A volte può sembrare una cosa ovvia, anzi per certi versi lo è: far bene il proprio lavoro è motivo di esempio e di testimonianza per gli altri e per se stessi, anche per un religioso o per una religiosa che ha come programma di vita uno stile di vita basato non tanto sul fare ma sul silenzio e l’umiltà. Qualche volta, però, alcuni soggetti possono assumere un carattere rigido e diventare motivo di disagio e di sofferenza, se rispondono a un’organizzazione di sé che è funzionale ai propri interessi egocentrici, a discapito degli interessi comuni che sono alla base del lavoro pastorale o della vita comunitaria.
Il recente documento dei vescovi italiani sull’impegno pastorale nel nuovo decennio mette in guardia dal rischio dell’individualismo e dell’autoreferenzialità a cui la società ma anche la Chiesa potrebbe assuefarsi. E ricorda come l’antitodo a tale visione riduttiva del senso della vita è proprio la vita fraterna e uno stile di comunione che lasci trasparire l’affezione a Cristo casto, povero e obbediente, «testimonianza fondamentale per tutte le altre forme di vita cristiana», nonché «meta ultima della storia di ogni persona, che anima ogni autentico processo educativo» .

Il trionfo dell’apparire

Il nostro Sé è spesso centro, punto di partenza e a volte anche di arrivo, di molta parte della nostra attività psichica e relazionale. Generalmente noi filtriamo una grande varietà di informazioni a cui siamo sottoposti nei rapporti interpersonali, a partire dall’interesse che esse hanno per noi, e le organizziamo intorno al nucleo del nostro Sé.
Di solito abbiamo una grande fiducia nel nostro modo di valutare, nelle nostre aspettative come pure nelle nostre impressioni. Questa attenzione a noi stessi, se da una parte ci aiuta ad attingere alle nostre risorse, dall’altra ci porta a “deformare” la realtà quando si traduce in un un’eccessiva attenzione ai nostri schemi di adattamento e alle nostre convinzioni, a discapito di un sano dialogo che tenga conto anche della realtà degli altri.
Ma perché a volte si tende a rimanere rigidamente fedeli a queste convinzioni, anche quando ci accorgiamo che sono disfunzionali? Beh, il motivo principale è che nei rapporti interpersonali tendiamo a proteggere quegli atteggiamenti e quegli schemi valutativi di cui siamo sicuri e a cui ci siamo talmente abituati, che per noi sono come delle mappe che orientano il nostro adattamento all’ambiente. Un religioso che per esempio è convinto di fare pastorale in un certo modo perché così si trova bene, continuerà a portare avanti il suo metodo anche a costo di scontrarsi con i suoi collaboratori. O una consorella che è abituata a tenere sotto controllo e con tanta precisione il suo servizio comunitario, insisterà nei suoi comportamenti e continuerà a valutare il mondo circostante sulla base degli standard di precisione che lei ha e da cui non riesce a separarsi.
Pertanto, nelle relazioni comunitarie tendiamo a prediligere quelle valutazioni e quei comportamenti che sappiamo sono sotto il nostro diretto o indiretto controllo, mentre tendiamo a ridimensionare gli eventi che lo sono in misura limitata. Questo controllo – che spesso si rivela illusorio quando è smentito dalla realtà – serve per affermare e proteggere il nostro valore e la nostra autostima. Molto spesso si sente dire: «con te non c’è proprio niente da fare, vuoi fare tutto di testa tua», oppure: «non riesci proprio a capirmi?»; si tratta di espressioni unilaterali, che nascondono l’attaccamento al proprio giudizio, alla propria visione delle cose, e non sempre corrispondono alla realtà dell’altro, alla sua diversità. Eppure, pur di far coincidere i fatti con il nucleo di convinzioni personali da cui non ci si vuole distaccare, si è pronti a ritenere la propria posizione come quella “giusta”, e a considerare noi stessi come… i migliori.

