C’è ancora qualcosa da dire su Emmanuel Lévinas? Sul pensatore, cioè, che
dopo oltre tre lustri dalla sua scomparsa (1995), appare sempre più
trasparentemente come l’emblema principe del possibile riscatto di quel secolo
breve che ha regalato illusioni rivelatesi penose e disillusioni amarissime alla
volontà di potenza dell’uomo?
Pier Luigi Cabri, religioso dehoniano e docente di teologia già noto alla
critica lévinasiana italiana per i suoi precedenti studi sull’argomento, in un
volume tanto denso sul piano dei contenuti quanto accessibile su quello
linguistico dal titolo Sulla difficile arte di amare (EDB 2011), dimostra che
non solo è ancora possibile, ma – per certi versi – addirittura doveroso. Tanto
più che il vocabolario e il lessico filosofici, dopo di lui, non sono più gli
stessi. Ed è doveroso soprattutto su un versante a tutt’oggi relativamente
esplorato, nonostante la gran mole di lavori a lui dedicati. Ecco infatti la
domanda chiave che muove padre Cabri: «La filosofia di Lévinas può costituire
oggi un punto di riferimento importante anche per il pensiero teologico? Noi
riteniamo di sì. Il lettore che si avventurerà – verbo cui non ricorro a caso –
lungo i capitoli di questo libro, comprenderà che, negli attuali, accidentati
scenari di un pianeta già religiosamente globalizzato e di un’Europa ormai
postsecolare, sarebbe necessario senz’altro convertire quel può con un più netto
deve. E di cosa dovrebbe riflettere una teologia disposta a fare i conti con gli
odierni segni dei tempi, del resto, se non della centralità del rapporto tra
rivelazione e tradizione (come ha fatto con rara acutezza il pensatore ebreo
lituano naturalizzato francese, e come puntualmente mette in luce l’autore), ma
altresì dell’irruzione negli orizzonti occidentali del volto dell’altro, di
prossimità, responsabilità, e dell’inevitabile fragilità del bene? «Solo le
nostre relazioni con gli uomini – si legge, infatti, in Totalità e infinito –
danno ai concetti teologici l’unico significato che essi comportano. Senza il
loro significato tratto all’etica, i concetti teologici rimangono dei quadri
vuoti e formali».
Amore come responsabilità
Lo studio di Cabri è dedicato all'opera di Lévinas e, in particolare, a un tema
che il filosofo francese volutamente non esplicita a livello terminologico, anzi
lo esclude, in quanto ritenuto troppo svilito e non più rispondente al suo vero
significato. Si tratta del tema dell'amore, inteso come amore per l'altro o per
il prossimo, che egli riconduce all'orizzonte della responsabilità. È questo il
nome severo dell'amore, che dà accesso all'unicità, che apre – per così dire –
la porta al/del soggetto. Nelle parole volto, responsabilità, dono, ospitalità,
bontà e testimonianza – scaturite dal dialogo –confronto con filosofi e autori
contemporanei – risuona non soltanto il significato umano e infinito della
parola amore ma anche il grande valore che essa ha in Lévinas, tanto da divenire
strategica per la lettura e l'interpretazione dell'insieme del suo itinerario.
Arduo, peraltro, e persino impossibile, del resto, se non sullo sfondo
dell’autore di Altrimenti che essere, immaginare l’opera di teologi
contemporanei quali – ad esempio – Jon Sobrino con il suo vangelo letto
dall’ottica delle vittime, o Johann Baptist Metz, e la sua compassione come
programma universale di un cristianesimo consapevole del pluralismo di religioni
e culture nel quale è immerso.
