La seconda assemblea speciale del sinodo dei vescovi per l’Africa, celebrata
dal 4 al 25 ottobre 2009, aveva come tema La Chiesa in Africa a servizio della
riconciliazione, della giustizia e della pace e si ispirava al versetto del
Vangelo di Matteo «Voi siete il sale della terra … Voi siete la luce del mondo »
(Mt 5, 13.14). La scelta di celebrare una seconda assemblea dedicata allo stesso
continente, a una quindicina d’anni dalla prima (10 aprile all’8 maggio 1994),
rispondeva all’esigenza, come ebbe a dichiarare il segretario generale del
sinodo, mons. Nikola Eterović presentando i Lineamenta, di «approfondire alcune
questioni di grande importanza ecclesiale, con spirito collegiale e in un clima
di comunione gerarchica. Tale richiesta era motivata da un grande dinamismo
della Chiesa cattolica in Africa, continente che ha conosciuto al contempo un
promettente sviluppo sociale, insieme a non pochi problemi antichi e nuovi che
esigono un’analisi e una presa di posizione dal punto di vista cristiano ed
ecclesiale».
Una delle domande poste nei Lineamenta chiedeva: «Quale può essere il contributo
delle persone consacrate, degli istituti religiosi, delle università cattoliche
sui temi della riconciliazione, della giustizia e della pace?».
Era una domanda da cui i religiosi si sono sentiti direttamente direttamente
interpellati e continuano a esserlo tuttora. Vivendo inseriti nelle realtà del
continente, in mezzo alla gente, con cui condividono le situazioni spesso
drammatiche, nessuno forse come loro può essere strumento altrettanto efficace
di riconciliazione e di pace. Il problema piuttosto consiste nel discernere come
esserlo, dentro realtà così diverse e complesse.
Una richiesta che viene dal sinodo
Fra i vari tentativi di risposta a questo interrogativo, particolarmente
interessante ci è parso l’articolo di p. Paul Ennin, SMA, pubblicato nel
bollettino Sedos dello scorso luglio-agosto, intitolato: La sfida profetica
della Chiesa africana”. Diakonia: Gli istituti missionari come strumenti di
riconciliazione . A chiedere ai religiosi di offrire la loro opera a servizio
della riconciliazione è stato il sinodo stesso. Nella proposizione 42, infatti,
si legge: «La Chiesa in modo particolare apprezza la testimonianza della vita
consacrata nella vita di preghiera e nella vita di comunità, nell’istruzione,
nella sanità, nella promozione umana e nel servizio pastorale. Il ruolo
profetico delle persone consacrate deve essere accentuato nel processo di
riconciliazione, giustizia e pace, e nel fatto che spesso essi sono molto vicini
alle vittime della oppressione, repressione, discriminazione, violenza e
sofferenze di ogni tipo».
Questa richiesta, commenta Paul Ennin, rende la testimonianza delle comunità
religiose e missionarie importante e urgente. Sono comunità costituite da
persone di diversa tradizione etnica, culturale e linguistica, fatte di persone
che lasciano la loro terra natale per venire a vivere assieme a individui di
altre culture. Abbracciamo una vasta gamma di differenze culturali ed etniche
nelle loro comunità e lavorano insieme a servizio del regno di Dio. Sono perciò
comunità in grado di offrire una chiara testimonianza profetica. La loro
presenza infatti proclama la verità del Vangelo che Dio non ha preferenze di
persone, ma che tutti sono suoi figli e che il nostro destino comune è di essere
una sola famiglia in lui. Pertanto il ruolo degli istituti internazionali
missionari, particolarmente quelli presenti in Africa, può essere definito
cruciale. Essi infatti possiedono un grande potenziale di bene e di
testimonianza di unità. Ma, sottolinea Paul Ennie, prima devono far fronte alle
loro tensioni interne. In effetti, come si dice, la carità comincia a casa
propria. Se vogliamo essere strumenti di riconciliazione nei conflitti, dobbiamo
credere che questa riconciliazione è possibile. E questa è una sfida che si pone
anche all’interno dei nostri istituti, sia sul piano personale sia in quello
comunitario. È un invito, sottolinea il padre, che necessariamente implica
l’impegno a far fronte, accogliere e sanare il dolore, le sofferenze, le
sfortune e gli squilibri all’interno degli istituti. Un impegno a riconciliare
le tensioni dentro le storie, i timori profondamente radicati, i pregiudizi, gli
eccessi di autorità, le gelosie, la competizione, il nazionalismo, i tribalismi
e il carrierismo, le menzogne, le ostilità e rivalità, i complessi, i
pettegolezzi e le calunnie e i comportamenti, apertamente o occultamente,
aggressivi.