“Per me non esistono mezze misure”

A volte questa tenacia a restare fedeli al proprio punto di vista è dovuta anche a motivi contingenti: il troppo lavoro in comunità, le esigenze della pastorale, le nuove emergenze sociali, l’urgenza di alcuni progetti (per esempio l’urgenza vocazionale)… sono tutti ambiti che possono spingere a “concentrare attività e servizi” sulle forze e sulle risorse disponibili, anche a costo di sacrificare aree importanti della propria vita psichica e a volte anche della vita spirituale. Quando però si tende a essere al di sopra delle proprie reali aspettative, o se ci sono troppi ambiti dove voler soddisfare delle pretese molto alte, uno stile individualistico a senso unico potrebbe creare alla persona qualche problema.
Soprattutto se si tratta di un tratto dominante del proprio carattere, che pervade più o meno tutta l’esistenza della persona. Affermazioni tipiche sono, ad esempio: «è più forte di me, devo dimostrare di riuscire al meglio in tutto quello che faccio»; «cerco sempre e comunque di dare il meglio di me, oltre le mie reali possibilità».
La tendenza perfezionistica è un rischio anche per la salute mentale, quando la persona arriva ad aver paura di non riuscire a realizzare gli scopi che si è prefissata. Si parla allora di perfezionismo disfunzionale, perché il soggetto deve fare il massimo sforzo per avere successo ed evitare il senso di fallimento rispetto alle mete ambiziose che si è posto .
Apparentemente queste dinamiche psichiche sembrerebbero estranee a chi ha scelto come stile di vita l’adesione a Gesù, «modello in cui ogni virtù raggiunge la perfezione» . Eppure non è così. Quando i religiosi si affannano a portare avanti tante cose e poi si accorgono di non riuscire in tutto, anche loro corrono il rischio di lasciarsi prendere dalla sensazione di “aver fallito”. Ciò ha delle conseguenze negative sulla propria autostima e sul senso di sé, perché viene meno l’aspettativa di essere comunque capaci di padroneggiare con le proprie forze ogni situazione, anche a costo di… non farcela più.
Viste dall’esterno, queste paure appaiono spesso del tutto infondate. Alla base di tale atteggiamento, però, c’è la tendenza a percepirsi secondo categorie estreme del “tutto o niente”, che porta la persona a irrigidirsi nei propri giudizi e nel proprio punto di vista, senza tener conto degli altri e della realtà. Diceva un sacerdote: «io non ho mezze misure, per me il lavoro deve essere fatto bene e basta! Altrimenti è meglio non farlo». Peccato che queste sue pretese diventavano motivo di tensione con i suoi collaboratori, ma anche motivo di insicurezza e di stress per lui, perché a causa dei suoi scatti di ira e del suo nervosismo, la maggior parte dei suoi cooperatori si erano allontanati e lui era costretto a fare tutto da solo.
In effetti, il dramma dei perfezionisti è che per loro non esiste una via di mezzo, né possono accontentarsi di quanto già fanno. Difficilmente diranno: «ce l’ho quasi fatta», oppure «sì, è vero, non ho finito del tutto, ma almeno quello che ho realizzato è ben fatto». Perché se facessero così dovrebbero accettare di essere limitati e fallibili, e un perfezionista non può accettare questo. Così come non può accettare che ci siano anche gli altri a cui prestare attenzione e a cui dare valore.
Infatti, chi valuta se stesso sulla base del suo standard di perfezione, oltre a mettere il suo Io sotto costante pressione, sente forte il peso delle pretese degli altri della comunità. «Se non faccio le cose come devono essere fatte, ho la sensazione che gli altri mi rifiutano», diceva un confratello che soffriva del suo perfezionismo ad oltranza, ma che continuava a pretendere il massimo da se stesso.

