Il 18 dicembre 1859, in una modestissima stanzetta di Torino don Bosco
(1815-1888) fondava la Società salesiana, che nello spazio di pochi decenni si
sarebbe diffusa in tutto il mondo e oggi è presente in 132 Paesi. Nel corso di
150 anni i 17 primi salesiani sarebbero diventati 60 mila educatori, i quali,
per tutta la vita o per un determinato periodo di tempo avrebbero cercato di
educare milioni di giovani raccolti o avvicinati in alcune migliaia di “case”. E
altrettanto sarebbe avvenuto per l’educazione delle ragazze con la fondazione
nel 1872 dell’istituto delle Figlie di Maria Ausiliatrice.
Quattordici mesi dopo, il 17 marzo 1861, con la proclamazione di Vittorio
Emanuele II primo re d'Italia da parte del parlamento unitario (eletto dai 170
mila voti validi, sui 419 mila aventi diritto) nasceva lo stato nazionale
italiano con 26 milioni di abitanti. L’Italia unita e la Società salesiana hanno
dunque (quasi) la stessa data di nascita e possono celebrare congiuntamente lo
stesso anniversario.
Il progetto di don Bosco
Don Bosco negli anni quaranta del secolo XIX, accortosi che le strutture
ecclesiastiche organizzate a Torino non reggevano più al confronto con gli
squilibri sociali e culturali dell’epoca, animato dalla tradizione caritativa
cattolica, aveva tentato un nuovo approccio per i giovani, per lo più sradicati
dal loro habitat naturale ed anche scarsamente considerati nei loro bisogni
dalla autorità di governo. Prima ancora di avere una sede stabile, il 13 marzo
1846, indicava alla massima autorità cittadina, Michele Benso di Cavour, padre
del più famoso Camillo, che con il suo oratorio domenicale intendeva insegnare
ai ragazzi semplicemente quattro “valori”: l’amore al lavoro, la frequenza dei
santi sacramenti, il rispetto ad ogni superiorità e la fuga dai cattivi
compagni. Nei decenni seguenti avrebbe espresso in estrema sintesi gli obiettivi
educativi della sua azione nella succitata formula: formare “onesti cittadini e
buoni cristiani”.
Il progetto fondamentale di don Bosco – così come quello universale di Pio IX –
era “religioso”: “salvare le anime”, espressione ovviamente da interpretare
secondo i paradigmi antropologici e teologici dell’epoca. Di fronte però ai
giovani concreti di cui ci si occupava poco o nulla, il suo cuore di prete,
pieno di sollecitudine per i loro bisogni quotidiani, “reagì” con interventi
nell'ambito sociale e persino politico. Divenne così un grande costruttore di
opere educative per i giovani, ai quali non tanto trasmettere la cittadinanza,
soprattutto se intesa nei termini attuali, quanto semplicemente educarli,
attraverso la scuola, la cultura, la catechesi e l’uso intelligente del tempo
libero, ad essere onesti e capaci lavoratori, disciplinati interpreti e
operatori del comune senso civico (secondo le circostanze storiche), cristiani
fedeli alla Chiesa e al papa.
Don Bosco, pur ostile al modo in cui veniva attuata l’unità d’Italia – senza e
contro la Chiesa – non ha mai messo in dubbio il carattere positivo dello stato
nazionale. Prete cattolico, fedelissimo alla Chiesa e al papato, fu però
assertore di una leale e fattiva collaborazione con le autorità del Paese. Nel
“vasto dramma spirituale” degli italiani, nel “caso di coscienza” dei cattolici
si adoperò a rimuovere gli ostacoli perché l'Italia sorgesse, nel segno della
pace religiosa, su basi condivise, richieste dalle circostanze e dai tempi.
Nello specifico problema dell’unità sperò e pregò che l’ineluttabilità del “moto
rivoluzionario” non travolgesse il secolare istituto del potere temporale;
nondimeno accolse con calma e senza sorpresa, seppur con dispiacere, la notizia
della avvenuta occupazione di Roma, il 20 settembre 1870. E a Pio IX che lo
interpellò sull’opportunità di lasciare per la seconda volta la città in segno
di protesta, con la speranza di un capovolgimento della situazione, avrebbe
risposto di rimanere al suo posto.
