evitare di cadere nell’intellettualismo o nella ricerca di potere e di prestigio con il conseguimento di titoli universitari. Di qui l’urgenza di un rinnovamento interiore, meglio ancora, di una sequela di Cristo povero e umile sotto lo stendardo della croce. Questo atteggiamento ci permetterà di progredire nella configurazione a Cristo: «essere e fare; contemplazione e azione; preghiera e vita profetica; essere totalmente uniti a Cristo a completamente inseriti nel mondo con lui come corpo apostolico» (CG 25).

La disponibilità a imparare dalla vita

La formazione permanente richiede «una disponibilità costante a imparare dalla vita, da ciascuna situazione e relazione umana (docibilitas). Comporta un insieme di attività ordinarie e straordinarie: esami e discernimento, ascesi e preghiera, studio e apostolato, verifica personale e comunitaria che aiuti a maturare nell’identità credente e nella fedeltà alla nostra vocazione nelle diverse circostanze e tappe della vita. La formazione permanente è la libertà intelligente e audace di lasciarsi formare dalla vita durante tutta l’esistenza» (Cencini). Si tratta, rileva p. González, di un cammino lento e progressivo in cui lo Spirito Santo ha la priorità e gioca un ruolo centrale, formandoci secondo il cuore di Cristo. È un atteggiamento che impegna la totalità del nostro essere, stimolandoci a compiere il nostro servizio nella e a partire dalla carità, mettendo l’Eucaristia al centro del nostro essere e del nostro agire, e avendo come orizzonte la missione. È pertanto molto di più di un semplice prolungamento del progetto di formazione destinata a tutti i giovani preti, religiosi e religiose.

Protagonisti della propria storia

Per imparare a imparare bisogna coltivare la libertà di diventare poco alla volta degli uomini capaci di impegnare la propria vita religiosa e sacerdotale al punto da diventare protagonisti della propria storia. Questa libertà libera dalle ideologie, permette di intrecciare delle relazioni feconde, attive e passive, con Dio e con gli uomini. Meglio ancora: forma e aiuta a riconoscere gli affetti disordinati che ci impediscono di scoprire la sua volontà. È un atteggiamento che coopera a plasmare il soggetto di cui parla Ignazio di Loyola a proposito delle qualità necessarie per poter assumere un impegno serio, libero e responsabile. Secondo l’esperienza ignaziana, è necessario essere un “soggetto” per fare gli Esercizi e per essere ammessi nella Compagnia di Gesù; questo termine designa la persona umana nella sua totalità, sapendo che ogni individuo è unico e insostituibile e che è il solo a poter prendere le decisioni che lo riguardano. Con questa disponibilità saremo in grado di comprendere che le «altre cose sulla faccia della terra sono create per l’uomo, e aiutarlo nel conseguimento del fine per il quale egli è stato creato». Tutto dipende dalla volontà di ciascuno a formarsi alla docibiliias.
Una solida formazione iniziale, prosegue p. González, formerà delle persone docibili che hanno imparato non importa in quale missione e con ogni genere di persone. Essa avrà come obiettivo di aiutare ciascuno a integrarsi nel corpo apostolico della Compagnia di Gesù donandogli le competenze necessarie per rispondere alle sfide attuali della missione nel modo migliore possibile. Questi due parametri misureranno il progresso del candidato nel suo percorso di motivazione, di bisogni, abitudini e pratiche, fino alla sua incorporazione definitiva nella Compagnia con i voti perpetui (ultimi). Il gesuita così formato saprà che la formazione è come un “edificio” da costruire durante tutta la vita, attraverso un impegno in cui egli concentra la sua attenzione sul discernimento personale, e non solamente sui contenuti, con un accompagnamento appropriato. Il formando è così il primo responsabile della propria crescita. Diventa capace di imparare dai suoi insuccessi e di attraversare le crisi dell’età matura e della vecchiaia coinvolgendosi attivamente, con un atteggiamento positivo che gli permette di riconciliarsi con la propria storia e di guardarla con gratitudine. Sviluppa la sua capacità a entrare in relazione con gli altri con rispetto e ammirazione e di venire a contatto con altre realtà oggettive. Infine impara a eliminare da sé tutti gli attaccamenti disordinati e, dopo averli eliminati, a cercare di trovare la volontà divina nella disposizione della sua vita in vista della salvezza della sua anima, liberandosi dalle sue paure, da pretesti e distorsioni percettive e da attese irrealistiche che, in definitiva, non gli permettono di lasciarsi educare e formare dalla vita.

Concludendo, p. González, sottolinea quanto sia importante questo formazione anche per dissipare la confusione che si è creata oggi attorno all’identità sacerdotale e religiosa. «Per molti giovani, scrive, il sacerdozio ha perso gran parte della sua attrattiva perché noi proiettiamo l’immagine di una mancanza di docibilitas. Siamo percepiti come degli “eterni adolescenti”, a volte con un complesso di inferiorità di fronte ai professionisti “di successo”, oppure con atteggiamenti di superiorità che si traducono in un certo autoritarismo o clericalismo nei rapporti con i collaboratori, soprattutto se sono delle persone semplici. Proiettiamo a volte l’immagine di persone tristi, stanche e inacidite, in crisi e senza alcun desiderio di superare questa situazione. È così che un buon numero di giovani, che sarebbero disposti a dedicare la loro vita al servizio dei propri fratelli, si orientano invece verso un volontariato temporaneo, scartando la prospettiva della vita consacrata e del ministero ordinato. Il futuro della vita religiosa e del sacerdozio dipenderà dalla nostra capacità di presentarci al popolo di Dio come autentici testimoni e come dei profeti di amore e di carità».