Bisogna partire dal di dentro
Queste tensioni, per quanto sembrino dei paradossi, possono invece diventare
delle pietre miliari e delle autentiche testimonianze in grado di rafforzare i
vincoli fraterni. In una parola, sottolinea ancora p. Paul, questa è la ragione
per cui il nostro progetto di riconciliazione deve partire dal di dentro e il
primo ambito è il proprio intimo.
Se si comincia da se stessi allora sarà possibile esercitare un influsso anche
sul mondo esterno. Pertanto, se si vuol essere mediatori di riconciliazione, è
necessaria una spiritualità interior; una spiritualità di guarigione e di
riconciliazione che sottolinei il ruolo del Divino, nel senso che la
riconciliazione è anzitutto opera di Dio che inizia e completa la
riconciliazione nel nostro cuore mediante il suo spirito liberatore. Al cuore
della riconciliazione c’è la manifestazione dell’amore e della misericordia di
Dio.
Come possiamo vivere in comunità e in comunione tra di noi? Ciò è reso possibile
dall’amore e dal perdono del Signore. Il perdono apre a un incontro di
liberazione tra persone diverse, alla giustizia e alla fraternità che cerca la
riconciliazione al di sopra delle rivalse e del rifiuto.
La nostra spiritualità di riconciliazione, prosegue Paul Ennin, deve cercare di
assumere alcuni atteggiamenti di Gesù: la sua capacità di fermarsi, di insegnare
e di guarire (Lc 6,17) di superare le distanze tra sé e gli altri (Mc 10, 49),
l’accettazione delle persone nella loro specificità, la loro storia unica e
caratteristica, la disponibilità a impegnarsi in argomenti disagevoli, ad
abbandonare luoghi sicuri e tranquilli per andare a sfidare barriere sociali
“accettate”.
Lavorando per la riconciliazione, scrive ancora il padre, noi diventiamo
strumenti dell’amore di Dio poiché aiutiamo la gente a riconoscere i torti del
passato, ad accettare una responsabilità condivisa e a realizzare una mutua
comprensione di un futuro comune.
Un aspetto integrante del carisma
Ma in che modo la guarigione e la riconciliazione costituiscono parte integrale
della spiritualità e del carisma dei nostri istituti? La risposta sta in questo:
dobbiamo prima di tutto imparare a dialogare all’interno dei nostri istituti. È
perciò importante creare gli spazi necessari di discussione e di dialogo tra i
diversi gruppi. A questo scopo occorre un esercizio e una preparazione. Ma
l’esercizio del dialogo per essere efficace, deve tradursi in atti concreti, se
si vuole davvero giungere a una vera riconciliazione: gesti di scusa, di perdono
e una certa forma di giustizia pratica. Gli ingredienti essenziali a questo
riguardo sono il rispetto, l’apertura e la verità.
È necessaria anche una riflessione condivisa sugli avvenimenti che ci circondano
per aiutare i membri della comunità a impegnarsi in sani dibattiti sociali e
politici.
Ma la riconciliazione esige anche il rispetto della dignità dell’altro.
Bisogna inoltre superare quel modo deprimente con cui il continente africano è
descritto nei media e nei programmi di sviluppo che diffondono continuamente
stereotipi negativi degli africani quali vittime di infinite guerre e di
ricorrenti carestie, di un’Africa, cioè senza dignità che merita solo
compassione. C’è infatti anche un’Africa fatta di cose belle, ricca di valori
culturali, spirituali e umani. Il sinodo, nel suo messaggio finale scrive:
«l'Africa non è impotente. Il nostro destino è ancora nelle nostre mani. Tutto
ciò che essa chiede è lo spazio per respirare e per prosperare».
L’affermazione riguarda anche i nostri istituti. Gesù ha risposto alla
vulnerabilità degli altri con la solidarietà verso la sofferenza umana, con una
risposta compassionevole con il suo gesto di toccare, con le sue parole, la sua
vicinanza, la difesa dei senza voce e dei poveri. Gesù non ha mai denigrato le
persone, ma ha restituito ad esse dignità, integrità, forza, gioia. Noi siamo
chiamati a fare lo stesso.
Paul Ennin, si chiede per esempio: promuovono la dignità degli africani il modo
con cui presentiamo l’Africa nella nostra missione di animazione e nelle
attività per raccogliere aiuti, le foto che pubblichiamo nelle nostre riviste e
nei siti web, le storie che raccontiamo, i video che proiettiamo ecc.? I nostri
progetti missionari vanno oltre al gesto umanitario del tendere la mano per
giungere alla promozione umana?Generano una sindrome di dipendenza e di
paternalismo oppure aiutano a liberare coloro che ne beneficiano, a sollevarsi e
a alzarsi e prendere su la loro stuoia e camminare con dignità?