Un contributo allo sviluppo del Paese
Pur non lanciando proclami in favore della causa nazionale, don Bosco l’ha però
promossa con i fatti. Ha avuto l’intuizione, intellettuale ed emotiva, della
portata universale, teologica e sociale, del problema della gioventù
specialmente “abbandonata”. Sul piano operativo ha poi intuito la necessità di
interventi al riguardo su larga scala, nel mondo ecclesiastico e nella società
civile, come necessità primordiale per la vita della Chiesa e per la stessa
sopravvivenza dell'ordine sociale. Il suo modello educativo, pur sorto con
connotati che in parte lo contrapponevano ai fermenti politico-culturali del
tempo, si è però sviluppato trovando un proprio stretto rapporto con la società
civile e si è inserito operativamente nella vita dell’Italia nuova, soprattutto
in settori per i quali lo Stato liberale non aveva sufficienti risorse da
spendere e forse anche poco interesse.
In un simile contesto, i salesiani quale aiuto hanno dato alla crescita e allo
sviluppo del Paese? Quali “valori” hanno inteso trasmettere alle giovani
generazioni che si sono susseguite in questi 150 anni di pacifica convivenza?
Fino a che punto la loro passione per la formazione dei giovani, il loro ardore
apostolico, le loro proposte professionalizzanti, la loro disciplina e
creatività hanno saputo plasmare l’identità italiana dei giovani entrati in
contatto con loro? In altre parole, quale il contribuito a “fare gli italiani”
ha dato la tradizione educativa dei Salesiani?
I giovani italiani che dopo vari anni di studi preparatori e un anno di
formazione in noviziato hanno deciso di seguire il manipolo di giovani (con un
sacerdote) che nel 1859 avevano accettato di far parte della Società salesiana,
in 150 anni sono stati 17.000, oltre un quarto del numero complessivo dei membri
della congregazione salesiana. Ne risulta immediatamente la forte italianità
della Società salesiana nei confronti dei tanti altri Paesi che pure hanno dato
ad essa molto personale.
Ma anche al suo interno ha goduto di una forte impronta nazionale, dal momento
che ogni regione d’Italia ha dato i natali o a migliaia di salesiani (come il
Piemonte, la Lombardia, il Veneto e la Sicilia), o a centinaia come tutte le
altre regioni, tranne la Valle d’Aosta e l’Umbria fermatisi alla soglia del
centinaio. Salesiani, dunque, di tutta Italia che hanno vissuto per anni sotto
lo stesso tetto, sia nelle case di formazione che in quelle di educazione,
occupando indistintamente ruoli di autorità o di subalterni. Non è un caso che a
quattro rettori maggiori piemontesi ne siano succeduti di seguito uno veneto,
uno siciliano ed uno lombardo.
Neppure è da sottovalutare il fatto che la comunità salesiana era composta da
ecclesiastici (chierici e sacerdoti) e da laici, i cosiddetti “coadiutori”.
Questi ultimi hanno sempre costituito una minoranza, per quanto significativa
(fra il 17 e il 25%), ma la loro presenza ha rappresentato una esigenza
indispensabile per l’impegno in alcuni settori dell’opera salesiana, come la
formazione professionale, attività “tipica” ed originale di tale componente
laicale salesiana.
Anche l’alto numero degli abbandoni – che oltre due terzi del totale ha avuto
luogo nel periodo di prova che precede la professione perpetua – ha però
consentito a migliaia di giovani, di provenienza spesso molto popolare, di fare
anni di studio in noviziati, studentati filosofici e teologici e università,
accanto a compagni, professori ed educatori di diverse regioni del Paese.
