Che cosa fare perché questa forma evangelica di “nicchia” non finisca in qualche nicchia della storia, stante il fatto – diceva Tillard già quarant’ anni fa – che oggi «le personalità più forti o quelle più avide di un dono radicale al Signore le passano accanto sfiorandola? C’è «l'urgenza di porre mano decisamente alle fondamenta – dice p. T. Radcliffe – vale a dire al sistema culturale che l'ha finora caratterizzata aprendosi a nuovi orizzonti di senso» per non portarsi ad offrire di sé un'immagine etico virtuosa sostanzialmente individuale, incapace di catturare l'interesse e la passione delle giovani generazioni.

Esodo verso nuove terre promesse

Il modello attraverso cui la VR oggi è maggiormente conosciuta è quello degli ospedali, delle scuole e delle altre innumerevoli attività: tutte “opere” in cui si coltiva anche una attenzione al fatto religioso senza che questo diventi espressivo di identità. E così ci si trova oggi con attività asservite alle tecniche aziendali, in cui come in ogni altra organizzazione sociale, l’autoaffermazione dell’Istituzione da mezzo diviene fine. In una società come l’attuale non ci si può irrigidire nel conservare modelli strutturali che non possono essere più gestiti, se non sacrificando, in un equilibrio ambiguo e pericoloso, la verità della VR a vantaggio della sopravvivenza. Abbiamo investito sull’«utilitaristico» e su questo si continua ad indugiare, preferendo dare risposte che rassicurino l’istituzione piuttosto che stare sulle domande di senso, schiavi del credere che per vivere il presente, gli appelli migliori siano quelli che provengono dal passato. È finita se ci si accontenta di gestire l’esistente anziché il possibile per il quale il tempo vitale parte soltanto dal futuro.
È tempo di presa d’atto di ciò che ora, ma non da adesso, nella VR non tiene più e che lo sviluppo di possibilità ormai sta in alcune scelte piuttosto che in altre. La scelta del Concilio (cost. L.G.), è stata quella di porsi nell’orizzonte della «contemporaneità», dicendo in tal modo che Dio è fedele alla storia e ne accetta il divenire (F.Mosconi), oggi diventato elemento costitutivo del farsi della realtà, con la conseguenza che ogni obiettivo ha significatività se accetta da subito di essere perennemente evolutivo. Questo concetto lo si trova anche nelle parole del papa: «La vita carismatica della Chiesa, invece di esaurirsi deve trovare costantemente nuove forme» (5.10.1994), capaci di ridisegnare continuamente i propri ambiti e i propri fini. Se prima, la VR, si trovava bene a celebrare la storia attualmente deve trovare forme che celebrino, trasparentemente e coraggiosamente la “vita”. L’incapacità della VR di fare questo, il biblista B.Maggioni la chiama «durezza di cuore, cioè l’incapacità di cogliere gioiosamente il nuovo di Dio. In pratica questa sclerosi del cuore – che la Bibbia scopre non solo nei singoli individui ma anche nei gruppi e nelle istituzioni – è propria di chi rimane chiuso nelle proprie abitudini, di chi dà la precedenza agli schemi (religiosi, sociali, ecc.) anziché ai fatti che accadono e interpellano. Il ritardo nella lettura dei segni dei tempi non è mai – per la Bibbia – soltanto un fatto di intelligenza, ma è anche sempre un fatto morale, una carenza di libertà interiore» .

Da un sistema bloccato a un sistema aperto

Un sistema si mantiene in vita o con la forza del “kerigma” (annuncio vitale e incuriosente) o della “norma”. Il primo sistema si configura aperto, il secondo chiuso. Oggi diversamente dal passato, il futuro è per sistemi aperti e non chiusi, movimentisti più che istituzionali. Il sistema chiuso ha un programma prestabilito, da eseguire che, negli anni con l’intento di consegnare l’idea al futuro, si consolida in comportamenti, fissati in «regole», sempre più universali tendenti a evolversi, in linea generale, all’interno delle convinzioni e tradizioni acquisite. In questo sistema, a forza di conformità si perde la capacità di pensare in modo alternativo, da qui il pericolo per i religiosi/e – scrive E. Ronchi – di essere riconosciuti come esecutori di ordini piuttosto che inventori di strade, irrigidendosi nel ritualismo, anticamera del declino. Il sistema aperto invece – finché tale rimane – vive sulle frontiere del possibile con uno sguardo profondo su ciò che succede, sospinto, e non al riparo dai grandi “venti” della storia. Per questo si chiama “cammino” e non “status”. I due sistemi sono diversi anche nel modo di esprimere, al loro interno, il servizio di autorità. Nel sistema chiuso, chi presiede ha una funzione simile a quella del notaio la cui attenzione è sul normato, custode di un sistema organizzativo-ideologico che nella diversità vede solo il segno di peggioramento. Non sa cogliere l’inedito, firma la concordanza formale senza chiedersi quanto sia vitale. Da qui il deficit di profezia della vita religiosa, quantomeno per averla fatta consistere nella “santa osservanza”, piuttosto che nel saper cogliere l’elemento inaugurale di nuove possibilità. Altra cosa è essere custodi del Vangelo che proietta verso il non ancora, che apre a consapevolezze nuove, all’avvenire. Oggi servono interpreti della fantasia di Dio come lo furono i fondatori, veglianti in libertà sulle strade attraverso cui il futuro si introduce nella storia. Sulle orme di questi, la VR è chiamata a «proteggere la propria libertà di nomadi, di tende facili da arrotolare e trasportare altrove» (ib.)

