Com’è noto, nel definire l’attuale stagione del cammino di unità tra le chiese lo slogan più ricorrente è oggi quello di inverno ecumenico. Quello, evidentemente, che è seguito alla stagione primaverile delle speranze, qualche decennio fa, soprattutto dopo e alla luce della conciliare Unitatis redintegratio. Se la definizione non è priva di buone ragioni, è altrettanto vero che troppo spesso, per valutare il cammino dell’ecumenismo, tendiamo a circoscrivere lo sguardo alle relazioni teologico-diplomatiche tra i vertici delle chiese; mentre, immettendoci invece nella vita delle comunità e dei cristiani di denominazione diversa che quotidianamente fanno esperienza di vivere e testimoniare la loro fede gli uni accanto agli altri, le temperature salgono rapidamente, ed è ancora possibile ritrovare il gusto profondo della fraternità ecumenica, il calore dell’amicizia e l’entusiasmo per un cammino comune. In questa chiave occorre salutare con soddisfazione, da parte di tutte le chiese, il fatto che Kingston, capitale della Giamaica, si appresti a ospitare, dal 17 al 25 maggio prossimi, un evento ecumenico internazionale che ha innanzitutto il sapore dell’incontro fraterno di un popolo. Si tratta di una nuova Convocazione Ecumenica Internazionale indetta dal Consiglio Ecumenico delle Chiese (CEC) e intitolata “Gloria a Dio e Pace sulla terra”. La Convocazione è la seconda nella storia del movimento ecumenico moderno dopo quella di Seul del 1991, e sarà incentrata interamente sull’impegno per la pace. Da ricordare che questo organismo, che ha sede a Ginevra, riunisce ben 349 chiese non cattoliche in 110 paesi del mondo (per un totale di circa 560 milioni tra ortodossi, anglicani, battisti, luterani, metodisti e riformati).

Urgente lavorare insieme

L’idea della Convocazione sorse durante l’ultima Assemblea Generale del CEC, svoltasi nel 2006 in Brasile, a Porto Alegre. Nell’occasione, dalla riflessione dei delegati emersero varie e rilevanti sottolineature sul ruolo futuro del movimento ecumenico. In primo luogo la lettura del drammatico contesto sociale e politico internazionale d’inizio millennio, ferito dal terrorismo globale, dalle (cosiddette) guerre preventive, da fortissime ingiustizie economico-finanziarie e dalla crisi dell’ecosistema imponeva un approfondimento sostanziale del vangelo della pace e un rilancio dei contenuti del processo conciliare su Pace, giustizia e salvaguardia del creato. In secondo luogo, si coglieva come l’intuizione di dedicare i primi dieci anni del nuovo millennio al progetto Decennio per superare la violenza (Decade to Overcoming Violence – DOV), lanciato a Berlino nel 2001, stesse dando frutti interessanti: un primo bilancio delle iniziative per la pace messe in campo a livello mondiale nell’ambito di tale iniziativa mostrava infatti come le testimonianze di comunità cristiane capaci di profezia e riconciliazione fossero assai più diffuse e ramificate di quanto si potesse immaginare. Il DOV – che nasceva da una riflessione a partire dai gravi conflitti che avevano segnato gli anni Novanta, dai Balcani al Ruanda, dallo Sri Lanka al Medio Oriente - chiamava le chiese a lavorare insieme per la pace, la giustizia e la salvaguardia del creato a tutti i livelli (locale, regionale, globale) e ad accogliere e far propri tutti gli approcci alla costruzione della pace che sono in sintonia con lo spirito del vangelo; a interagire e collaborare con le comunità locali, gli attori della società civile, le persone di altre fedi, così da prevenire la violenza e promuovere una cultura della pace; a camminare insieme alle persone che sono sistematicamente oppresse dalla violenza; e, infine, a pentirsi per le loro complicità nelle dinamiche di violenza e sviluppare una riflessione teologica per superare lo spirito, le logiche e la pratica della violenza.
Sulla scia di queste considerazioni, a Porto Alegre si valutò quindi di rilanciare ulteriormente il percorso del DOV con il suo ricco patrimonio di reti, esperienze e riflessioni e, proprio per la gravità del momento storico, si decise di rendere ancora più sistematico ed efficace il lavoro avviato, facendolo convergere su una grande iniziativa per la chiusura, nel 2011, del Decennio stesso: una Convocazione Ecumenica Internazionale per la Pace, appunto. La scelta di Kingston rispetto ad altri siti più centrali sul piano geopolitico fu fatta considerando l’isola caraibica uno dei paesi a più alto tasso di violenza, in cui fosse anche presente un Consiglio delle Chiese nazionale disponibile ad accogliere un’iniziativa di questo tipo. Oltre a indicare quanto la Terza chiesa descritta da Philip Jenkins, vale a dire l’insieme delle chiese del Sud del pianeta - numericamente sempre più rilevanti nel mappamondo dei cristiani - sia in prima linea su questo tipo di frontiera.