In 150 anni 386 case salesiane
L’italianità della Società salesiana può essere colta pure nell’espansione su
tutto il territorio nazionale. Considerando per casa salesiana il plesso
edilizio-residenziale salesiano in una particolare località – che può una
singola “opera” o “attività” (un oratorio con 2-3 salesiani, un
collegio-convitto con decine di educatori, una scuola umanistica o professionale
con molti professori e istruttori, una parrocchia, un oratorio, un pensionato
universitario con personale limitato…) o da un insieme di molte di queste
“opere” o “attività” – in 150 anni sono state fondate 386 case, iniziando dal
primo oratorio-casa madre di Torino nel 1846. Ovviamente le richieste di
fondazioni salesiane, avanzate da autorità religiosi e civili, da istituzioni o
singoli cittadini, sono state varie migliaia e per gran parte delle volte non
sono state accettate “per mancanza di personale”. Salvo rarissimi casi di
ostilità ideologico-politica, la presenza salesiana, richiesta, fu poi sempre
bene accettata e apprezzata.
É impossibile conoscere il numero dei ragazzi che i salesiani in Italia hanno
educato nelle loro opere e hanno raggiunto con la loro azione. Se alla
fondazione del Regno d’Italia nel 1861, essi potevano essere circa 2.500, di cui
4/5 oratoriani di Torino, alla morte di don Bosco nel 1888 superavano già gli
8.500, di cui gli oratoriani erano però meno della metà (4.000), meno degli
studenti e degli artigiani complessivamente considerati (4.500). Alla vigilia
della grande guerra, sul numero complessivo dei 33.600 ragazzi gli oratoriani
ritornavano sopra la metà (18.500) ma gli studenti da soli superavano già gli
11.500. Alla vigilia poi della seconda guerra mondiale questi ultimi sfioravano
i 20.000, mentre gli oratoriani superavano i 30.000. I numeri degli studenti
hanno poi continuato a crescere, cosicché nel 1970 gli studenti si aggiravano
sui 27.000, numero che si è mantenuto costante fino ad oggi, mentre gli
oratoriani sono costantemente aumentati, passando dai quasi 50.000 mila nel 1970
ai 60.000 nel 2010. In continua crescita sono stati anche gli allievi delle
scuole professionali, che dalle poche decine della case madre di Torino-Valdocco
alla nascita dell’Italia unita, passarono ad oltre 1.200 nel 1888, a 1.600 nel
1915, raddoppiandosi nel 1940, arrivando ad oltre 8.700 nel 1970 e raggiungendo
il numero di 20.000 nel 2010, sia pure con diverse fisionomie di accoglienza.
Anche i parrocchiani si sono triplicati fra il 1888 ed il 1915 (15.000-60.000),
nuovamente triplicati nel 1940 (310.000), nel 1970 (960.000) e superano
attualmente il milione.
Le dimensioni del progetto educativo
L’identità italiana esisteva da secoli, prima ancora che assumesse il carattere
politico del Regno d’Italia nel 1861. Essa aveva da molto tempo un carattere
linguistico, religioso, letterario, artistico, paesaggistico che ne faceva un
“carattere nazionale”, per cui, come per altro è ormai noto lippis et tonsoribus
(ai miopi e ai barbieri, n.d.r.), il Risorgimento, con tutti i suoi pregi e i
suoi limiti, non ha creato una “nazione italiana”, che appunto esisteva già, ma
solo uno “Stato italiano unitario”.
Secondo questa prospettiva è allora estremamente interessante notare come
l’opera salesiana che nei suoi inizi (1846) don Bosco definiva “un semplice
catechismo” e che lungo i decenni si è venuta configurando in un’ampia gamma di
attività a seconda delle diverse condizioni ambientali (politiche, economiche,
sociali, culturali…) e delle necessità specifiche di ogni località, abbia sempre
operato sul fronte di alcune di tali espressioni proprie dell’italianità, quali,
ad esempio, la lingua, la storia, la cultura, le arti, l’accoglienza, la fede
cattolica.
