Il recente film di Moretti (Habemus papam) ha riproposto, tra i vari spunti
di riflessione, una tematica che oggi è particolarmente viva nella chiesa e nel
mondo: la responsabilità individuale di fronte a se stessi e alle proprie
scelte, dinanzi agli altri e a Dio, per il credente, alle sue e loro richieste.
L’approccio del film non va certo nel senso dell’assunzione della
responsabilità. Ed è chiaro segno della cultura in cui viviamo, come una
fotografia della realtà e di quanto vediamo spesso anche nei nostri ambienti, a
livelli molto più bassi e ordinari. Il papa del film di Moretti, così fragile e
pauroso da ritirarsi dal formidabile incarico, la dice lunga su quel clima di
ansietà che assale spesso anche i nostri giovani dinanzi alle richieste e sfide
della vita, e che a volte determina crisi e abbandoni. Come mai?
Giovinezza, età (sempre più) ambigua
Se un tempo la storia di ognuno era divisa in infanzia, età adulta e vecchiaia,
oggi assistiamo a un cambio antropologico: la vita consiste, più semplicemente,
in un’epoca sola, quella della giovinezza. Le altre fasi della vita hanno senso
solo come preparazione dell’esser giovane, o come il suo declino, triste e…
senza senso. Ma se la giovinezza, a sua volta, è stata di solito descritta, per
la sua dinamicità ed esuberanza, come lo stato desiderabile della vita, oggi –al
contrario- tali caratteristiche sono molto meno evidenti, al punto che la
giovinezza sembra ridotta a fanciullezza prolungata (che va a prolungare la
giovinezza stessa), con la caratteristica centrale d’essa, l’assenza di
responsabilità. E ciò che ne deriva: senso d’inadeguatezza generale, paura della
scelta definitiva, bassa stima di sé e calo del senso d’appartenenza,
ingratitudine, tendenza a evitare le difficoltà e imboscarsi di fronte ai
compiti impegnativi, narcisismo più o meno disperato, timore estremo della
sofferenza…
Poco giovani e tanto adolescenti
Se tutto questo è fenomeno globale e si manifesta in forme abbastanza evidenti
(vedi il “bamboccismo”, o quelle forme di “iperrappresentazione di sé”, come
Facebook o il “Grande Fratello” che son come una medicina omeopatica per questi
adolescenti perpetui o adultescenti), la cosa riguarda anche la gioventù dei
nostri ambienti, i nostri giovani religiosi, troppe volte così poco giovani e
così tanto adolescenti. Sembra ingeneroso usare un tono critico nei loro
confronti; ma non possiamo nemmeno continuare con la retorica dei giovani che
sono la speranza dei nostri istituti e sogno e garanzia di futuro. È necessario,
invece, esser molto realisti e assumere con loro un atteggiamento costruttivo,
anche se critico, per capire meglio loro e la responsabilità anche nostra, di
noi adulti e loro educatori. Senza dunque ignorare i segni di quest’ambivalenza:
crisi precoci seguite da abbandoni altrettanto veloci (a volte a pochi anni
dalla consacrazione definitiva), mancanza d’entusiasmo e creatività,
disinvoltura estrema nel rimettere in discussione la propria scelta, ingenuità
sentimentale (e idealizzazione del sesso), mediocrità e indifferenza, tendenza a
drammatizzare le difficoltà e incapacità di soffrire, smarrimento della
coscienza morale, dipendenza dai propri sentimenti, individualismo (il puer
aeternus), spiritualità che incide pochissimo nella vita e non rende liberi
d’accettare obbedienze difficili o incarichi non proprio graditi, fidandosi di
Dio… Infatti ci chiediamo: perché è diventato così difficile, nel bel mezzo di
situazioni critiche, parlare di Dio e dei valori spirituali essenziali ai nostri
giovani? E chieder loro un atteggiamento adulto e responsabile, coerente con le
scelte fatte un tempo?
Certo, riconosciamo che oggi, forse più di sempre, essi sono esposti a
situazioni complesse e impegni notevoli; ma è proprio tale sfida che svela in
loro un minor senso di responsabilità e libertà credente.
“Homo respons-abilis”
Ma cosa intendiamo quando parliamo di responsabilità? È virtù (solo) “umana”? E
noi siamo sicuri di saperla proporre in modo corretto? È almeno presente nei
nostri piani di formazione?