Due le piste di lavoro centrali

Da Porto Alegre il cammino del DOV è ripartito quindi più potenziato e, anno dopo anno, si è trasformato automaticamente nel Processo preparatorio per la Convocazione di quest’anno. Due le piste di lavoro centrali. In primis, la moltiplicazione della conoscenza di esperienze ecumeniche dal basso di chiese e comunità impegnate in prima linea, nel cuore di situazioni di conflitto, in processi di riconciliazione sociale e di nonviolenza attiva. In particolare, è nata l’idea di organizzare piccole delegazioni di tali chiese, definite Living Letters, Lettere viventi, disponibili a viaggiare nel mondo incontrando e fecondando altre chiese attraverso il racconto dei conflitti e della pace possibile. Dal 2006 sono partite ventiquattro Lettere viventi da altrettanti paesi cruciali (fra gli altri Palestina, Colombia, Myanmar, Sierra Leone, Haiti…) che hanno portato in giro la loro esperienza generando un network di amicizia, solidarietà e speranza. In seconda battuta, si puntava a uno stimolo per una riflessione biblico – teologica, al fine di approfondire le radici dell’impegno per la pace e per la scelta nonviolenta. Anche in questo caso, dal 2006 sono state organizzate numerose consultazioni di esperti e convegni di studio mirati soprattutto a ripensare le teologie che hanno condotto alla giustificazione delle guerre, alla benedizione degli eserciti, alla difesa dei nazionalismi. “Di fronte alla violenza le lacrime non bastano – spiega al riguardo il teologo evangelico brasiliano Fernando Enns, moderatore del comitato preparatorio per l'incontro di Kingston –. Il nostro incontro non vuole essere una semplice protesta contro la violenza, ma un modo per mostrare che si può percorrere un'altra strada e che questo è il ministero affidato a ciascuno di noi”.

Per una dichiarazione comune sulla pace giusta

Infine, dall’intreccio fecondo tra narrazione e riflessione teologica si è intuito che la Convocazione di Kingston avrebbe potuto raccogliere una grande sfida: provare a redigere insieme, con una forma di scrittura collettiva, una Dichiarazione ecumenica sulla pace giusta. Non un testo rigido e vincolante, bensì un materiale in cui cercare, mettendosi in ascolto della storia di oggi, di sottolineare il legame intrinseco e profondo tra ecumenismo e costruzione della pace, tra vangelo e nonviolenza. Del resto, se da un lato vi sono chiari esempi di situazioni in cui le comunità religiose e i loro leader sono stati parti di strategie di violenza e fondamentalismo, dall’altro non mancano anche parecchi esempi che mostrano il potenziale delle religioni nel supportare e promuovere il dialogo e la pace. Certo, l’ambiguità del ruolo delle religioni è reale per tutte le tradizioni religiose, comprese le chiese cristiane. Essa si manifesta particolarmente nelle situazioni in cui le religioni svolgono una determinata funzione nel sostenere richieste di identità etniche o nazionali. In questa prospettiva, anche nel nostro paese chiese, movimenti e associazioni, superando la stanchezza di una fase che appare, come dicevamo, di inverno ecumenico, hanno iniziato a guardare con interesse alle sfide di tale appuntamento, cercando di rilanciare le tematiche della Convocazione e la testimonianza nonviolenta di pace cui il messaggio evangelico chiama ogni credente. Inoltre, sono stati proposti vari momenti d’incontro, un convegno nazionale a Milano (2 giugno 2010), molto partecipato, ed è stato approntato un apposito sito (www.chiese-e-pace.it) contenente del materiale informativo. Nell’imminenza di Kingston, la rete ecumenica di giovani Osare la Pace per Fede ha proposto il 2 e 3 aprile scorsi, a Roma, una due giorni di approfondimento sui temi della Convocazione. Infine, vari soggetti italiani (dalla Federazione delle Chiese Evangeliche Italiane, a Pax Christi, dalle ACLI al Cipax) saranno presenti a Kingston – nonostante il lungo viaggio da sobbarcarsi - con propri delegati.