Tali caratteristiche ridefiniscono esattamente le dimensioni del progetto
educativo di qualunque casa salesiana: un luogo dove con lo studio,
l’apprendimento di un lavoro, il gioco, l’amicizia ci si prepara alla vita, uno
spazio dove sono coltivati gli “interessi” giovanili concreti (sport, teatro,
cinema, canto, musica, socialità…), un’accoglienza incondizionata dei giovani
dove poter toccare con mano di essere “amati” per quello che si è e come si è,
un’esperienza di un modo di essere uomini e cristiani seri, spesso alternativo a
quello dominante, nella logica del Vangelo (onestà, solidarietà, libertà e
responsabilità, senso del mistero…). Non per nulla negli anni 1970 i salesiani
nelle Costituzioni hanno definito ogni loro opera, sul modello del primo
oratorio di don Bosco, “casa che accoglie, parrocchia che evangelizza, scuola
che avvia alla vita, cortile per incontrarsi tra amici e vivere in allegria”.
Ora l’area che qualifica i salesiani tanto nella Società civile che ecclesiale è
quella tipicamente giovanile ed educativa. Ed è in essa che si sono collocate la
maggior parte delle presenze salesiane in Italia (e nel mondo) sia in termini
quantitativi (numero delle opere), che in termini di modalità di servizio ai
giovani.
Oratori e centri giovanili
Anzitutto vanno considerati gli oratori e centri giovanili – quotidiani, serali
festivi – vale a dire quegli ambienti aperti a tutti i ragazzi e giovani, che
favoriscono l’incontro di giovani fra loro e con gli educatori, a tempo pieno o
parziale.
Inizialmente era uno spazio in cui si dava l’insegnamento della religione
accanto a momenti ricreativi ai giovani “poveri ed abbandonati” senza
parrocchia, aperto a tutti, ma preferibilmente agli emigranti dalle province
circostanti: un oratorio unico nel suo genere, nel quale si riflettevano le
situazioni e i problemi del momento. Si trattava di un’azione volta ad aiutare i
giovani a prevenire ed affrontare il pericolo della delinquenza, oppure a
liberarli e a farli riscattare dalla stessa delinquenza e dalle sue conseguenze.
Era un’alternativa pedagogica ai mezzi coercitivi del tempo, come la reclusione
o i lavori forzati, con i quali si credeva di poter correggere il comportamento
del giovane minacciandolo o mettendolo in condizione di non poter più nuocere
alla società, oppure facendogli espiare le colpe per i delitti commessi. La vita
oratoriana si accentuava nei giorni di festa con la pratica dei sacramenti e con
la messa.
Successivamente si trattò di andare alla ricerca e di sostenere il giovane nel
suo stesso ambiente di vita, nonché di offrirgli spazi sicuri, di apertura, di
protezione e di formazione integrale. L’espressione educativa tipica di tale
oratorio era l’educazione religiosa e morale del giovane di strada e la sua
formazione intellettuale e professionale, entrambi aspetti che divennero una
risorsa indispensabile per la sopravvivenza nell’ambiente urbano di Torino. Esso
era poi caratterizzato dall’accentuazione della vita pastorale festiva (la fede,
la chiesa), della ricreazione e del tempo libero attraverso il gioco, la gita,
la musica e il canto, il teatro… (arte, protagonismo pedagogico,
socializzazione), dal rapporto spontaneo ed informale fra educatori ed educandi
attraverso l’"amore" e lo "spirito di famiglia" (la casa), dalla scuola prima
domenicale e serale, poi diurna (la lingua e la cultura), dai laboratori di
formazione elementare e di base (il lavoro, la professione). L’oratorio divenne
così l’unico progetto del suo tempo con il quale si avanzava una proposta
educativa completa (umana e cristiana) accessibile per i giovani più bisognosi,
un movimento pastorale ed educativo di tutela e promozione degli ambienti
naturali della vita e di protezione dai maggiori rischi a cui sono esposti i
giovani.
La grande plasticità dell’oratorio – diventato poi oratorio-centro giovanile –
ha portato lungo i decenni ad una grande versatilità e a una grande diversità di
modi di organizzarlo. Sarà però sempre caratterizzato da esistenza di gruppi di
numerosi fanciulli e di giovani, per lo più bisognosi, con diverse
organizzazioni o attività proprie, da diverso grado di maturità umano-cristiana
e di impegno dei singoli e dei gruppi ed anche da gradualità del loro
inserimento nelle attività e vita dell’oratorio, da un insieme variegato di
attività sviluppatesi, tra l’altro, in un impiego formativo del tempo libero.