Mi pongo qui nella mia abituale prospettiva psicologica e spirituale assieme,
sottolineando alcuni aspetti che sembrano solo teorici.
Capace-di-risposta
Responsabilità significa alla lettera capacità di risposta. Dice la natura
singolare dell’uomo, voluto da Dio come suo interlocutore intelligente, libero
di prender posizione dinanzi a lui, non passivo fruitore della vita. L’uomo è un
essere responsoriale.
Ma questo sta a dire che l’uomo è solo risposta, esiste solo come risposta a una
proposta che lo precede, a Qualcuno che lo chiama, anzi a una volontà buona che
l’ha pensato così bello da preferirlo alla non esistenza, e che per lui ha
preparato una realtà da vivere. Responsabile dinanzi alla vita, insomma, come di
fronte a un dono ricevuto in modo totalmente gratuito e motivato solo
dall’amore: responsabile di questo amore che è all’origine della sua esistenza.
Ora quel dono è posto tra le sue mani: è un dono ricevuto, ma è sempre dono, non
può cambiare la sua natura e diventare possesso, qualcosa da tenere per sé.
Anzi, potrebbe diventare dono donato, ma dipende da lui, destinatario d’un
regalo incredibilmente bello e grande, destinatario che ora potrebbe divenire
donatore di quello stesso dono. Ne è responsabile.
Dignità umana
Ebbene, in quell’essere capacità-di-risposta è racchiuso il mistero della
grandezza dell’uomo, qualcosa che lo rende per puro dono simile a Dio, una
grandezza che si gioca tutta in questa relazione, tra il dono ricevuto e il dono
donato, ove l’uomo è oggetto e soggetto d’amore: il legame tra le due polarità è
appunto ciò che costituisce il senso di responsabilità come capacità di
risposta, e non d’una risposta qualsiasi. Persona responsabile è la persona che
ha anzitutto la libertà (e l’onestà) di riconoscere quanto ha ricevuto (come
uomo), al punto poi da sentirsi chiamato a condividere tale dono (come Dio). Più
forte è la gratitudine per il bene ricevuto, più generosa e gratuita sarà poi la
decisione di offrirsi in dono.
Come il Figlio
L’immagine più espressiva di tutto ciò è il Figlio che, sulla croce, dà al Padre
la risposta più grata al suo amore eterno e dona agli uomini con amore gratuito
la sua vita. E siamo al vertice del concetto di responsabilità cristiana.
Salvati da quel gesto, infatti, siamo ora resi capaci di ripeterlo nella nostra
vita, dando la stessa risposta, respons-abili della salvezza dell’umanità,
liberi dalla preoccupazione egoistica della propria individuale salvezza.
Mistero grande!
Sul piano educativo
Di qui alcune conseguenze sul piano educativo:
– Nulla come l’amore rende responsabili. Ecco perché alcuni preferiscono
piangere sul loro passato e non riconoscere il bene ricevuto, per non caricarsi
della responsabilità che nasce dall’amore. Si è responsabili perché si è amati e
dell’amore ricevuto. Se non scocca questa scintilla non si diventa mai adulti.
– Ma proprio così Dio ci ama, non tanto per gratificarci con la beata certezza
della sua benevolenza, ma per renderci capaci di amare alla maniera sua, divina,
ovvero mettendoci, per grazia, in grado di rispondere al suo amore con
altrettanto amore. Più di così Dio non avrebbe potuto amarci! La responsabilità
è grazia che si scopre nella contemplazione, ha radici mistiche.
– La persona responsabile è realista e coerente, e assieme umile e discreta. Non
fa l’eroe né la vittima, e nemmeno il volontarista che si sforza d’esser buono,
ma è il credente che scopre che il dono di sé è la cosa più logica che mai
potrebbe fare, ed è sempre poca cosa di fronte alla grandezza del dono ricevuto.
– Per questo chi è responsabile è anche attento alla vita, alla sua vita, impara
a esserle ob-audiens, ad avvertire i continui appelli che l’esistenza gli
rivolge: la vita parla, infatti, se c’è un cuore che ascolta. Un cuore
responsabile, cioè obbediente, in ogni istante, per una risposta che solo il
singolo potrà dare.