Certo, la lettura teologica di Lévinas potrebbe produrre, in prima battuta, un
effetto di (stimolante) disorientamento, non solo per la sua dichiarata volontà
di «abbandonare il luogo greco verso una più ampia respirazione», ma anche
perché con le sue argomentazioni «siamo nell’ordine della rottura, come se il
concetto nel momento stesso in cui appare e viene formulato, immediatamente è
rimesso in questione». Tanto che «si può cogliere in lui una specie di
incompiutezza, un’instabilità e un’incrinatura nell’elaborazione del concetto
che va al di là del carattere dialettico che contiene in sé la scrittura». Non
stupisce, così, che nel libro si discuta apertamente degli storici malintesi
sorti fra Lévinas – ebreo di origine baltica ma non di ascendenza chassidica – e
il mondo religioso ebraico, della sua condizione di solitudine fra i suoi. Oggi
sono ancora pochi i rabbini che lo utilizzano. In effetti, sosteneva il
discepolo lévinasiano Salomon Malka citando il rabbino capo di Strasburgo
dell’epoca, René Gutman, “è difficile per il giudaismo religioso andare verso
l’altro, fino al punto in cui è andato Lévinas, senza che questo implichi in un
certo modo la cancellazione della propria identità”. Ed è appena il caso di
ricordare quanto, da allora, il termine identità si sia caricato di significati
non sempre limpidi, e talora persino fuorvianti, specificamente nel dibattito
sul ruolo pubblico delle religioni nella stagione del post-11 settembre. Al
riguardo del quale verrebbe da parlare di una felice inattualità del Nostro.
Come emerge da una frase confidata al filosofo Jacques Derrida – amico e
interprete di Lévinas – ripresa da una conversazione nella casa parigina di
questi: «Vede, si parla spesso di etica per descrivere quello che faccio, ma, in
fin dei conti, ciò che mi interessa non è l’etica, non solo l’etica, ma il santo
e la santità del santo». Affermazione sorprendente, ma che chiarisce: quello di
Lévinas è un ripensamento complessivo dell’orizzonte dell’umano, da intendersi
come il luogo unico in cui viene alla luce una trascendenza che impedisce
all’antropologia di rinchiudersi all’interno di un’immanenza autosufficiente e
paga di sé. Con la questione dell’umano che rimane, in lui, sempre aperta, a
generare un’inquietudine permanente, contro ogni forma di totalità e di
totalitarismo. Non si tratta tanto di rispondere all’altro, in senso dialogico,
quanto di rispondere dell’altro, prendendosi cura di lui, in senso etico. In
questa direzione, egli traduce così Levitico 19,18: “Ama il prossimo tuo: è te
stesso”.
Una pagina evangelica molto amata, Mt 25
Non è un caso che una delle pagine evangeliche più amate e più citate da Lévinas
sia il capitolo 25 del Vangelo di Matteo, che riporta la scena del giudizio
finale di Dio verso l’umanità, dove il criterio di giudizio è quello della
carità-amore verso il prossimo. Lévinas confessa apertamente l’ammirazione che
prova per quel passo, a motivi dell’amore concreto che quella pagina presenta,
amore scelto come criterio di giudizio verso l’altro. Ma egli si spinge ancora
oltre, con una bella riflessione biblica che, tra l’altro, lo mette in dialogo
con la tradizione ebraico-cristiana; troviamo qui anche un riferimento al
significato che per Lévinas ha la parola eucaristia, collocata in un contesto
ampio: «L’ultimo giudizio, quando Gesù si rivolge alla gente chiedendo: ‘Perché
non mi avete accolto?’, è il fondamento dell’insegnamento biblico. Io penso che
l’eucaristia sia questo, cioè Dio è presente nell’amore dell’altro».
Come il volume di Cabri evidenzia abbondantemente, il pensiero lévinasiano è
profondamente radicato nella vicenda ebraica: senza tale con-testo le nozioni di
umano, di altro, di relazione risulterebbero incomprensibili, o perlomeno a
forte rischio di fraintendimento. Ma anche le stesse considerazioni sul fatto
secondo cui l’etica precede l’ontologia, incentrate sulla visione offerta dal
Deuteronomio e sull’affermazione esodale attribuita al popolo guidato da Mosé
nel deserto: “Faremo e ascolteremo” (Es 24,7). Ha ragione l’autore: il reale
cuore pulsante di Lévinas, oltre che la sua possibilità di sviluppo più feconda
in prospettiva futura, risiede nella tensione che si instaura fra etica e
giustizia, fra l’universo della responsabilità e quello dell’equità. Da qui, il
puntuale invito, da parte di Cabri, a rileggere il filosofo centrandolo sulla
figura del terzo, elemento cruciale per una sua corretta e proficua
comprensione, ancorché non sempre preso in considerazione dai suoi interpreti.