Un altro interrogativo riguarda il mondo con cui cerchiamo di formare i nostri
membri: li prepariamo cioè a una spiritualità e a una cultura di dialogo, di
rispetto, di perdono e riconciliazione? Quali settori possono essere migliorati?
Alcune cose necessarie
Mi sembra, osserva Paul Ennin, che se la Chiesa in Africa vuole essere “una
comunità di persone riconciliate” debba fare attenzione ad alcuni aspetti
importanti:
1. deve ri-evangelizzare, fra i vari atteggiamenti, soprattutto il modo di
intendere la leadership. Penso che il bisogno di una leadership intesa come
servizio costituisca la sfida più grande della Chiesa in Africa. Il padre
riferisce il caso di una suora che era preoccupata perché un paio di vescovi del
suo paese stavano deperendo in salute, nonostante fossero ancora relativamente
giovani. A suo parere, la ragione era questa: «perché esercitano troppo potere,
non delegano, accumulano troppa pressione su se stessi. Devono coinvolgere anche
noi nella guida della Chiesa».
2. Occorre rivedere il nostro approccio pedagogico. Si dice che Gesù insegnava
agli adulti e benediceva i bambini, mentre spesso la Chiesa insegna ai bambini e
benedice gli adulti. Il sinodo invece ha sottolineato l’importanza
dell’educazione e della formazione degli adulti.
3. La Chiesa deve andare oltre una “proclamazione” rivolta solo alla coscienza
individuale. Basta parlare e pubblicare documenti. È tempo di agire. La Chiesa
in Africa deve affrontare il peccato cumulativo del passato del continente che
continua a pesare sul suo popolo. Deve impegnarsi nella purificazione della
memoria collettiva, cercando di superare le tensioni, di ristabilire una
comunicazione efficace e armoniosa tra i diversi ambiti della comunità.
4. L’altro aspetto riguarda il modo di trattare i bambini e le donne. A volte,
scrive p. Paul, ho sentito commenti come questi: “Ma è una donna”, oppure,
“metterla a capo; ma è una donna”. Eppure queste sono le nostre sorelle, madri,
amiche, cugine, ecc. È una cosa che ferisce. Le donne costituiscono la spina
dorsale delle famiglie, delle comunità di fede. È tempo di promuovere una
“maggiore integrazione delle donne nelle strutture della Chiesa e nei processi
decisionali”.
Cosa possono fare i nostri istituti missionari? – si chiede p. Paul. Questa è la
sua risposta: devono ripensare il loro rapporto con la chiesa locale. Gli
istituti internazionali in particolare, a volte, si sentono stranieri e quindi
ritengono di non far parte della chiesa locale; pensano di essere venuti per
aiutare e quindi di andarsene anche se la maggior parte di essi ha un buon
numero di membri locali. Bisogna perciò esaminare il modo con cui ci si rapporta
alla gerarchia locale e alla comunità del luogo: è necessario far comprendere
che gli istituti missionari, siano essi locali o internazionali, partecipano
alla chiesa locale e fanno un tutt’uno con essa; che i loro sacerdoti formano un
solo presbiterio con il clero diocesano e il vescovo; i loro religiosi e
collaboratori laici, assieme a tutti i fratelli e le sorelle battezzati, formano
un’unica famiglia di Dio.
Un altra esigenza, secondo p. Paul, è la collaborazione intercongregazionale.
Sono ormai passati, i tempi, della rivalità e della competizione tra gli
istituti. Come scrive il decreto conciliare Ad gente, «È necessario che gli
istituti che attendono all'attività missionaria in uno stesso territorio trovino
la giusta maniera per coordinare le loro opere» (33).
C’è infine un altro aspetto importante per favorire la riconciliazione su cui il
sinodo per l’Africa ha attirato l’attenzione: è l’impegno a prendersi cura delle
élites e non solo degli ultimi e dei poveri. È indispensabile cioè formare
coloro che saranno i leaders di domani e occorre un maggiore coinvolgimento
della Chiesa ai livelli dove vengono prese le decisioni sul piano continentale,
regionale e negli organismi nazionali, e inoltre sul piano pastorale.
Gli istituti missionari, conclude p. Paul, si sono sempre volentieri occupati
dei deboli e dei poveri, ma la Chiesa deve avere a cuore anche le élites. Ciò
significa che i missionari dovranno compiere un ulteriore sacrificio per
adeguare l’ “opzione preferenziale dei poveri” all’esigenza di comprendere nella
loro attività anche le élites, abbracciando cioè insieme il povero Lazzaro e il
ricco Zaccheo.
Tutto questo senza dimenticare o trascurare l’importanza di un’azione alla base,
in mezzo ai gruppi e alle famiglie poiché è da qui che deve partire ogni
processo di riconciliazione.