L’associazionismo giovanile salesiano (“Le compagnie”, il movimento giovanile
salesiano, i cine circoli giovanili salesiani, la polisportiva giovanile
salesiana…) e non (scout, volontariato… ) ha fatto la parte del leone.
L’oratorio si estende poi in un certo modo anche alle famiglie, si dirige anche
ad altri giovani che si trovavano fuori delle sue mura.
Formazione culturale e professionale
In secondo luogo i salesiani hanno mirato ad una valida formazione culturale e
professionale dei giovani italiani, creando ambienti di serio impegno. Sono
sorte così le centinaia di scuole, di ogni ordine e grado (dalle elementari agli
istituti universitari), in scala crescente per rispondere alle esigenze
dell’aumento dell’alfabetizzazione del Paese, della crescita del livello
culturale richiesto alle nuove generazioni, delle nuove culture emergenti, delle
richieste della globalizzazione. Fra i diversi tipi di scuola, la preferenza è
sempre stata data a quelle più adatte alla necessità dei giovani più indigenti,
vale a dire alle scuole di “arte e mestieri”, alle scuole professionali o
tecnico-professionali, in grado di immettere rapidamente nel mondo del lavoro e
dell’autosufficienza economica. Tali scuole, numerose, ricche di una propria
originaria tradizione, hanno talora orientato le legislazioni civili, tanto in
Italia che all’estero. Fra loro vanno anche annoverate quelle agricole, in tempi
di economia italiana prevalentemente agricola ed in aree a vocazione agricola.
La scuola salesiana è però da intendersi in vario modo: come formazione umana e
cristiana per aiutare gli allievi ad inserirsi un domani come cittadini attivi e
coscienti nella società e nella Chiesa; come trasmissione ai giovani allievi di
un forte senso del dovere e della disciplina; come insegnamento della lingua
italiana (a chi parlava solo il dialetto) e della cultura nazionale che, a loro
volta, trasmettendo il passato, potevano trasmettere una identità nazionale;
come socializzazione di valori tradizionali, ma anche incentivazione di
esperienze artistiche proprie del Paese (musica, canto, teatro…). Ecco perché i
salesiani hanno sempre preferito scuole a tempo pieno, che come tali permettono
la promozione di molte attività parascolastiche ed extrascolastiche atte a
completare la formazione dei giovani. Le pareti della scuola si devono dilatare,
quasi dissolvere, e la “scuola”, quella vera e formativa, deve continuare fuori
dell’aula, in un sereno clima di famiglia e di allegria, nel quale né vengono
annullati i ruoli diversi né viene compromessa una “ragionevole” disciplina.
Alla scuola salesiana, ma a tutte le attività salesiane, hanno sempre dato il
loro contributo i “Cooperatori salesiani” (attualmente “Salesiani cooperatori”),
gli exallievi e i laici formati al sistema preventivo di don Bosco ed oggi, in
tempi di crisi vocazionale, essi sono ancor più chiamati, ad assicurare in
collaborazione con i salesiani, una continuità e auspicabilmente anche un
ulteriore sviluppo delle loro opere.
In ambito scolastico, come non ricordare poi la tipografia di Valdocco che,
ancor vivente don Bosco, ha pubblicato libri, antologie di scrittori latini,
greci, italiani per la scuola, grammatiche, dizionari ? Come non ricordare la
centenaria storia della SEI di Torino che con migliaia di titoli ha diffuso in
tutte le scuole d’Italia, soprattutto dopo la “riforma Gentile” ma anche prima
(con migliaia di libri di varie centinaia di autori) l’eredità latina e
cristiana che costituiscono il patrimonio italiano per antonomasia? Se il Cuore
di De Amicis ha insegnato a generazioni di fanciulli italiani a sentirsi appunto
italiani (dell’epoca!), le migliaia di ragazzi passati in 150 anni per le scuole
salesiane, che hanno studiato sulle centinaia di volumi per la scuola e la
gioventù messi a disposizione dalle editrici salesiane, hanno potuto ricevere
formazione umanistica, tecnica, professionale, sociale, religiosa.