Perfezionismo e nevrosi comunitaria

Alcune condizioni comunitarie enfatizzano questo modo di fare unilaterale, soprattutto in chi è troppo meticoloso e ha una struttura di personalità particolarmente assillante, attenta e esigente, che a lungo andare diventa soffocante non solo per la propria stima personale ma anche per le relazioni con gli altri.
Prendiamo l’esempio di una suora ben abituata ad essere “sempre disponibile” alle diverse necessità della sua comunità, sempre precisa e onnipresente. Nulla di male in tutto questo. Anzi, esteriormente il suo potrebbe essere un atteggiamento lodevole, proprio come si addice a una buona religiosa. Se non fosse per il fatto che alla fine di ogni sua “buona azione” avverte un senso di frustrazione e di disagio che a volte manifesta in accuse mascherate nei confronti delle sue consorelle. Commentando il loro comportamento, la religiosa lodevole dice spesso: «a volte le suore pretendono che io sia perfetta». E poi aggiunge: «ma in fondo sono soddisfatta quando posso accontentarle. Anche se so che non saranno mai capaci di apprezzare quello che faccio!». La coscienza estremamente sensibile di questa persona e la sua generosità verso le consorelle della comunità si coniugano male con la rigidità e la durezza che a volte manifesta all’esterno o verso se stessa. Se da una parte con il suo buonismo controlla tutto nell’ambiente comunitario, dall’altra controlla anche se stessa per esigere il massimo dai suoi comportamenti, manifestandosi sempre come “la migliore”, nella speranza che le altre la possano finalmente apprezzare, comprendere e giustificare .
A lungo andare, però, uno stile intransigente e perfezionista può diventare soffocante per il resto del gruppo, con conseguenti tensioni nascoste che progressivamente si trasformano in veri conflitti interpersonali e in accuse reciproche meno velate e più sferzanti.
La cosa interessante è che esteriormente sembra che tutto funzioni, soprattutto perché la persona perfezionista continua a perseverare nel suo stile meticoloso e ripetitivo, distribuendo comportanti che all’apparenza sembrano intrisi di precisione e di cortesia, ma che sottendono messaggi di soffuso disagio quando non tengono conto che «solo l’incontro con il ‘tu’ e con il ‘noi’ apre l’‘io’ a se stesso» .

Riconoscere i doni nel proprio carattere

Le caratteristiche di ciascun individuo comportano assunti sulla vita e sul mondo che sono intrinsecamente adattivi e che hanno pur sempre un elemento di verità nel modo di rappresentare ciò che è reale per sé e per gli altri. Dalle convinzioni di base che le persone hanno derivano i loro modelli di pensiero, vissuti emotivi e comportamenti compatibili con la propria visione del mondo. Per esempio un confratello ordinato e disciplinato, che arriva a supporre di essere più capace e disinvolto degli altri nei compiti che richiedono meticolosità e attenzione accurata al dettaglio, può ovviamente convalidare questa convinzione enfatizzando i suoi attributi positivi e le carenze altrui. Il fatto, quindi, che le persone hanno qualche attributo positivo e che gli altri ne hanno meno è in qualche modo vero di qualunque essere umano, ma è esasperato solo da quelli che considerano il loro stile l’unico adottabile, assicurandosi così il controllo dell’ambiente relazionale.
Perciò ogni stile di personalità comporta vantaggi e svantaggi. Infatti, gli stessi tratti di carattere che per esempio possono aiutare in un determinato campo, potrebbero essere di peso in un altro contesto, soprattutto se si tratta di comportamenti rigidi e altamente stereotipati.
Perciò, la persona deve imparare a riconoscere i pregi e i difetti del proprio stile di personalità, a seconda dei diversi contesti in cui si trova ad operare, così come deve saper riconoscere quando alcuni aspetti del suo carattere possono diventare motivo di difficoltà, perché solo così potrà rivolgere la propria attenzione agli obiettivi comuni che esigono risposte coerenti con la propria vocazione, rinunciando agli aspetti disadattavi di sé.
Questo richiede che i religiosi si riapproprino del loro ruolo educativo e riconoscano che «sempre è possibile migliorare e camminare assieme verso la comunità che sa vivere il perdono e l'amore» , poiché a ciascuno è dato di valorizzare i propri talenti per contribuire alla comune meta della santità.