– E se la vita in certi momenti sembrerà chiedere molto o porre dinanzi a
situazioni difficili o domandare di farsi carico degli altri coi loro limiti,
anche allora la persona responsabile non perderà di vista la sua logica
stringente e lineare: egli sa che per quanto si donerà alla vita e agli altri
non pareggerà mai il conto con quel che ha ricevuto. E, d’altro lato, ricorderà
molto bene, per non presumere di sé, tutte le volte che gli altri si son fatti
carico di lui e dei suoi problemi. A partire dal gesto di Gesù in croce: è
proprio la salvezza da lui ricevuta che lo rende ora responsabile, capace di
farsi carico della salvezza altrui. Grazia e dramma al tempo stesso! Chi è
responsabile non solo ha buona e grata memoria, ma celebra in quel che fa la
memoria della Passione ed entra in quel dramma.
– E sempre in questa linea, la vita o la comunità o l’istituzione a volte potran
domandare qualcosa che sembra andare oltre le forze del singolo, come un
incarico di grande peso e responsabilità, o un compito che egli sente al di là
delle proprie capacità. Non sarà facile “rispondere” a questi appelli, ma anche
allora -fatto salvo il dovere di manifestare “responsabilmente” il proprio punto
di vista coi suoi dubbi e paure- chi è responsabile farà anzitutto memoria di
quella volontà buona delle origini, quella che dal nulla l’ha voluto esistente,
l’amore del Dio fedele, che l’ha reso capace di rispondere alla vita fidandosi
di Dio, e in Cristo e nella sua croce l’ha salvato da ogni egoismo
irresponsabile. Quella è la sua forza, non il calcolo meticoloso delle sue
competenze; quella è la sua garanzia e il criterio della sua scelta, non l’esito
rassicurante di quel calcolo. Per questo la persona responsabile s’affida ed è
affidabile (proprio come Gesù nella passione), in duplice direzione: primo
perché si fida di Dio, al punto di scommettere su di lui; secondo perché si fida
anche degli altri, di coloro che ora gli chiedono di ricoprire un certo incarico
o di accettare un certo peso, poiché chi vive in comunità si affida ai suoi
fratelli, si mette nelle loro mani al punto di anteporre la loro richiesta al
proprio giudizio. Ovvia la stretta connessione tra le due cose: egli si fida
così tanto di Dio che si fida anche degli altri. Per questo si può far conto su
di lui.
– Eppure, molto realisticamente, vi sono momenti nella vita in cui anche l’amore
dell’Eterno sembra offuscarsi e non farsi sentire come un tempo, specie quando
altri amori s’affacciano e pretendono porsi al centro della vita di chi pure s’è
consacrato per sempre all’amore eterno. In realtà è quello il momento della
consacrazione, poiché quello è il momento di assumerla con responsabilità.
Ancora nel vero senso del termine, come risposta a un altro, a un Altro che s’è
consegnato a me, e mi rimane fedele. Strano a dirsi, ma spesso nelle crisi
affettive il consacrato pensa solo a se stesso, al suo bisogno d’affetto, al
sogno d’una gratificazione tutta per sé e dunque irresponsabile… Senz’alcuna
considerazione di quell’Altro con cui pure aveva stabilito un patto d’amore e
che rimane fedele e innamorato per sempre. Laddove c’è questa dimenticanza non
vi può esser fedeltà, poiché la fedeltà del consacrato è tutta costruita sulla
fedeltà di Colui che per primo s’è donato a noi.
La nostra fedeltà, in tal senso, è espressione di responsabilità, piccola
risposta d’amore a quell’amore immenso che l’Eterno ha riversato nei nostri
cuori.
Torniamo al film. Il papa assalito dai dubbi non è aiutato nemmeno dal
trattamento psicoanalitico (pesantemente ridicolizzato nel film), e alla fine è
mostrato mentre vaga per Roma in incognito. È la resa. O la fuga da sé, e dagli
altri e da Dio. Moretti può raccontare, più o meno compiaciuto, le storie
(incompiute) che vuole; noi possiamo e dobbiamo raccontare con la nostra vita
solo la storia dell’amore dell’Eterno, il fedele per sempre. Al quale siamo
stati resi capaci, per grazia, di rispondere con tutta la nostra vita. Per la
salvezza di tutti.