Sempre in un contesto scolastico vanno annoverate le forme di accoglienza
speciale, quali i collegi-convitti, orfanotrofi, pensionati (per studenti e
lavoratori), collocate in luoghi strategici, che venivano incontro ai bisogni di
molte famiglie obbligate a mandare i figli in lontani centri di studio e di
addestramento al lavoro, oppure che volevano una educazione cristiana più
intensa. Non si trattava solo di opere di beneficenza, ma di vera e propria
opera di riscatto, di promozione sociale degli strati più deboli e meno protetti
della popolazione. Le hanno frequentate giovani diventati poi valenti operai,
professionisti stimati, uomini della cultura, delle arti, delle scienze, della
politica, dello sport che difficilmente avrebbero potuto trovare il modo di
qualificarsi altrove. I famosi “collegi salesiani” hanno permesso una esperienza
profonda del metodo salesiano e hanno segnato la vita di quei ragazzi, facendo
di loro sovente degli affezionati exallievi.
Povertà giovanile ed educazione alla fede
Lungo il secolo e mezzo di vita l’area della povertà giovanile in Italia ha
assunto forme nuove e più gravi, per cui accanto alle opere tipiche
sopravvissute del passato – la scuola, l’oratorio, ma non più il
collegio-convitto dopo gli anni settanta – i salesiani hanno sviluppato altre
attività più specificatamente rivolte ai giovani in difficoltà e “a rischio” ma
sempre ispirate alla pedagogia preventiva: opere nuove, molto diversificate, che
si potrebbero definire di “promozione sociale” caratterizzate dal contatto vivo
ed immediato con giovani “border line” o “drop out”. Se negli anni cinquanta si
trattò praticamente di un’unica casa, quella di Arese (Milano) – assurta per
altro a “modello nazionale” di casa di rieducazione – dagli anni ottanta si
tratta di case-famiglia, di comunità-alloggio, di comunità di recupero
tossicodipendenti, di servizi residenziali, tanto diurni e preventivi quanto
residenziali, propri degli ultimi decenni. In questi ultimi anni si sta
affrontando anche il grave problema della assistenza ai giovani immigrati, a
quelli di seconda generazione che vivono il dramma di avere una propria identità
e di acquisirne un’altra.
Ovviamente in opere educative gestite soprattutto da salesiani non poteva certo
mancare un elemento decisamente caratterizzante non solo il loro carisma, ma la
storia del Paese Italia, vale a dire l’educazione alla fede, e alla fede
cattolica. Ed ecco allora tutte le case salesiane diventare una sorta di
parrocchia dei giovani, dove si è data un’attenzione tutta speciale alla loro
formazione religiosa, fatta di frequenza dei sacramenti, esercizi e ritiri
spirituali, partecipazione alle “Compagnie”, fuga dai “cattivi compagni”,
lettura della “buona stampa”, amore alla Chiesa e al papa. Fra gli allievi o
exallievi diventati fermento attivo nella società e nella Chiesa, alcuni hanno
raggiunto vette spirituali altissime, come l’allievo di Torino-Valdocco san
Domenico Savio, il discepolo spirituale di don Cojazzi, il torinese beato
Piergiorgio Frassati, l’ingegnere exallievo dell’oratorio di Rimini beato
Alberto Marvelli, il carabiniere di Napoli servo di Dio Salvo D’Acquisto, il
ferroviere, cooperatore di Milano, servo di Dio Attilio Giordani.
Il discorso vale logicamente per la pastorale dei salesiani nelle parrocchie,
nelle scuole statali come docenti di religione, negli ospedali e carceri come
cappellani, nella assistenza spirituale alle associazioni dei cooperatori, degli
exallievi, nelle missioni “ad gentes”. Andrebbe infine ricordato il notevole
supporto morale, economico, logistico, di personale, di protezione (ebrei,
partigiani, antifascisti e fascisti, CLNAI...) offerto dalle singole case
salesiane d’Italia in occasione delle emergenze nazionali (vari terremoti, due
guerre mondiali, Resistenza, immigrazione albanese di massa ecc). Rimandiamo al
volume citato alla prima nota.