In Italia poca attenzione

“Pur sottolineando questi segni di vitalità – commenta al riguardo Massimo Ferè, tra i più impegnati nella preparazione all’evento, referente delle attività di Pax Christi nell'ambito del dialogo ecumenico e interreligioso - il contesto italiano appare sempre poco attento e ricettivo rispetto alla dimensione ecumenica internazionale, e quindi non si registra una sensibilizzazione diffusa sull’evento di Kingston. Tuttavia, lo sforzo di chi ha lavorato in questi anni e sarà presente in Giamaica è indirizzato a cercare di costruire anche nel nostro paese una Rete di chiese per la pace che all’interno del vasto e variegato movimento pacifista italiano, rinvigorisca l’opzione nonviolenta cui il vangelo invita”. Quello che si terrà tra qualche settimana a Kingston si preannuncia, in ogni caso, come il più folto incontro di sempre tra cristiani dedicato al tema della pace: sono infatti circa mille i delegati attesi in Giamaica, mentre parecchie chiese saranno guidate personalmente dalla propria guida spirituale. Più che un momento esclusivamente di riflessione, si tratterà di una celebrazione, un kairòs in cui rendere insieme testimonianza della pace di Dio come dono e responsabilità affidata a tutti i cristiani. E avrà in particolare al centro una giornata, quella di domenica 22 maggio, che nelle intenzioni del CEC dovrebbe vedere in ogni angolo del mondo cristiani riuniti insieme a pregare per la pace. Come sempre accade in questo genere di incontri, i lavori si concluderanno con un documento - la Dichiarazione comune delle Chiese sulla pace giusta - che sintetizzerà quanto emerso: un testo in cui Kingston verrà presentata non tanto come un punto di arrivo, ma come una tappa fondamentale da cui ripartire.
Il CEC, infatti, non ha alcuna intenzione di fermarsi a Kingston; lo scorso gennaio, durante il suo Comitato Centrale, si è deciso che il titolo (e quindi l’orizzonte tematico) della sua prossima Assemblea Mondiale, in programma per il 2013 a Busan, in Corea del Sud, sarà Dio della vita, guidaci verso la giustizia e la pace. Peraltro, l’orizzonte ampio ed entusiasmante descritto non impedisce di vedere le difficoltà emerse nel percorso preparatorio della Convocazione, sia per la resistenza culturale di alcune chiese sia anche per le grandi fatiche organizzative. Un gran tratto di strada deve essere indubbiamente ancora percorso! Ma la direzione è quella giusta… anche perché, al dialogo ecumenico, in vista di una convincente testimonianza cristiana per il pianeta globalizzato in cui viviamo, non si dà alternativa. Come ha ricordato, di recente (15/11/2010) aprendo l’Assemblea plenaria del cinquantesimo anniversario del Pontificio Consiglio per l’unità dei cristiani il suo nuovo presidente, cardinale Kurt Koch: “La speranza ecumenica è alimentata soprattutto dalla convinzione che il movimento ecumenico è l’opera grandiosa dello Spirito Santo; saremmo persone di poca fede se non credessimo che lo Spirito porterà a compimento ciò che ha cominciato, quando, dove e come lui vorrà. Con questa speranza continuiamo il cammino ecumenico, passo dopo passo. E questo, davanti alle difficoltà innegabili della situazione odierna, è già molto: è esattamente ciò che ci viene richiesto. Ed è l’essenziale”.