Amore per l’altro amore per il prossimo
Un’ulteriore pista di riflessione che il libro mette in luce riguarda l’odierna
rivincita di Dio (G. Kepel), la globalizzazione e la deterritorializzazione
delle religioni, il ritorno sulla scena del religioso in chiave di sacro, che
caratterizza l’attuale fase storica. Dopo la stagione della morte di Dio e
dell’eclissi del sacro, in gran spolvero a metà degli anni Sessanta, in una
società europea che non pochi studiosi definiscono ormai secolarizzata e
postcristiana gli osservatori colgono sempre più spesso segnali (per quanto
controversi) di rilancio delle voci religiose e di ricorso ad una nebulosa di
spiritualità avvolgente, spesso in versione identitaria e fondamentalistica o di
supermarket interreligioso. A tale proposito, Cabri ricorda come Lévinas, nel
saggio Una religione da adulti, evidenziasse positivamente il fatto che il
giudaismo sia stato capace di disincantare il mondo, rompendo con la pretesa
evoluzione delle religioni a partire dall’entusiasmo e dal sacro: perché esso
«rimane estraneo a ogni ritorno offensivo di tali forme di elevazione umana, le
denuncia come essenza dell’idolatria». Del resto, è evidente che il monoteismo
così caratteristico del giudaismo, su questo versante, ha segnato una vera e
propria rottura con una certa concezione del sacro. In direzione di una parola
strategica che Cabri, spiazzando il lettore abituale del filosofo di Kaunas, ha
– come dicevamo – incentrato la sua fatica: la parola amore, amore per l’altro,
amore per il prossimo, al di là di qualsiasi pur auspicabile sua riconoscenza.
In tal senso, Lévinas ci sta largamente davanti, e la sua opera «ormai è
talmente ampia che non se ne vedono nemmeno più i confini» (Derrida). Con lui
dovremo abituarci a fare ancora i conti, e ancora a lungo. Felicemente. E senza
timori reverenziali.
Un piccolo ricordo personale
Mi sia concesso, infine, un piccolo ricordo personale. Ho avuto anch’io, come
padre Cabri che ne parla in conclusione del suo lavoro, la fortuna di conoscere
direttamente Emmanuel Lévinas, in occasione di un convegno di CEM Mondialità, ad
Assisi, ormai vent’anni or sono. Costantemente accompagnato dalla moglie Raïssa,
il filosofo, incurante del caldo torrido di quei giorni di fine agosto,
indossava di regola un completo scuro giacca e cravatta. Un giorno, per
alleviare un po’ la morsa del caldo, egli pensò di slacciarsi il bottoncino del
colletto della camicia: prima di farlo, però, chiese il mio permesso – stavamo
pranzando assieme – e soprattutto diede un’occhiata complice a Raïssa, in attesa
di un suo parere al riguardo. E solo dopo il sorriso accondiscendente di lei,
lentamente, si slacciò in effetti il bottone. La cosa – lo ammetto – mi aveva
colpito, tanto che ne ho una percezione ancor viva tutt’oggi: ma soltanto ora
posso dire di aver intuito a fondo il significato di quella richiesta, di quella
inusuale cortesia. Egli aveva compreso e fatto propria la difficile arte di
amare. E come nell’ebraismo il semplice gesto di mangiare un’oliva presuppone la
recita di un’apposita benedizione, una berakà di ringraziamento a Dio per il
dono ricevuto, nell’esistenza di Lévinas il semplice gesto di slacciarsi il
colletto della camicia sottintendeva un intero mondo. Come richiama
opportunamente Cabri al termine del suo avvincente studio: “Il bene illumina le
esistenze. La sua fragilità, tante volte richiamata da Lévinas a proposito dei
piccoli gesti e segni di bontà e di bene, non certo eclatanti, lontani
dall’ufficialità e dal formalismo, ma in grado di lasciare una traccia di
riconoscimento personale di altri, costituisce forse quella saggezza che non ha
nome, ma che è propria del linguaggio dell’amore”.