Parrocchie popolari e comunicazione sociale
Nulla ha segnato più profondamente e definitivamente l’identità italiana come la
presenza della Chiesa, che ha incomparabilmente unificato la penisola per
secoli, rendendola unica rispetto ad altri paesi. Un cristianesimo ed un
cattolicesimo a vocazione decisamente popolare, fatto di fede, devozioni,
processioni, pellegrinaggi, generosità, religiosità vissuta che ha
effettivamente raggiunto gli strati più umili della società (anche se “per tanti
aspetti ripugnante ai cattolici liberali e a quelli evangelici aperti alla
modernità” ).
Dopo quella giovanile, una seconda area di impegni dei salesiani comprende opere
che possono considerarsi più immediatamente di carattere popolare, dirette anche
a fasce più ampie di giovani: parrocchie, santuari, chiese pubbliche e
semipubbliche, centri catechisti e pastorali, case di spiritualità e
numerosissime altre attività di carattere popolare e pastorale – sempre con
finalità di formare “onesti cittadini (italiani) e buoni cristiani” – che sono
difficilmente classificabili.
La precedenza è stata ovviamente data alle “parrocchie popolari”, solitamente di
periferia di città, che hanno offerto opportunità religiose per famiglie operaie
ricche di figli; ovvero alle “parrocchie giovanili” con apprendisti non
residenti, studenti universitari, militari, emigranti di altre regioni, ossia
giovani sradicati da ogni struttura familiare, civile e religiosa che in qualche
modo avrebbero potuto sostenere la loro fede.
La forma più adatta a raggiungere grandi masse di giovani e di popolazione è la
comunicazione sociale. Don Bosco, avendone precocemente intuito la portata, era
stato all’avanguardia in tale settore, allora limitato alla carta stampata. Ecco
allora tipografie all’avanguardia, ecco le biblioteche circolanti, ecco la serie
di riviste per giovani, per educatori o per catechisti, animatori di giovani,
docenti). Si affermano numerose editrici specializzate per gli universitari
(LAS), ma soprattutto per la gioventù e per l’educazione popolare (LDC, LES),
con produzione anche di filmine, audiovisivi, video cassette, CD, DVD, strumenti
tecnologici sempre cangianti per la scuola, gli oratori, le famiglie, il tempo
libero, il turismo giovanile, il volontariato, le vacanze…
Una italianità esportata all’estero
Se Mazzini aveva fondato la “Giovane Europa” nel 1834, se Gioberti aveva scritto
di “Europeismo” nel 1834, se Rosmini aveva parlato di “Società universale” nel
1843, se Cattaneo a sua volta di “Stati Uniti d’America” pensando all’Italia,
don Bosco, pur avendo vivissimo il senso della sua terra piemontese e del suo
essere italiano, da cattolico fu, potremmo dire, europeista, universalista e
mondialista ante litteram.
La sua opera non si è diffusa solo in Italia, ma a soli quindici anni della sua
origine, nel 1875, ha varcato le frontiere nazionali per radicarsi in Europa e
in America Meridionale. A mezzo secolo dalla fondazione aveva già raggiunto
quattro continenti, con oltre 30 Paesi e 4 mila confratelli. Grazie ai
missionari italiani, l’esperienza educativa piemontese-italiana – ivi compresa
la lingua italiana, le abitudini, le tradizioni, i costumi, le forme di vita e
di religiosità della penisola – si è trasferita con notevolissima fedeltà alle
origini in vari paesi nei quali il nome di salesiani equivalse per alcuni
decenni a quello di italiani, il nome di Società salesiana richiamava quello di
una istituzione prettamente italiana. All’epoca della “grande emigrazione”
migliaia di italiani all’estero, provenienti dai mille campanili dall’ombra
corta sparsi nel “bel paese”, ma privi della lingua, della storia, della
cultura, hanno scoperto la loro identità nazionale - e i loro discendenti ne
sono magari orgogliosi – anche grazie all’opera dei salesiani.