Da un sistema monastico-clericale a quella della laicità.

La Vita Religiosa è nata laica, vale a dire, attenta non soltanto al suono delle campane, ma anche ai suoni delle piazze, delle case, degli ambienti di lavoro, con la capacità di vivere la trascendenza senza separarsi dal grido e dal gemito che gli altri fanno udire. Con il termine “laicità” si indica il riconoscimento del valore delle realtà terrestri legato alla presa di coscienza che a fianco della rivelazione della Parola vi è una rivelazione che proviene dalle cose, dall’uomo, dai fatti; da qui il dover tener conto, nella presentazione della verità evangelica, di tutta la complessità dell’umano, tanto del cuore come della ragione. In quanto laici, evangelizzare non significa essere “dispensatori”, perché proprietari, dello Spirito ma saper aiutare a far emergere l’impronta di Dio che è in ogni creatura. Allora per evangelizzare bisogna stare, come s. Paolo, dalla parte del’evangelizzato. La vita religiosa «saprà far emergere la parte più autentica che è in lei, quando rinuncerà a marcare la separazione e le differenze per assumere stili che uniscano le persone al fine di poter condividere gli stessi sogni e le stesse seti. Dobbiamo quindi riscoprire per la nostra vita umana e religiosa la via maestra di essere fratello con i fratelli, cercatore con chi cerca piuttosto di gente che dica «io ho trovato».

La scelta della “compagnia” o della “supplenza”?

Finora il più delle energie le abbiamo spese nella supplenza, con l’occupazione degli spazi sociali, cosa possibile nel passato quando questi erano pochi e molti i religiosi/e. Oggi ci accorgiamo di avere tante strutture e poca capacità di testimonianza; strutture che annunciano il Vangelo ma non si lasciano evangelizzare: il rischio è forte. La scelta della “compagnia” consiste nel fare spazio a scelte apostoliche dove l’incontro, prima o al di là del bisogno cui rispondere con un servizio, avvenga con il “volto” delle persone, affinché le opere non siano “faccende” ma gesti di amore che rispondono alla ricerca e all’inquietudine che accompagnano la vita. Mentre la supplenza pensa all’ “etica della cura” traducendola in “servizi”, la “compagnia” invece pensa all’etica del “prendersi cura”, cioè all’ “avere cuore” espresso nei «gesti che toccano, gesti di ascolto e di pazienza, di servizio e di dono, gesti di pace e di giustizia, gesti come quelli di Gesù, che non vediamo mai progettare “opere” ma lo vediamo fermarsi, ascoltare, toccare occhi, labbra, orecchie, spezzare il pane, entrare nelle case, sedere a mensa, posare una carezza sul fondo dell'anima e parlare delle cose d'amore come nessuno prima aveva saputo fare»(Ib.).

Un nuovo modello proposto dal papa

La proposta di un nuovo modello parte da un grande atto di coraggio di Benedetto XVI° che nell’enciclica Deus caritas est ha osato proporre a tutti (Chiesa e società) il principio della “gratuità” e la logica del “dono”. Gratuità – dice il papa alle congregazioni – sta nel trovare spazi di servizio gratuito, giacché «la gratuità è la migliore testimonianza del Dio nel quale crediamo e dal quale siamo spinti ad amare» (31 c). Gratuità dice uno slancio di aiuto sottratto al dominio dei soldi, che incrocia la sofferenza altrui perché qualcosa scatta nel cuore. C’è gratuità quando si è spinti a una data azione mossi dai valori che sono dentro all’azione stessa per cui la ricompensa è già nell’ agire, non subordinata alla risposta dell’altro. È la scelta di un modo d’essere e di operare in cui la vita diventa trasparentemente dono con i segni dell’annuncio messianico: “guarite gli infermi … gratuitamente avete ricevuto, gratuitamente date” (Mt 10,8). Il papa addita le opere che nascono dai religiosi come esempi in cui è possibile mettere insieme mercato e gratuità (CV 37). Operando così è possibile trovare gente che sia invogliata ad affiancarsi a noi come condividenti piuttosto che come dipendenti, o clienti, o concorrenti. Senza “condividenti” non avverrà il tanto auspicato e ormai indifferibile trasferimento del carisma a coloro che ne saranno i continuatori.

Per la VR è tempo allora di una ineluttabile purificazione come tramonto di ciò che non serve più, ma anzi ostacola la crescita. Essa rimarrà viva solo se saprà non farsi paralizzare da una identità predefinita, che non è vera identità perché questa è l’esito di un processo che non finisce. Le nuove esperienze evangeliche vengono a dirci proprio questo: l’identità non è quella giuridica ma quella della vita.