Un più forte sentimento di unità
Nei tempi difficili della “questione romana”, in quelli ostili delle violente
campagne anticlericali di inizio secolo XX, in quelli tragici delle due guerre
mondiali, all’epoca del totalitarismo fascista e in quella della sofferta
ricostruzione del secondo dopoguerra, nel momento felice del miracolo economico
e in quello problematico della contestazione giovanile, nella fase della
industrializzazione e in quella della globalizzazione, al tempo della
scolarizzazione di massa ed in quella della stasi e ora dell’attesa, i salesiani
non sono restati inattivi in attesa di tempi migliori. Nelle alterne vicende del
Paese, in tutte le temperie politiche che si sono susseguite nel corso dei 150
anni, con le risorse umane e finanziarie disponibili al momento, in dialogo con
le istituzioni o muovendosi in libertà continuarono umilmente e “salesianamente”
a “fare il bene che potevano e come potevano”, cercando cioè di trasmettere ai
giovani italiani lampi ed esperienze di morale (cattolica) e di civismo
(educazione, cultura, senso del dovere, responsabilità, convivenza pacifica,
solidarietà, rispetto dell’autorità e delle leggi, apertura agli altri popoli).
A fronte di una comunità nazionale storicamente sorta con forti incongruenze e
inclinata per storia e definizione a frantumarsi, i salesiani con la loro
straordinaria struttura di rete, così tipica dell’identità italiana, hanno per
150 anni affiancato e cercato di integrare giovani italiani diversi provenienti
dai 4 angoli della penisola, operando per accrescere il sentimento di unità di
destino tra le generazioni di un Paese sostanzialmente privo di cultura
patriottica, dal fragile tessuto connettivo e da forme di cittadinanza piuttosto
deboli.
Non solo. Le loro riuscite iniziative di concreta risposta ai bisogni della
comunità, sia in funzione di supplenza che di collaborazione e solidarietà con
lo Stato e con la Chiesa, hanno altresì innescato sia in istituzioni civili che
ecclesiastiche una dinamica favorevole ad una maggiore attenzione ai giovani,
alla loro educazione e formazione, alla loro socializzazione e promozione, ossia
al loro futuro e al futuro della società italiana.
Un’emergenza educativa sempre in atto
Rimane il fatto incontestabile del “successo” per lo meno numerico dell’opera
salesiana in Italia, grazie ad intuibili motivi sia di indole nazionale (assenza
dello Stato, gravi carenze sociali, emergenza educativo-culturale, incremento
demografico, urbanizzazione, nazionalizzazione delle masse, imperialismo,
necessità di religiosi come strumenti di ammortizzazione sociale e di gradita
moralizzazione, comunicazione di massa, globalizzazione, …) che interne alla
Società salesiana stessa (fascino di don Bosco, grande vitalità organizzativa,
diversificazione di attività e servizi, autosufficienza economica, libertà di
iniziativa, costante attenzione ai “segni del tempo” con opportunità e rischi
connessi, sguardo lungimirante, concretezza nell’individuare i percorsi
praticabili, sensibilità alle tendenze giovanili, impegno e sacrificio dei
Salesiani).
Anche se i tempi difficili in cui vive l’Italia, caratterizzati dal disincanto a
far leva sui sentimenti di appartenenza a una comunità nazionale, impongono toni
di attenta riflessione più che di una autocelebrazione, ci è sembrato giusto
fare memoria della visuale nazionale e sovranazionale dei salesiani di don
Bosco. In una stagione di emergenza educativa come l’attuale, uno sguardo sul
patrimonio morale rappresentato dalla centocinquantennale storia della Società
salesiana incoraggia a guardare oltre, ad intravedere possibili traguardi futuri
in prospettiva, moderna, di una cittadinanza magari nuova, fatta di autentica
compartecipazione e solidarietà, senza chiusure né all’interno né all’esterno.
Il fuoco della “carità operosa” acceso da don Bosco 150 anni fa e che ha
suscitato apprezzamenti un po’ ovunque nel mondo, ha bisogno di essere
costantemente alimentato perché non venga meno la sua forza vivificatrice.